Anche se la data fondativa dello stato fantoccio del “Reich” nazista associato alla cittadina di Salò sul lago di Garda e in provincia di Brescia è teoricamente il 23 settembre, è stato ieri – il 18 – l’80° anniversario del discorso di Mussolini alla radio tedesca di Monaco di Baviera.
Annunciava la ripresa dell’alleanza con Germania e Giappone e i suoi presupposti, con la rifondazione, sotto ” tutela” delle “baionette” hitleriane, del Partito Fascista, ovviamente – secondo direttive emanate sempre dalla Germania il giorno 15 – diventato ” repubblicano” dopo la defezione della monarchia sabauda, ormai ex alleata dopo la destituzione e l’arresto del “Duce” del 25 luglio 1943.
Duce che del resto, il 12 settembre, nonostante lo scetticismo delle gerarchie naziste verso qualsiasi ipotesi neo-fascista nell’Italia occupata, dopo l’armistizio con gli anglo-americani del giorno 8, era stato liberato da un commando tedesco di parà e agenti segreti delle SS-SD guidate dal maggiore Otto Skorzeny dalla sua brevissima prigionia a Campo Imperatore, sul Gran Sasso in Abruzzo, dove il governo militare post-fascista del Maresciallo Pietro Badoglio lo aveva incarcerato.
La nuova retorica del fascismo “repubblichino”, sin dal famoso discorso di Radio Monaco, diventava emblematica certo di tutto il wagneriano “crepuscolo degli Dei” finale del regime, ma anche dell’essenza meta-storica del fascismo in senso generale.
Fra inconsistenza – e incoerenza – ideologica e la sua tendenza a camuffare la funzione reazionaria con linguaggio e pretese “rivoluzionarie”, senza scrupolo di contraddizione nelle realtà concreta.
Con l’accenno alla natura sociale – diventata parte della denominazione ufficiale della “Repubblica” fascista a partire dal dicembre 1943 – venivano rimossi 20 anni di collusione e dualismo fra Mussolini e Re Vittorio Emanuele III di Savoia e con tutto il mondo conservatore che la corte reale incarnava, dalla casta militare alle vecchie aristocrazie.
Il tutto nel disperato tentativo di recuperare quella dimensione di massa e “populista” che sin dal marzo del 1943 scioperi e manifestazioni operaie contro la guerra, nei grandi centri industriali del nord, mettevano in discussione.
Ma qualsiasi pretesa di riciclare il fascismo come un fenomeno “giacobino” o addirittura para-socialista sarebbe naufragato in pochi mesi proprio di fronte alla volontà dei padroni tedeschi, in particolar modo del generale SS Karl Wolff (massimo arbitro politico della gestione dell’occupazione in Italia), e della necessità della “repubblichina” di mantenere rapporti diretti con la grande borghesia industriale italiana.
Nel mentre la partecipazione dei ceti popolari alla Resistenza – compresa quella urbana, con i GAP comunisti – isolava socialmente in modo ulteriore il nuovo regime.
Altre ambizioni frustrate dalla realtà di fatto del Mussolini di Radio Monaco costringevano il fascismo “repubblichino” a riadattarsi.
La mancata adesione al nuovo esercito di leva del Maresciallo Rodolfo Graziani della stragrande maggioranza – l’85% – dei militari italiani deportati dopo l’8 settembre dai nazisti in Germania e Polonia, spingeva il regime di Salò, dominato soprattutto da figure del vecchio squadrismo (compreso il nuovo ‘segretario del Partito’, il gerarca fiorentino Alessandro Pavolini), ad affidarsi quasi esclusivamente alla forza paramilitari di milizie personali, come la famigerata X° Mas.
Mentre la “Guerra grossa” contro gli anglo-americani veniva delegata ai tedeschi, dando il proprio contributo bellico quasi esclusivamente alla repressione anti-partigiana e al rastrellamento degli ebrei italiani.
Mentre dopo 20 anni di retorica mussoliniana su sacri confini i “patriottici” fascisti accettavano la semi-annessione del Trentino-Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia alla Germania nazista, in due governatorati, rispettivamente l’ OZAV e l’ OZAK.
Contemporaneamente, la volontà di “normalizzare” istitutuzionalmente l’immagine del nuovo regime – in contraddizione con la fraseologia rivoluzionaria – cozzava con il mancato riconoscimento diplomatico della “repubblichina” da parte dei paesi neutrali, compresi i filo-fascisti Spagna e Portogallo.
Tanto era screditata la retorica bellica di Mussolini (a parte Germania e Giappone, solo Ungheria e Romania filo-naziste e la Repubblica cinese di Nanchino, fantoccio dei giapponesi, mandarono diplomatici a Salò). Era, appunto, l’ultimo necessario adattamento del futuro appeso di Piazzale Loreto: da primo degli alleati-vassali di Hitler a semplice “gaulaiter”, governatore indigeno del “nuovo ordine europeo” nazista, dominato da gerarchie razziali che certo non prevedevano gli italiani al primo posto.
Una parabola comunque non chiusa dalla fine della guerra, perché lo sdoppiamento fra pretesa natura anti-sistemica e istituzionalizzazione in senso conservatore classico si nota nella destra post-fascista anche di oggi: vedasi il finto “sovranismo” di Giorgia et similia.
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