Il 18 settembre il governo ha approvato un disegno di legge che riguarda “l’istituzione della filiera tecnologico-professionale” e la “revisione della valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti”.
In questo modo sono state accomunate nello stesso disegno di legge due materie diverse tra loro, il cui filo conduttore comune può essere individuato solo nel progetto di andare verso un’istruzione classista e autoritaria ben coerente con i fondamenti ideologici fascisti della forza maggioritaria nell’attuale governo.
In questo articolo mi concentrerò solo sulla prima delle due questioni enunciate, cioè l’istruzione tecnologico-professionale, lasciando a un prossimo intervento la discussione della “valutazione del comportamento”.
Il disegno di legge del governo prevede una maxisperimentazione che coinvolgerà il 30% degli istituti tecnici e professionali già a partire dal prossimo anno scolastico 2024-2025. Tale sperimentazione è volta a costituire una “filiera formativa tecnologico-professionale” che prevede percorsi quadriennali integrati tra istruzione e formazione professionale.
Già dalla durata del percorso di studi emerge il carattere classista del disegno di legge, che riserva ai figli dei ricchi i percorsi dei licei quinquennali che danno accesso all’università che è invece negata a chi frequenta la cosiddetta filiera tecnico-professionale, destinata in linea di principio ai giovani delle classi popolari.
Una discriminazione molto forte poiché anticipa alla fine delle scuole medie la scelta sul percorso scolastico e formativo dei ragazzi che in caso di decisione verso la filiera tecnico professionale comporta l’esclusione da un futuro universitario.
Si comprende meglio, alla luce di questo dato, il ruolo degli insegnanti “orientatori” che dovrebbero essere presenti da quest’anno nelle scuole, ai quali sarà riservato anche il ruolo di limitare i sogni di promozione sociale dei giovani economicamente svantaggiati. In pratica, la selezione di classe sempre presente nella nostra scuola sarà resa istituzionale con l’esistenza di un percorso quinquennale riservato a chi può permetterselo e destinato alla formazione dei gruppi dirigenti e uno di serie B per chi sarà rapidamente inserito nel mondo del lavoro. Tutto ciò in barba al “merito” ormai iscritto nella dizione del Ministero un tempo della Pubblica Istruzione.
Passiamo a esaminare quale sarà il destino dei giovani una volta terminato il quadriennio tecnologico-professionale. Le possibilità sono due: sostenere un esame finale per ottenere un attestato che li avvii al lavoro, oppure, per chi ha ottenuto risultati migliori accedere alla formazione biennale presso l’ITS Academy, cioè la nuova denominazione degli Istituti Tecnici Superiori di cui abbiamo già discusso più volte su Contropiano.
Tutta la filiera tecnico-professionale sarà comunque concepita su base regionale e vedrà la partecipazione alla progettazione dell’istruzione dei privati, leggasi le imprese presenti sul territorio, fatto che già avviene per gli ITS Academy.
Inoltre, il disegno di legge riafferma la scelta di non destinare maggiori risorse pubbliche alla scuola (per le armi invece non ci sono limiti) ribadendo due volte che non ci dovranno essere costi aggiuntivi per la finanza pubblica per l’istituzione della filiera tecnologico-professionale.
Se fondi serviranno, si ricorrerà a finanziamenti privati su base locale che potranno anche prevedere la stipula di contratti di prestazione d’opera per attività d’insegnamento con “soggetti del mondo del lavoro e delle professioni”. Una strada peraltro già percorsa per gli ITS Academy, retti da fondazioni miste pubblico-privato, in cui la metà dei docenti è di provenienza aziendale. Quale sia il livello di impregnazione ideologica aziendalista e di sottomissione all’impresa trasmesso da tali docenti è facile da immaginare.
La precoce canalizzazione di alcuni percorsi scolastici verso il lavoro non rappresenta di per sé una novità, poiché è una scelta che fa parte delle direttive europee dalla metà degli anni novanta diventate un mantra sulla “scuola che deve formare al lavoro” e “che deve rispondere alle esigenze del mondo produttivo” ripetute sino a diventare un luogo comune di talk show e discorsi dei politici (oltre che dei frequentatori dei bar).
