Tra pochi giorni il Governo Meloni renderà pubblica la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, la cosiddetta NADEF, un importante documento di contabilità pubblica che definisce il perimetro finanziario della legge di Bilancio. Con la NADEF, il Governo mette nero su bianco quanto spenderà e quante tasse imporrà nel nuovo anno, andando così a definire il deficit pubblico (la differenza tra uscite ed entrate dello Stato) e l’effetto della manovra sul debito pubblico accumulato negli anni.
La NADEF ha dunque un significato eminentemente politico che può essere analizzato da due diversi punti di vista, uno interno all’Italia ed uno più ampio. Da un lato, quelle cifre riflettono le scelte di un Governo circa i settori sociali da sostenere con la forza della spesa pubblica, incidendo così sui rapporti di forza interni alla società italiana. D’altro canto, queste scelte non sono prese in autonomia dal Governo italiano, ma si inseriscono nella cornice dell’Unione europea – che impone precisi vincoli proprio alla spesa pubblica, il cosiddetto Patto di stabilità – e nel contesto globale, che vede il nostro Paese interconnesso con i mercati finanziari e commerciali di tutto il mondo; sotto questo profilo, la NADEF dimostra cosa un Governo sia disposto a fare, o a non fare, sul piano europeo ed internazionale, per assicurare al proprio Paese adeguati livelli di crescita, occupazione e stabilità finanziaria.
Bene, il Governo Meloni – in perfetta continuità con i Governi che lo hanno preceduto – si appresta a varare una manovra fiscale sotto il segno dell’austerità, cioè fatta di tagli alla spesa pubblica e maggiori tasse, perché opera nel solco della piena compatibilità con l’Unione europea ed i mercati finanziari, e riserverà le poche risorse concesse dalla rigidità dei vincoli di bilancio europei ai padroni e padroncini che rappresentano il blocco sociale di riferimento di qualsiasi governo di centro-destra. Ma andiamo con ordine.
Giorgia Meloni, unica opposizione parlamentare al Governo Draghi dei tecnici, dei banchieri, della plutocrazia, ha “finalmente” conquistato il potere e – dopo un anno di azione governativa – descrive così la prossima manovra di bilancio: occorre rimanere “con i piedi per terra perché la congiuntura è difficile”, bisogna “cancellare” le riforme del passato (il reddito di cittadinanza), “sprechi e inefficienze devono essere tagliati e le poche risorse che abbiamo devono essere utilizzate al meglio” in nome del “rigore”, con “attenzione all’equilibrio del bilancio dello Stato”. Addirittura, ai Ministri riuniti al primo Consiglio dopo la pausa estiva ha chiarito: “Quello che vi chiedo non è una semplice spending review, siamo stati scelti per fare scelte di rottura con il passato”.
Dunque, è la stessa Presidente del Consiglio a definire la prossima legge di Bilancio come l’ennesima sommatoria di tagli alla spesa e aumenti delle tasse.
Le uniche misure che sono state annunciate nei giorni scorsi sono un mero rifinanziamento di interventi già in corso, che non avrebbero copertura per il 2024 e per i quali il Governo starebbe cercando di trovarla. Si tratta del tanto decantato (da Confindustria) taglio del cuneo fiscale, che sappiamo finire direttamente nei profitti delle imprese, e dell’ennesimo palliativo pensionistico di quota 103, sempre in scadenza e da rinnovare. Una toppa che viene messa da tutti i partiti, anche da quelli che in campagna elettorale ruggiscono contro la riforma Fornero e, una volta saliti al Governo, dimenticano come d’incanto che l’unica misura giusta oggi sul fronte pensionistico è modificare radicalmente il sistema nel suo complesso, smontando tutte le riforme, dalla Fornero a ritroso, che hanno generato pensioni da fame e continuo innalzamento dell’età pensionabile.
A fronte di questi meri rinnovi di misure passate, che non apportano alcuno stimolo all’occupazione e al reddito, il Governo ha aperto alcuni fronti per provare a raccogliere qualche risorsa senza infastidire l’Unione europea, dunque senza ricorrere a nuovo debito. La prima evidente mossa in questo senso è stata l’abolizione del reddito di cittadinanza, che toglie risorse ai poveri e ai disoccupati. La seconda mossa è l’ennesima tornata di spending review, cioè tagli orizzontali alle spese di tutti i Ministeri – che ovviamente vanno a colpire la spesa sociale ed i servizi pubblici, a partire da scuola e sanità. Infine, il Governo sta valutando una nuova ondata di privatizzazioni che consentirebbero di racimolare pochi miliardi di euro oggi al prezzo di far perdere allo Stato anche quel minimo di controllo che ancora detiene in settori chiave come quello energetico (Enel), quello dei trasporti (ITA Airways) e quello creditizio (Monte dei Paschi).
Sono le ricette che da almeno trent’anni caratterizzano la politica economica di questo Paese senza soluzione di continuità, da governi di centrodestra e di centrosinistra, e che sortiscono sempre i medesimi effetti: i dati Istat sul secondo trimestre, che vede registrare una riduzione della produzione rispetto all’inizio dell’anno, così come le previsioni elaborate dalla Commissione europea, che ha rivisto al ribasso la crescita per i prossimi anni, ci confermano che le misure di austerità – che colpiscono i settori più deboli della società, lavoratori e disoccupati, arricchendo le fasce più ricche – hanno un impatto complessivamente negativo su crescita e occupazione.
In cosa si distingue, dunque, questa fase da quelle precedenti?
Probabilmente, il principale elemento di novità dal punto di vista economico è l’elevato tasso di inflazione che si registra da oltre un anno, prima concentrato nei soli settori energetici ma oramai diffuso – sebbene a ritmi più contenuti – in tutti i settori produttivi e – per via dei rialzi dei tassi di interesse decisi dalle principali banche centrali del mondo – anche nel settore finanziario. Dopo anni caratterizzati da prezzi fermi o addirittura in discesa, la ripresa dalla pandemia ha portato con sé un’ondata inflazionistica che rappresenta il principale strumento automatico di redistribuzione del reddito dai salari ai profitti nelle economie di libero mercato: salgono i prezzi di tutte le merci tranne che di una, il lavoro, cosicché il prezzo del lavoro – il salario – cade. In questa maniera, il cosiddetto “libero mercato” schiaccia i salari sotto il tallone dell’inflazione e garantisce una quota sempre crescente di reddito ai profitti, realizzando – con il semplice operare delle “forze di mercato” – quel continuo trasferimento di risorse dalle fasce più deboli della società ai redditi più alti.
Siamo dunque tornati ad una fase tipica del capitalismo in cui la lotta di classe è scandita dai ritmi dell’inflazione, ed è per questo che un Governo di centrodestra non deve neanche sforzarsi di promettere strabilianti tagli delle tasse al suo blocco sociale di riferimento: può limitarsi ad agitare la frusta dell’austerità contro lavoratori e disoccupati, nella consapevolezza che il “mercato”, per il tramite di continui aumenti nei prezzi di beni e servizi, sta già di fatto operando una redistribuzione di reddito dal basso verso l’alto. Non è un caso che il Governo non stia facendo nulla per controbattere gli effetti deleteri dell’inflazione sul potere d’acquisto, se non dare mancette misere (vedi l’assegno di inclusione), le quali non impediscono che l’inflazione svolga tale ruolo redistributivo.
Ecco spiegata la chiarezza cristallina con cui il Governo si appresta a varare l’ennesima manovra lacrime e sangue: oggi non servono particolari regalie, bastano austerità e repressione per fare del Governo Meloni il migliore servitore degli interessi delle classi più agiate.
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