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23/09/2023

È morto Giorgio Napolitano, il pessimo “migliorista”

Giorgio Napolitano mosse i primi passi della sua carriera politica nella Federazione di Napoli del PCI, diretta negli anni Cinquanta del secolo scorso da due dirigenti di alto profilo: Salvatore Cacciapuoti e Giorgio Amendola.

Fin da allora si rivelò un uomo politico preparato e prudente. Nel 1956 condivise il giudizio positivo della direzione del PCI sull’intervento militare sovietico in Ungheria. Dopo la morte di Palmiro Togliatti e l’elezione di Luigi Longo a segretario in occasione dell’XI congresso, quando Pietro Ingrao si scontrò da sinistra con il gruppo dirigente del partito (1966), Napolitano divenne coordinatore della segreteria e membro dell’Ufficio politico.

Sembrava destinato a succedere a Longo, ma al XII congresso (1969) gli venne preferito come vicesegretario, in coerenza con una scelta centrista, Enrico Berlinguer.

Il punto di svolta della carriera politica di Napolitano è la morte di Giorgio Amendola, che lo vede assumere il ruolo di capo della destra del PCI, quella che punta alla socialdemocratizzazione del partito, all’ingresso nell’Internazionale socialista, a stabilire buoni rapporti con il PSI di Craxi, alla responsabilità nei confronti dell’interesse nazionale, che significa moderazione salariale, ridimensionamento dei diritti acquisiti dai lavoratori (considerati come un’insopportabile espressione del massimalismo “operaistico”), rifiuto della “diversità” berlingueriana e della questione morale.

Proprio in questo periodo nasce e si diffonde, in riferimento alla destra comunista, il termine ‘migliorista’, che qualifica chi accetta il capitalismo come è, senza metterlo in discussione, proponendosi non di superarlo ma, al più, di migliorarlo.

La scelta di avvicinamento al PSI si esaurirà per due motivi: il primo è il crollo del muro di Berlino e la decisione di Occhetto di cambiare nome e ideologia al partito (il segretario pensa che, se il comunismo è fallito, anche la socialdemocrazia è in crisi); il secondo motivo è determinato nel 1992-1993 da Tangentopoli, con l’incriminazione, la latitanza e la condanna di Craxi e la sparizione del PSI.

A poco servirà la costituzione della corrente riformista del PDS, di cui Napolitano è formalmente il capo.

Più tardi risulterà chiaro che neppure il socialismo democratico soddisfa più l’ansia revisionista di Napolitano, che rapidamente approderà ad un liberalismo di stampo anglosassone disponibile a coalizioni con i moderati ed i conservatori, assumendo come suo maestro Isaiah Berlin.

Lo spiega efficacemente a Paolo Franchi, autore di una biografia intitolata “Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale” (Rizzoli, 2013), il dirigente socialista Rino Formica, il quale attribuisce a Napolitano un’attitudine presente nella nomenclatura del PCI secondo cui “l’inflessibilità del comunista consiste nella capacità di oscillare allo stesso ritmo della linea del partito”.

Sempre Formica si domanda: «E quando non ci sono più né la linea né il partito, come fa ad oscillare un figlio dell’aristocrazia intellettuale napoletana, di formazione crociana, togliattiano di destra più ancora che amendoliano? Gli restano due ancoraggi soltanto, ma molto forti. Il primo se lo è conquistato in prima persona, sulla scia di Giorgio Amendola: ed è l’Europa. Quanto al secondo, […] almeno in parte glielo ha lasciato in eredità […] Palmiro Togliatti: ed è il costituzionalismo liberale».

Sennonché a Napolitano la socialdemocrazia non basta, bisogna arretrare ancora e tornare al liberalismo. Ciò spiega, in linea di continuità con il suo passato, i tratti distintivi del suo ‘novennato’ presidenziale (2006-2015): la ricerca di unità ideale tra le diverse forze politiche, l’ossessione delle forme che spesso lo opporrà a Silvio Berlusconi, cui si aggiungerà, nella gestione della sua carica, un presidenzialismo sempre più accentuato.

La concezione revisionista di Napolitano trova conferma già nel discorso di insediamento, in cui afferma che va riconosciuto a fondamento della repubblica il “significativo e decisivo apporto della Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni”.

L’uomo del Risorgimento cui dichiara di ispirarsi è il moderato Cavour. Pesano poi nella sua visione la volontà e la convinzione che l’Europa vada conservata così com’è, subendo anche politiche economiche recessive, rispondendo positivamente ai ‘diktat’ della Commissione e della Germania, partecipando attivamente, sotto l’egida della Nato e contro i nostri stessi interessi nazionali, al massacro della Libia di Gheddafi voluto dagli Stati Uniti, dalla Francia e dall’Inghilterra (2011).

L’incarico di governo a Monti e al suo governo di “tecnici” è dettato da queste convinzioni e dall’idea che la sovranità popolare vada indirizzata a sostegno delle oligarchie lungimiranti e competenti, i veri agenti del cambiamento o, meglio, di un equilibrio del sistema borghese-capitalistico che è sostanzialmente immodificabile.

All’interesse nazionale, interpretato come obiettivo che coincide con un siffatto equilibrio e, in buona sostanza, con il rafforzamento dell’Unione Europea, vanno quindi sacrificati i redditi popolari e le garanzie sociali, e per far ciò occorre la solidarietà delle maggiori forze politiche.

Peccato che tra esse ci sia il partito di Berlusconi; che Monti – malgrado l’appoggio del Presidente, delle cancellerie dei principali paesi del continente e della tecnocrazia europea – lasci un paese prostrato e immiserito e non sia riuscito nella missione impossibile di rafforzare il polo dei moderati, rinunciando a quel ruolo di riserva della Repubblica che Napolitano gli aveva ritagliato addosso; peccato che il PD – grazie alla sua opera, oltre che per propri demeriti – sia diventato, per dirla con un eufemismo usato dallo storico inglese Perry Anderson, “il partito della sinistra invertebrata”.

Del resto, Napolitano è sempre stato coerente con la svolta ideologica e strategica (in questo caso verso una destra tutt’altro che invertebrata) che egli compì sul finire degli anni Settanta, quando fu il primo ‘comunista’ ad attraversare l’Oceano Atlantico per concordare con Washington, ospite dell’amministrazione americana, il definitivo passaggio di campo del PCI.

Quel passaggio di campo cui Enrico Berlinguer, fin dal 1976, aveva preparato il terreno affermando di “sentirsi protetto sotto l’ombrello della Nato”.

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