Qualche settimana fa, a cena da cari amici, parlando delle imminenti elezioni in Turchia, una loro battuta mi ha allarmato: "stai a vedere che a questo giro ti toccherà sostenere Erdogan".
L'osservazione è suonata subito inaccettabile alle mie orecchie, anche sotto forma di battuta.
"Sostenere Erdogan" è un concetto talmente estraneo ai miei orizzonti che sotto nessuna condizione può essere preso in considerazione.
Tuttavia la battuta aveva una sua ragione.
Avevo appena finito di elencare alcuni passaggi del programma elettorale del CHP, il partito di Kemal Kiliçdaroglu, lo sfidante uscito perdente ai ballottaggi di ieri contro Recep Tayyip Erdogan.
Tra i principali punti del suo programma l'entrata nell'UE e il rafforzamento dell'appartenenza della Turchia alla NATO, di conseguenza un immediato congelamento del processo di adesione ai BRICS.
Tre mosse le più detestabili e scongiurabili che si possano immaginare.
Ma sono sufficienti questi 3 punti per sostenere di conseguenza il nuovo mandato presidenziale di Erdogan?
No! Lo dico chiaro e lo ripeto: no!
È sufficiente lo spostamento sul piano di politica internazionale della Turchia verso l'Asia e i BRICS (con conseguente posizione intermedia nel conflitto ucraino, garanzia per un non pieno coinvolgimento della NATO nel conflitto) per farmi apparire Erdogan l'uomo giusto in questo momento storico?
No! Lo dico chiaro e lo ripeto: no!
Chi ha spianato la strada a Erdogan
Quando mi trasferii a Istanbul nel 2008 (dove ho vissuto fino al 2015), l'AKP di Erdogan era uno strano esperimento politico.
Da alcuni anni si era assicurato la maggioranza parlamentare, al punto da aver potuto eleggere un proprio membro, Abdullah Gül, con tanto di “first lady” con la testa coperta dal velo, a Presidente della Repubblica in un contesto di repubblica parlamentare.
Obama era stato da poco eletto presidente negli USA, gli anni della "guerra al terrore" di Bush erano finiti.
Nessuno più si chiedeva pelosamente se i precetti dell'Islam sarebbero potuti andare d'accordo con la democrazia occidentale.
Erdogan era l'esperimento che provava che sì, Islam (soprattutto se "Islam moderato") e Democrazia sono compatibili.
Ricordo in quegli anni (2008-2010) le corrispondenze che tenevo da Istanbul per alcune radio italiane.
La domanda più frequente che ricevevo era sempre la stessa: "allora, parlaci di questo Islam moderato".
Insomma, non dispiaceva a nessuno questo Erdogan.
Aveva persino trovato una via d'uscita per la sinistra atlantista: nessuno voleva criminalizzare l'Islam in quanto tale e se Erdogan, oltre ad aver chiarito questo punto, era riuscito anche a mettere in riga i militari turchi responsabili tra le altre cose della decennale guerra in Kurdistan, ben venisse dunque questo "Islam moderato"!
Quel biennio fu una effimera benedizione per la Turchia.
Da un lato la richiesta di adesione all'UE, inoltrata dai predecessori di Erdogan, e la ricorrente svalutazione della Lira turca, avevano dato il via al boom economico.
Dall'altro il potere militare, fin a quel punto indiscusso, era stato messo all'angolo.
Istanbul e così tutta la Turchia stavano finalmente "respirando".
Poi arrivò il settembre 2010.
Stanco della Corte Costituzionale, allora saldamente in mano al potere laico dello Stato, Erdogan promuove un referendum truffaldino.
Un pacchetto di 26 riforme costituzionali da accettare o rigettare in blocco.
Tra questi punti alcuni erano sacrosanti e la stragrande maggioranza dei cittadini turchi aspettava da anni queste riforme, come ad esempio la processabilità dei responsabili del golpe del 1980, fino a quel momento protetti per legge.
La comunità curda non si fece pregare e votò convintamente il pacchetto per ottenere finalmente giustizia. Lo stesso fece la sinistra turca.
Chi votò contro? Il CHP, per esempio, il partito di Kilicdaroglu.
Il fatto è che tra quei 26 punti del referendum costituzionale del settembre 2010, uno prevedeva la riforma della Corte Costituzionale, fin lì baluardo della laicità dello Stato e dell'equilibrio dei poteri.
Nessuno se ne diede pena. L'Unione Europea in coro salutava il sultano come difensore dei diritti umani in Turchia (!), colui che avrebbe avvicinato la Turchia all'Europa, mettendo finalmente i paletti all'esercito e ai militari.
I Curdi gli diedero fiducia, la sinistra turca pure.
E io che mi sgolavo nelle mie corrispondenze radiofoniche a dire: "No, ma quale moderato? Quale democrazia?".
"Va bene, però lui è stato votato, se non altro è un nuovo Islam che si dimostra capace di rispettare i principi democratici", mi dicevano dall'Italia persone di sinistra e i giornalisti che mi intervistavano.
E io di nuovo: "Ma quale democrazia? Affermarsi attraverso il voto è l'unica strada per Erdogan, un colpo di Stato contro i militari non è fattibile. Ma dove sta la democrazia nella retorica di Erdogan? Lo vedremo presto quale campione di democrazia possa essere".
In quei tempi girava un adagio, attribuito allo stesso Erdogan, che diceva: "La democrazia è come un tram. Ci sali sopra, arrivi dove devi arrivare e poi scendi".
La sbornia della fratellanza musulmana
Com'è come non è, solo pochi mesi più tardi, gennaio 2011, scoppiano le cosiddette "rivoluzioni arabe".
