Gianni Vattimo, filosofo torinese recentemente scomparso, è stato uno dei principali esponenti dell’ermeneutica contemporanea, ossia della teoria dell’interpretazione.
Egli ha ripreso la tesi di Gadamer secondo cui l’essere che può venir compreso è linguaggio: la verità non consiste dunque nella conformità della proposizione alla cosa, bensì nella trasmissione di un patrimonio storico e linguistico che rende possibile e orienta la comprensione del mondo. In tal modo viene escluso, sulle orme di Nietzsche, visto come l’autore che insieme a Heidegger ha posto le basi dell’ermeneutica filosofica contemporanea, il ricorso a princìpi primi e a concezioni globali.
Da questa premessa di carattere scettico scaturisce per la filosofia, secondo Vattimo, la necessità di rinunciare a qualsiasi ruolo fondativo e di configurarsi piuttosto come un “pensiero debole” e come una ‘ontologia dell’attualità’, capace di accompagnare e di contribuire a formare l’umanità in un mondo che non ha più bisogno di assoluti.
Orbene, la concezione filosofica, qui sommariamente riassunta, merita un commento di carattere critico, laddove un siffatto commento non va considerato come una mancanza di rispetto nei confronti del pensatore di cui è questione, ma come il massimo riconoscimento della sua importanza che possa essere a lui tributato anche da chi, come lo scrivente, non condivide il punto di vista del cosiddetto “pensiero debole” formulato e reso celebre proprio dal filosofo torinese.
Il nodo storico-filosofico sul quale è opportuno verificare l’importanza del contributo di Vattimo è pertanto l’interpretazione del pensiero di Friedrich Nietzsche: interpretazione per lumeggiare la quale ci si può servire del seguente apologo.
Immagini allora, il nostro lettore, di calarsi nei panni di uno studente che voglia studiare Nietzsche e che decida, a tal fine, di frequentare un dipartimento-tipo di filosofia.
La prima cosa che scoprirà è che i numi tutelari dell’Olimpo filosofico rappresentato in questo dipartimento sono Vattimo, Cacciari, Deleuze, Foucault e Bataille, tutti esponenti di una ‘vulgata’ interpretativa il cui principale obiettivo è, sia pure con modalità diverse, quello di denunciare la strumentalizzazione filonazista compiuta da Elisabeth Nietzsche ai danni del fratello e l’erroneità dell’interpretazione marxista-leninista di Lukács.
Immaginiamo poi che lo stesso studente, applicando opportunamente il metodo comparativo, decida di esplorare un dipartimento-tipo di storia, dove s’imbatterà in una linea interpretativa del tutto diversa rappresentata da storici eminenti quali Ritter, Hobsbawm, Elias, Mayer e Nolte, tutti concordi, sia pure muovendo da orientamenti tra loro assai diversi, nel collocare Nietzsche all’interno della reazione antidemocratica di fine Ottocento, donde parte il movimento sfociato poi nel fascismo.
In breve, il nostro studente, altrettanto scrupoloso quanto volenteroso, scoprirà che nelle aule di filosofia è d’obbligo l’‘ermeneutica dell’innocenza’, mentre in quelle di storia verificherà che un Mayer non esita ad esprimersi sulla filosofia di Nietzsche in questi termini: «Tutto può dirsi della nuova ‘Weltanschauung’ [la ‘visione del mondo’ di Nietzsche], tranne che fosse innocente».
Se poi lo storico statunitense testé citato dovesse essere considerato troppo inclinato a sinistra, ci si può rivolgere ad un esponente del revisionismo storico, quale è Nolte, il quale afferma esplicitamente che Hitler è un discepolo, peraltro timido e incoerente, di Nietzsche.
Insomma, piuttosto che lanciare i loro strali contro Lukács, gli ‘ermeneuti dell’innocenza’ dovrebbero confrontarsi con gli storici sopra citati e con gli studiosi più recenti e più accreditati del Terzo Reich (ad esempio Kershaw), i quali sottolineano il forte peso che la lettura di Nietzsche ha esercitato nella formazione ideologica di Hitler.
Ma veniamo ora al modo con cui lo studioso marxista Domenico Losurdo analizza il pensiero di Nietzsche. Si tratta, in questo caso, di una metodologia di tipo comparatistico applicata all’analisi storica: metodologia il cui presupposto è il principio dialettico, enunciato da Spinoza e ripreso da Hegel, nonché da Marx ed Engels, secondo cui “omnis determinatio est negatio” (ogni determinazione è una negazione).
Infatti, nella misura in cui esige una delimitazione dei suoi confini, la comprensione di un fenomeno storico comporta sempre un momento di analisi comparata. Ad esempio, una crisi, una rivoluzione rivela il suo significato se confrontata ad altre crisi e rivoluzioni.
D’altro canto, a differenza che in Heidegger, per Losurdo e per lo stesso Lukács comparare non significa assimilare e appiattire. Il giudizio negativo implicito in ogni determinazione può essere di tipo diverso.
Facendo tesoro della logica hegeliana (e Losurdo è stato, fra l’altro, membro della “Internationale Hegel Gesellschaft”, il più antico e più prestigioso centro di studi hegeliani), possiamo dire che c’è un ‘giudizio negativo semplice’ che si limita a negare la specie o un suo particolare, senza mettere in discussione il genere: questa rosa non è rossa, ma essa va tuttavia sussunta sotto il genere di rosa; una rivoluzione ha caratteristiche peculiari che la distinguono da un’altra, anche se l’una e l’altra devono continuare ad essere sussunte sotto la medesima categoria di rivoluzione.
Ma c’è anche il ‘giudizio negativo infinito’, che nega il genere in quanto tale: questa non è una rosa; questa non è una rivoluzione bensì un colpo di Stato; questo non è un genocidio ma qualcosa di diverso da determinare ulteriormente mediante ulteriori confronti. In ogni caso, ineludibile risulta il momento della comparatistica.
L’unica alternativa ad essa è il silenzio dinanzi all’ineffabile. Per orribile che possa essere, se deve essere detto, descritto e compreso, un avvenimento storico dev’essere comparato.
Sennonché, ai giorni nostri, sia la sinistra postmoderna che la nuova destra si sforzano di rimuovere le dichiarazioni più ripugnanti di Nietzsche sull’“annientamento delle razze decadenti” e sui “milioni di malriusciti”.
Losurdo osserva però giustamente, che sia per la sinistra postmoderna che per la nuova destra, la quale cerca di ridefinire il suo programma anti-egualitario in termini culturali piuttosto che naturalistici e biologici, l’eugenetica nietzscheana è qualcosa di ingombrante, di cui conviene sbarazzarsi.
Analogamente, sempre Losurdo fa notare che “Übermensch” viene reso, nella recente traduzione italiana di Baeumler, un filosofo degli anni Trenta, studioso di Nietzsche, poi approdato al nazismo, non con il tradizionale “superuomo”, bensì con “sovrauomo”.
Anche in questo caso balza agli occhi l’analogia con la traduzione di “oltreuomo”, che Vattimo adottò per legittimare l’‘ermeneutica dell’innocenza’ e liberare il termine di “superuomo” dalla sua pesante eredità storica.
Queste osservazioni critiche confermano che quella di Vattimo è una figura filosoficamente problematica, ma non tolgono valore – anzi l’aggiungono – al fatto che egli sia stato, sul piano politico, un uomo generoso e coraggioso, un cristiano vicino alla lotta dei comunisti e impegnato da sempre in quella contro il sionismo.
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