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26/09/2023

Che Europa sarà?

di Guido Salerno Aletta

In Europa tutti gli Stati hanno i loro problemi, e mai come adesso ognuno sta cercando di risolverli con le sue sole forze, anche a costo di smontare quel minimo di solidarietà che ha caratterizzato l'Unione nella sua lunga e spesso travagliata esistenza.

Ogni crisi serve per rafforzarla, si diceva.

Ma stavolta è più difficile: l'invasione della Ucraina da parte della Russia ha dimostrato che l'Europa non è stata in grado di mettere a punto un meccanismo di sicurezza collettiva in grado di disinnescare un conflitto geopolitico sempre più acuto che ora la contrappone alla Russia sotto l'ombrello della NATO.

Bruxelles sul piano economico, ed ancor più Washington e Londra su quello militare, hanno cercato di attrarre Kiev nella propria orbita, senza considerare le conseguenze dirompenti che questo avvicinamento avrebbe provocato: la stessa retrocessione degli armamenti nucleari alla Russia, in pratica il disarmo strategico della Ucraina che fu deciso all'atto della sua indipendenza dalla CSI in cambio della garanzia della integrità territoriale, dimostrava l'estrema delicatezza della sua collocazione geopolitica. Di fatto, poi, gli Accordi di Minsk che furono sottoscritti da Francia e Germania come garanti nelle controversie tra Kiev e Mosca, non hanno avuto seguito concreto.

La situazione si è complicata ulteriormente col venir meno del gas che arrivava alla Germania direttamente dalla Russia: le condotte del North Stream sono saltate in aria.

Ed ancora, le importazioni del grano ucraino sono state interdette in alcuni Paesi dell'Est europeo, ed in particolare dalla Polonia che pure appoggia militarmente in modo assai deciso l'Ucraina, per evitare che il suo prezzo più basso metta in crisi gli agricoltori: la solidarietà sul piano militare evapora quando ci sono interessi economici immediati.

C'è silenzio sulla sorte dei milioni di ucraini espatriati un po' dappertutto, per evitare la guerra. Torneranno, non torneranno?

Come se non bastasse, la crisi dei migranti che provengono dall'Africa, mettendo in grave difficoltà l'Italia con arrivi mai così numerosi dalla Tunisia, ha dimostrato che anche l'Europa non ha la bacchetta magica. L'Accordo di cooperazione che era stato firmato a giugno scorso tra la Presidente della Commissione europea Von der Leyen ed il Presidente tunisino Saied non ha mai avuto attuazione, perché non c'è stata la necessaria unanimità tra i Paesi dell'Unione: alcune componenti politiche criticano aspramente la prospettiva di sostenere finanziariamente e politicamente un governo che si dimostra autocratico, e che conculca i diritti civili e le libertà democratiche fondamentali.

La controversia diplomatica si è fatta via via sempre più aspra, arrivando al punto che è stato rifiutato il visto di ingresso in Tunisia ai componenti di una missione di europarlamentari che avrebbero dovuto incontrare sindacalisti ed esponenti dell'opposizione locale.

In pratica, è stato fatto un buco nell'acqua: la disponibilità dell'Italia a coinvolgere l'Unione nella gestione della questione dei migranti non ha sortito altro effetto concreto che quello di enfatizzarne la solitudine in campo internazionale.

Portare poi la questione all'Assemblea generale dell'Onu, per chiedere non tanto una solidarietà di facciata nei confronti dell'Italia ma un piano di intervento concreto, ha dimostrato al mondo intero la palese debolezza dell'Unione europea: ognuno ha i suoi problemi da risolvere, spesso assai più gravi e complessi dei nostri.

Ci sono poi le vicende interne all'Unione da sistemare.

C'è ancora in ballo la riforma del MES, che l'Italia è rimasta l'unica a non aver ratificato: Roma traccheggia vistosamente, per contrattare un Patto di Stabilità non punitivo nei suoi confronti. Ma, nel frattempo, Francia e Germania ci mettono sotto pressione sulla questione dei movimenti secondari dei migranti: mentre Parigi rafforza i pattugliamenti alla frontiera di Mentone, Berlino sospende le ricollocazioni volontarie.

L'esito delle elezioni europee del prossimo giugno è ancor meno chiaro: le due grandi famiglie politiche tradizionali, i Popolari da una parte e la Sinistra con i Socialisti dall'altra, non sembrano in grado neppure stavolta di mettere insieme la maggioranza numerica necessaria per nominare la nuova Commissione. Nella scorsa tornata, furono determinanti i voti degli eletti italiani del Movimento 5 Stelle a consentire il superamento della impasse.

Ancora una volta, saranno consistenti i gruppi maggiormente critici dell'Unione: l'ECR che mette insieme Conservatori e Riformisti, ed ID che raggruppa i sovranisti di Identità e Democrazia. A questi si aggiunge un'altra componente, quella dei Verdi, molto numerosa nei Paesi del Nord Europa.

Due dinamiche saranno cruciali: la guerra in Ucraina ed i rapporti con la Cina, da una parte; la disponibilità di energia di origine fossile a prezzi competitivi in attesa che si vedano i risultati della transizione verso le fonti rinnovabili, dall'altra.

L'impegno politico ed industriale profuso nel lancio dell'auto elettrica si troverà di fronte alla prova della verità: si vedrà se continuerà ad essere un fenomeno di élite o diventerà un consumo di massa, e se i vincoli crescenti che vengono posti alla mobilità urbana e periurbana saranno accettati come una nuova normalità.

Potrebbe fallire miseramente il paradigma economico e finanziario che era stato teorizzato per assicurare la transizione alla Green Economy: tutto si fondava sulla previsione di prezzi progressivamente più bassi dei combustibili fossili e sul corrispondente aumento della tassazione di questi consumi da parte degli Stati che avrebbero potuto finanziare con queste risorse gli investimenti nelle fonti di energia rinnovabile.

Visto che i prezzi delle materie prime energetiche fossili continuano a salire, gli Stati non possono aumentare la tassazione di questi consumi, ma anzi sono indotti ad erogare contributi alle categorie più deboli.

Può esserci uno stallo soprattutto per l'Unione europea, che aveva disposto meccanismi d'asta sempre più severi per i diritti di emissione della CO2 e previsto una tassazione alla frontiera per equalizzare i costi dei prodotti importati dai Paesi meno virtuosi.

Per la Green Economy, il pericolo è quello dello sfilacciamento, della perdita di abbrivio: la recentissima marcia indietro annunciata dal Premier britannico Sunak, che ha sostenuto la necessità di una transizione più proporzionata e dilazionata nel tempo, cela il dubbio sulla sostenibilità economica e finanziaria del processo: i produttori di energia di origine fossile, petrolio e gas, tengono sempre molto alti i prezzi delle loro forniture. Basta vedere gli andamenti del prezzo della benzina.

Potremmo scollinare, o cadere pericolosamente all'indietro.

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