Erdogan e la sua Fratellanza Musulmana, appena battezzati pontieri tra Occidente e Islam, diventano la classe dirigente alla quale l'impero ha promesso il potere in Tunisia, Libia, Egitto e (nei loro sogni) in Siria.
Ma in quegli anni qualcosa va storto.
Non mi riferisco alla caduta di Morsi in Egitto nel 2014.
Ben prima.
Perché già nel 2013 Erdogan non va più a genio all'impero.
Il cane da guardia è troppo esuberante e morde la mano del padrone.
Obama si spazientisce: va rimosso. Non ne fa mistero.
Durante la protesta di Gezi a Istanbul nell'estate 2013 l'amministrazione Obama sta con i manifestanti e lo ribadisce con dichiarazioni ufficiali che fanno più danni di una contraerea.
Sembra un film già visto: una nuova rivoluzione?
No, Erdogan resta in sella.
Nel 2015 lascio Istanbul, l'aria è irrespirabile dopo la doppia tornata elettorale e la ripresa della guerra in Kurdistan (Erdogan e PKK bramavano entrambi quella guerra: il primo per ricompattare le fila e ripetere le elezioni non vinte con quel margine sufficiente per trasformare la Turchia in repubblica presidenziale; il PKK bramava la guerra perché Öcalan nell'aprile 2014 dal carcere aveva chiamato il PKK al disarmo unilaterale – da lì in poi non gli sarà più permesso parlare – e quindi sia per Erdogan che per il PKK quella guerra era un toccasana, vitale a entrambi per rimanere in sella).
Nel giugno 2016 avviene il tentato golpe, organizzato dagli ultimi generali rimasti fedeli alla laicità dello Stato, quindi all'Occidente.
Il tentato golpe parte dalla base di Incirlik, nel sud est del Paese, base per metà americana.
Tutti lo sanno in Turchia chi ha voluto quel golpe: Obama.
Qualcuno sa anche chi l'ha sventato: Putin.
Da quel giorno Erdogan smette di pianificare la conquista di Damasco e l'abbattimento di Assad e si concentra sui Curdi, nel frattempo passati con la NATO, non a caso.
Cosa sia successo in questi ultimi 7 anni (a parte le purghe post fallito golpe) si può riassumere in poche frasi: la Turchia diventa una repubblica presidenziale, l'economia turca perde slancio e l'Occidente continua a tramare invano il rovesciamento di Erdogan.
Queste elezioni
Per cercare di sconfiggere Erdogan alle presidenziali, l'opposizione turca si è riunita in una sorta di "alleanza nazionale".
Oltre al suo partito CHP, altre formazioni hanno dato indicazione di voto a favore di Kiliçdaroglu tra cui i Curdi e la sinistra turca.
Il partito curdo HDP (il cui leader, Salehettin Demirtas è in carcere dal 2016) entra nell'alleanza. Stessa cosa fa la sinistra turca.
"Respirare", mi confida in questi giorni un amico turco. Lo so bene, anch’io lasciai Istanbul nel 2015 per “respirare”.
Questa è la parola d’ordine. La Turchia deve respirare. Dopo il ventennio di Erdogan il paese sta soffocando.
Però no, Kiliçdaroglu non è e non potrà mai essere l'alternativa.
In lingua turca esiste un termine per indicare quelli di sinistra: "Solcular".
Non esiste però un termine che indichi chi ormai è talmente succube dell'agenda atlantista da essersi piegato ad ogni prurito americano pur continuando a percepirsi di sinistra.
Noi in Italia sappiamo come definirli: "i sinistrati".
E allora lasciate che proponga un termine agli amici turchi, un neologismo in Turco: ne avranno bisogno. Dovrebbe suonare più o meno così: "Solulcular" = sinistrati.
Consiglio agli amici turchi di riflettere su questo termine.
Noi in Italia abbiamo avuto un altro percorso, almeno nell'ultimo decennio. Il nostro sultano è stato abbattuto, proprio nel 2011. Il Berlusconismo da allora non esiste più.
Chissà se sarebbe mai evoluto negli anni successivi in quelle derive autoritarie e criminali raggiunte da Erdogan. Ma rispondere a questa domanda importa poco oggi.
Sono passati 12 anni, la storia è andata in un altro modo.
La Turchia rimane un Paese ribelle all'impero americano.
Noi in Italia siamo una colonia in ginocchio.
La ricetta della sinistra turca (e dei Curdi) non esce dai confini atlantici: mettersi in ginocchio, cercare un nuovo padrone più mite e più fedele all’impero americano.
E l'hanno individuato in quel partito che nel 2010 votò contro la riforma di Erdogan, votò contro i desideri dell'UE e venne allora tradito dall'Occidente.
Erdogan è alla fine un mostro, creato in laboratorio dall'Occidente e sfuggito ai comandi, anzi passato addirittura con il nemico.
Ma liberarsi di un mostro rivolgendosi a chi quel mostro l'ha creato è un'idea saggia?
Io non credo.
Questa sinistra imperiale, falsa, atlantica, drogata di finanziamenti, che gioca a occuparsi degli oppressi con i soldi degli oppressori, questa sinistra si è mangiata il cuore dell’opposizione in Turchia.
Ora, con questo articolo, siatene certi, in Turchia mi odieranno tutti, tale e quale come fanno in Italia.
Ma non abbiate dubbi, al tempo stesso. Se avesse vinto Kilicdaroglu in Turchia sarei stato censurato tanto quanto lo sono oggi qui in Italia.
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