Tuttavia, non è per niente vero che nel nostro ordinamento sociale e costituzionale la scuola debba preparare al lavoro o peggio, come vedremo, a un determinato lavoro presso specifiche aziende.
La scuola in uno stato democratico come dovrebbe essere l’Italia ha il compito di formare e istruire i cittadini, pur nella diversità degli orientamenti di studio che tuttavia devono attagliarsi agli interessi e alle inclinazioni dei giovani e, non ai bisogni delle imprese. Deve essere una scuola che offre saperi umanistici, scientifici e tecnici, che apre a uno sguardo critico sul mondo in una condizione tendenzialmente egualitaria tra gli studenti e che per questo dà possibilità di promozione sociale ai giovani delle classi popolari non relegandoli da principio a ruoli subalterni.
Non c’è dubbio che in tempi di crisi economica e di alta disoccupazione giovanile, lo specchietto per le allodole di un lavoro sicuro possa attrarre l’attenzione di molte famiglie che temono per il futuro dei propri figli.
Purtroppo si tratta di una pericolosa trappola. Anzitutto, il cosiddetto “mercato del lavoro” è oggi imprevedibile cosi come sono difficilmente immaginabili gli scenari economici e produttivi a medio termine. Ciò che prevede il disegno di legge (e che è già praticato negli ITS Academy) è la preparazione dei giovani in base alle esigenze delle imprese di un certo territorio su base regionale o provinciale.
Per chiarire con un esempio: se in una provincia ci sono imprese che producono bulloni e in un’altra caciotte, la formazione dei giovani sarebbe incentrata su questo tipo di produzioni.
Tuttavia, è assai rischioso immaginare una formazione specifica per un certo tipo di produzione e se nel giro di qualche anno non si lavorassero, in quei luoghi, bulloni e caciotte a causa di un mutamento economico-produttivo, la scuola impostata su quelle esigenze diverrebbe anacronistica. In pratica, non si possono progettare delle istituzioni sulle esigenze immediate delle aziende di un territorio.
Più serio sarebbe certamente il percorso che si seguiva sino agli anni novanta, quando i giovani ricevevano dagli istituti tecnici una formazione non immediatamente finalizzata (che è l’unica vera formazione) e successivamente, dopo l’assunzione da parte di un’azienda, erano istruiti ai compiti specifici che vi avrebbero svolto.
Evidentemente, tale formazione interna rappresentava per le imprese un investimento sul giovane neoassunto, da cui avrebbero tratto profitto nel corso degli anni.
Oggi non è più così poiché la flessibilità e la precarizzazione dominanti nel mondo del lavoro non rendono più produttivo per le aziende formare giovani che resteranno al loro interno magari soltanto pochi mesi.
Questa situazione di precarietà occupazionale, che corrisponde a cambiamenti di filiere produttive, a delocalizzazione selvagge e a un mercato che non si regola affatto da sé come qualcuno crede, rende avventurista la costruzione di scuole ad hoc per un territorio.
Resta peraltro vero che nel mondo del lavoro le occupazioni di livello intermedio, a cui erano destinati un tempo i diplomati degli istituti tecnici, sono sempre meno disponibili a vantaggio di lavori a bassa qualificazione.
Ecco perché, in ogni caso, al di là della poco credibile propaganda ministeriale sull’alto livello delle “Academy” i percorsi scolastici sono e saranno sempre più incentrati sulle “competenze”, sorta di prontuario della flessibilità, a scapito dei saperi, quindi su percorsi poco qualificati che permetteranno alle imprese di utilizzare in modo flessibile e intercambiabile il “capitale umano” che esce dalle scuole.
Il progetto di Valditara, che riprende in forme peggiorative alcune idee già circolate in epoca morattiana è quindi un attacco mortale a qualunque pretesa di egualitarismo e distrugge definitivamente l’idea che la scuola possa essere luogo di emancipazione e di riscatto sociale.
C’è da sperare che da parte degli studenti giunga una risposta decisa e forte di opposizione a un progetto che riporterebbe indietro di decenni il sistema scolastico e il suo impianto istituzionale e culturale e anche la società italiana nel suo insieme, poiché non si deve mai dimenticare che la scuola, formando i cittadini, influenza anche le tendenze future della società.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento