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27/09/2023

Oppenheimer: la crisi morale della scienza e il modo di produzione capitalistico

di Vincenzo Morvillo

Non smette di suscitare discussioni, polemiche e giudizi contrastanti Oppenheimer, l’ultimo film di Christopher Nolan uscito nelle sale circa un mese fa e incentrato sul “Progetto Manhattan” e la controversa personalità del fisico teorico americano.

Figura di spicco della comunità scientifica di inizio secolo per le sue indiscutibili doti analitiche e intellettuali, Oppenheimer contribuì alle nuove scoperte nel solco della meccanica quantistica che si andarono elaborando nei primi anni venti del ‘900, divenendo poi direttore del “Progetto Manhattan” e quindi “padre” della bomba atomica.

Insomma, sensibili al richiamo della grande sala ma soprattutto alle sirene della polemica culturale, abbiamo deciso di andare a vederlo anche noi quest’ultimo lavoro di Nolan e dunque sistematizzare alcune considerazioni critiche in questa breve recensione.

Una recensione che vuole invitare a riflettere più che tagliare giudizi affrettati.

Cominciamo col dire pertanto che Oppenheimer è una pellicola che, in tre ore di visione, apre indiscutibilmente a tante e dense osservazioni. In prima istanza sulla scienza e sulla sua oramai indiscussa subalternità al potere e ai governi.

Una scienza ormai vassalla e funzionale al Modo di Produzione Capitalistico e allo sviluppo di una tecnica i cui fini sono sottratti ai comuni cittadini, cui è riservato solo il diritto/dovere di utilizzarne gli strumenti per tutti i fini materiali ignorandone però i reali risvolti escatologici.

La fissione nucleare ne è un esempio eclatante.

Oppenheimer è perciò, in questo senso, un film sull’etica, che inevitabilmente interroga la scienza e il progressivo svilupparsi di essa sugli scopi ultimi delle sue scoperte e sulla moralità delle sue applicazioni alle sfere molteplici dell’esistenza.

È di conseguenza anche una pellicola sugli scienziati. La cui ambizione narcisistica e prometeica – ben descritta nel film al momento dell’esperimento Trinity durante il quale verrà fatto esplodere il primo ordigno nucleare – trascende spesso la significanza etica che dovrebbe sottendere al lavoro di ricerca per esondare invece in una promiscuità sperimentale che rischia, come il caso della fissione/fusione (i due piani simbolico-fisici sui quali il regista fa scorrere anche la struttura del film) di perdere di vista la vita umana.

È poi una pellicola sulla verità. Categoria filosofica e morale sulla cui definizione hanno inciso non poco le scoperte della stessa meccanica quantistica, relativizzandone, forse anche oltre le dovute possibilità ermeneutiche, il concetto.

Perché se è vero che, come ci dice Heisenberg, l’uomo modifica il reale anche solo osservandolo, è pur vero che c’è una verità irriducibile alle categorie interpretative.

Oppenheimer è poi un film sulla democrazia. E qui Nolan tocca il cuore nero degli Stati Uniti e il loro delirio imperialistico di egemonizzazione globale.

La costruzione della bomba si colloca quindi all’interno della “questione democratica” quale inesorabile scelta politica adottata dagli Usa a difesa dei propri valori o, viceversa, sotto forma di alibi per l’esercizio della propria potenza.

La Storia successivamente ci ha dato conferma che, ben lontano dall’essere uno strumento per la difesa della democrazia, la bomba atomica fu solo il primo atto criminale, la prima strage commessa – se si eccettua ovviamente quella dei nativi americani – dall’Impero statunitense per il dominio del mondo.

Una strage perpetrata con cinico pragmatismo non certo per piegare un Giappone allo stremo delle forze, ma per mandare un chiaro segnale di supremazia militare all’Unione Sovietica.

Così come la stessa prosecuzione della costruzione della bomba non fu certo finalizzata e propedeutica alla sconfitta del nazismo. Nazismo che peraltro il complesso militare-industriale statunitense ha sempre ritenuto un nemico ideologicamente “meno pericoloso” del comunismo.

Hiroshima e Nagasaki furono dunque due eccidi che potremmo definire, seppur con orrore, una prova di “laboratorio“ per l’affermazione del modello economico-politico e socio-culturale Yankee.

E sulla scia del tema democratico, Oppenheimer è a maggior ragione un film sul comunismo.

E su questo terreno il discorso si fa più complesso e scivoloso, tanto sul piano morale quanto su quello politico.

Perché il tema del comunismo nella pellicola non può prescindere dall’ambiguità e dall’inquietudine morale dello stesso Oppenheimer. Un uomo la cui vita si è venuta svolgendo in una sorta di intimo chiaroscuro, sospesa tra luci e ombre

Il fisico americano – a leggere la letteratura che lo riguarda – fu un uomo scisso tra un ego smisurato, il desiderio di affermazione, un indiscutibile antinazismo, l’impegno di servire il proprio paese e il suo profondo ma contraddittorio sentimento di giustizia e libertà.

Un crocevia morale sfaccettato nei confronti del quale egli si pose ai margini, senza mai operare una scelta definitiva.

Tanto in politica quanto nella sua attività di ricerca scientifica: ipocritamente il fisico quasi rinnegò – durante un dialogo col Presidente Truman che Nolan ben ricorda – la paternità stessa della bomba atomica, rifugiandosi dietro l’alibi della fisica teorica.

Una scelta da cui rifuggì addirittura in amore.

Se il comunismo infatti rappresenta o poteva rappresentare la liberazione dai vincoli del ‘dover essere’ borghese all’interno di un sistema stritolante e reazionario come quello capitalistico nella sua versione statunitense, allora finanche la tenera storia interrotta con Jean Tatlock – convinta e appassionata militante comunista, interpretata qui da Florence Pugh – può configurarsi nel film come un’allegoria dell’impossibilità/incapacità di Oppenheimer ad abbandonare ogni riserva psichica ed ogni obbligo superegoico – che fosse di tipo culturale, politico o sentimentale – per lasciarsi finalmente travolgere dall’emozione dell’eros (inteso in senso freudiano come pulsione vitale creatrice) e insieme da un irruento impeto di libertà e giustizia.

Abdicando viceversa in favore di un istinto tanatoico arcaico e conformista, nella sua declinazione più squisitamente politica (l’affermazione della potenza americana), che coinvolgerà alla fine l’intera umanità.

Perché senza alcuna riserva si può ben affermare che il Capitalismo come ideologia trionfante, con la sua implicita morale borghese, il suo paradigma imperialistico e il suo Modo di produzione incarnato dagli Stati Uniti d’America e dall’Occidente, è una macchina di distruzione e di morte.

Una macchina mandata avanti dal feticismo della merce, dalla spettacolarizzazione delle esistenze – cos’è un biopic se non la summa spettacolare di una vita, in questo caso quella dello scienziato? – dalla dollarizzazione della finanza e dalla produzione su scala industriale di armi, di guerra, di morte.

L‘atomica ne è quindi la sua più plastica dimostrazione.

Nel guardare il film però e nell’analizzarne quel sottoinsieme che fa esplicito riferimento al comunismo bisogna fare i conti anche e soprattutto con l’anti comunismo strutturale della società e della cultura americana.

Aspetto che non può non riflettersi sulla cinematografia hollywoodiana e sullo stesso Nolan.

Il quale, abbracciando l’ambiguità del suo protagonista, costruisce una pellicola in bilico tra slancio ideale utopico nei confronti del pensiero marxista – pur riducendone la valenza a filosofia depotenziata della prassi ad essa consustanziale – e ripiegamento opportunistico e timoroso nel guscio del sistema produttivo statunitense e occidentale.

Un ripiegamento ammantato ancora una volta, con l’ipocrisia che da sempre contraddistingue la cultura del nostro emisfero politico e il mondo liberal, da quegli inderogabili principi democratici che alla prova dei fatti si sono rivelati un’autentica mistificazione.

Come la stessa moglie di Oppenheimer, Kitty (interpretata da Emily Blunt), anch’ella ex militante comunista, si troverà a prendere atto durante il processo che il governo degli Stati Uniti intenterà contro il fisico proprio a causa delle sue passate simpatie marxiste.

L’aspetto linguistico-formale del film costruito secondo i codici tipici della spettacolarità a stelle e strisce, con la sua sfarzosità visiva, i suoi nolaniani sfasamenti temporali, le sue immagini iconiche e le sue traslazioni quantiche attraverso la messinscena, costituisce l’involucro senz’altro più adeguato a modellare per il grande pubblico una materia cinematografica complessa e seducente, restituendone i contorni essenziali con una forte carica Pop.

Antieroe pop ambiguo e tormentato risulta alla fine Oppenheimer. E pop divengono certamente la fisica e la meccanica quantistica.

Perfino l’energia atomica e la bomba acquisiscono tragici connotati pop. E questo può essere un rischio in un mondo che sembra tornato a muovere i passi di una macabra danza sull’orlo del precipizio nucleare.

Saprà l’umana hybris placarsi difronte al rischio dell’olocausto atomico e risvegliarsi dall’ipnosi della verità estetica – per citare il Vattimo appena scomparso con cui certo non eravamo d’accordo – tornando all’essenza di una verità dura, sostanziale, quanto meno per la propria sopravvivenza?

Anche su questo la pellicola ci ha imposto una riflessione, forse suo malgrado. Ma torniamo alle più strette valutazioni formali

Non tutto riesce per il meglio. Il film appare a tratti verboso e la magniloquenza delle immagini può spesso apparire eccessiva come in altri lungometraggi del regista britannico (Interstellar, Inception, Dunkirk).

Il tentativo iniziale di tradurre in immagini organiche alla narrazione le nuove scoperte della meccanica quantistica è di forte impatto ma non sempre chiarissime sono le coordinate da seguire e gli approdi, per un pubblico certamente non composto nella sua interezza da scienziati.

Non mancano alcune banalità, come la scena del primo incontro sessuale tra Oppenheimer e la Tatlock in cui lo scienziato, in pieno amplesso, è costretto a leggere in sanscrito. O alcune sovrapposizioni tautologiche nella drammaturgia.

Ma il tempo scorre e il film è godibile, sorretto com’è da una carrellata di divi straordinaria.

Su cui spicca, tra un tormentoso Cilian Murphy (Oppenheimer) e una impetuosa Emily Blunt (Kitty come si diceva), l’imperioso Robert Downey Jr.

Enigmatico Lewis Strauss dalla gamma espressiva capace di stratificare stati d’animo e dissimulare le tortuose vie del doppiogiochismo tra le trame oscure della politica statunitense.

A conti fatti lo spettacolo è ciò che l’industria cinematografica americana sa fare. E qua lo fa al suo meglio.

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