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21/09/2023

Il caso Schillaci è conseguenza della valutazione amministrativa della ricerca

Il caso del Ministro della salute Orazio Schillaci non è isolato. È il sintomo di una ben documentata ‘malattia’ della ricerca, che in Italia si presenta in forma particolarmente acuta a causa di un quindicennio di riforme bipartisan dell’università che hanno legato carriere e finanziamenti a numero di pubblicazioni e citazioni, esasperando le distorsioni del pubblica o muori.

Alberto Baccini è ordinario di Economia politica a Siena dal 2006, è uno dei massimi esperti dei meccanismi di valutazione della ricerca e dal 2011 fa parte della rete di ricercatori Roars (Return On Academic ReSearch) che critica la logica del mercato applicata a ricerca e università. Gli abbiamo chiesto del caso del ministro della Salute Orazio Schillaci, sollevato dal Manifesto e ripreso anche da Science.

Da professore di Medicina nucleare a Roma Tor Vergata, tra il 2018 e il 2022, Schillaci ha firmato otto articoli in cui compaiono, a conferma dei risultati delle ricerche, immagini al microscopio alterate o già usate per rappresentare cellule tumorali diverse. Si dice che le immagini alterate non mettono in discussione i risultati delle ricerche: sarebbero errori scusabili, non plagio.

Il plagio è un’altra cosa. Ma tutte queste forme di alterazione sono manifestazioni del cattivo funzionamento dei meccanismi di validazione della ricerca. Parliamo sempre di cattiva condotta scientifica.

Le anomalie sono state rilevate con un software apposito. La revisione delle riviste scientifiche, almeno di quelle serie, non dovrebbe evitare queste cose?

Non ce la fanno più, è ingenuo pensarlo, la quantità di pubblicazioni non lo consente. Oggi la peer review non è in grado di bloccare meccanismi di cattiva condotta. Si dice: sostituiamola con forme aperte di peer review. Normalmente è fatta da due revisori che restano anonimi, farla aperta significa pubblicare anche i nomi dei revisori. Una maggiore trasparenza permetterebbe ai lettori di farsi un’idea del processo che ha portato alla pubblicazione. Alcuni lavori mostrano che il tasso di ritrattazione più elevato si registra nelle riviste con impact factor più alto.

All’università di Stanford il rettore Mark Tessier-Lavigne si è dimesso per un caso di alterazione delle immagini. Ne conosce altri? Dovrebbe dimettersi anche Schillaci?

Non sono un esperto di immagini, mi sono occupato di altri tipi di cattiva condotta. Sul caso Schillaci dovrebbe indagare l’università, come è accaduto a Stanford. Casi di dimissioni ce ne sono stati tanti per plagio in Germania e altrove.

Si ritiene normale che il direttore di un laboratorio firmi tutte le ricerche, anche per ottenere maggiori finanziamenti, ma non possa controllare tutto. È così anche all’estero?

In genere i capi dei laboratori firmano tutto, dove ci sono grandi gruppi si attribuiscono le responsabilità di chi ha fatto cosa in un articolo. La firma del direttore serve ad aumentare gli indicatori bibliometrici del laboratorio, che quindi troverà più facilmente finanziamenti. Il meccanismo è generalizzato ma in Italia è più forte perché noi siamo sottoposti a una valutazione quantitativa: i fondi dei dipartimenti e i passaggi di carriera dipendono da quanto pubblichi e da quanto sei citato. E arriviamo a situazioni poco credibili di ricercatori che pubblicano un articolo alla settimana. Noi l’abbiamo documentato sul versante delle autocitazioni, un fenomeno che in Italia è più frequente rispetto ad altri Paesi del G10 dopo l’introduzione delle valutazioni quantitative della legge Gelmini (2010). C’è un problema gravissimo di valutazione amministrativa.

Perché si basa sugli indicatori bibliometrici come H Index?

Sugli indici bibliometrici e su valutazioni dell’agenzia governativa Anvur. Abbiamo regole che spingono i ricercatori a comportamenti non cristallini. Questo non avviene in Francia, avviene meno in Germania e in generale nei Paesi Ue. Finiamo per somigliare di più a Pakistan, Malesia, Arabia Saudita, Cina o Russia.

Qual è l’alternativa?

Si lascia che la comunità scientifica si autogoverni. Anche il modello inglese non prevede indicatori quantitativi, e quello francese solo commissioni di professori che decidono.

Anche noi abbiamo le commissioni per l’abilitazione e i concorsi, però se le vendono e se le comprano...

È una generalizzazione, ma anche in altri Paesi ci sono sono scandali per i concorsi. E non abbiamo risolto il problema con i meccanismi quantitativi.

Colpisce che il professor Schillaci abbia pubblicato di più da quanto è diventato rettore e poi ministro: 148 titoli dal 2019 su un totale di 430 in 30 anni. Colpisce anche lei?

Colpisce chiunque. Probabilmente si spiega con una policy del laboratorio che lo indica come coautore di tutti gli articoli, colpisce nel caso di un rettore ministro ma se ci mettessimo a cercare ne troveremmo altri. Il problema è che in Italia non c’è discussione su questi temi, altrove sì: diversi siti e blog segnalano articoli scientifici che hanno problemi.

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