La nuova offensiva militare aerea lanciata dalla Turchia contro obiettivi curdi in territorio siriano, dopo l’attacco realizzato il primo ottobre da alcuni militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) contro il ministero dell’Interno ad Ankara è stata l’occasione, da parte del regime turco, per confermare l’occupazione del nord della Siria.
Nei mesi scorsi Ankara e Damasco, anche grazie alla mediazione interessata di Mosca e Teheran (sostenitrici del regime siriano ma anche interessate a rafforzare le relazioni con la Turchia, con la quale hanno un rapporto di competizione) avevano intavolato delle conversazioni volte a iniziare un processo di normalizzazione delle relazioni.
A provocare uno stallo nei negoziati era stata però la presenza di contingenti e basi militari della Turchia nel Nord della Siria, che ovviamente il governo di Damasco considera illegali. La Siria continua a porre come precondizione a ogni normalizzazione dei rapporti il ritiro dal proprio territorio delle forze militari turche e delle milizie ad esse affiliate, come quelle dell’Esercito nazionale siriano, fondato nel 2017 da Ankara e costituito per lo più da arabi e turcomanni.
Da parte sua il regime di Erdogan ritiene l’occupazione del nord della Siria una “misura necessaria” per tutelare la propria sicurezza, affermando ad esempio che i due autori dell’attacco di inizio ottobre, provenienti dai territori siriani del Rojava controllati dalle Forze Democratiche, coalizione di gruppi egemonizzata dai movimenti curdi vicini al PKK come il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) e le Unità di protezione del popolo (Ypg).
Stamattina un bombardamento condotto dalla Turchia contro un presunto centro di addestramento delle Forze di sicurezza interna Asayish, legate all’Amministrazione autonoma del nord e dell’est della Siria nel governatorato di Al Hasakah, avrebbe provocato una ventina di vittime.
Giusto la scorsa settimana il Parlamento turco ha ratificato la decisione del presidente Erdogan di prolungare di altri due anni – finora il rinnovo era stato sempre annuale – la missione di occupazione del nord della Siria e la presenza di truppe di Ankara nel nord dell’Iraq.
In Siria si aggravano le condizioni di milioni di persone alle prese con una ricostruzione lentissima – rallentata ulteriormente dall’embargo occidentale nei confronti di Damasco – e con l’aumento dei prezzi dei carburanti e dei generi alimentari.
Nel frattempo in alcune aree del nord a ridosso del confine con la Turchia si sono intensificati gli scontri tra l’esercito siriano e milizie jihadiste come Ansar al Tawhid e Hayat Tahrir al Sham; nel governatorato di Idlib, in particolare, l’aviazione russa ha ricominciato a martellare le postazioni delle milizie vicine ai gruppi fondamentalisti. La scorsa settimana un attentato jihadista ha fatto strage ad Homs di cadetti dell’esercito durante una cerimonia di premiazione.
Negli ultimi mesi, poi, anche l’amministrazione statunitense ha di nuovo aumentato la presenza militare in Siria a sostegno delle Forze Democratiche Siriane. La coalizione a guida curda nelle scorse settimane ha arrestato il capo del Consiglio militare di Deir ez Zor, Ahmed al Khabil (appartenente ad un potente clan tribale locale) provocando una ribellione armata di alcune milizie arabe locali. I combattimenti sono cessati quando il comandante delle Fds, Mazloum Abdi, ha accettato di aumentare la rappresentanza delle tribù arabe della regione nelle istituzioni civili e militari controllate dall’Amministrazione autonoma del nord e dell’est. Ma nuove proteste sono esplose dopo la decisione delle istituzioni locali di aumentare i prezzi dei carburanti.
Infine nel sud della Siria, nel governatorato di Suwayda (adiacente alle alture del Golan, occupate e annesse da Israele dopo la guerra del 1967) continuano le proteste della locale comunità drusa che, scesa in piazza inizialmente per motivazioni economiche, chiede ora una transizione politica a Damasco e maggiore autonomia. Il 13 settembre due capi religiosi della comunità drusa hanno espresso il proprio sostegno alle manifestazioni, così come il governo degli Stati Uniti che ha organizzato un incontro tra alcuni emissari di Washington e alcuni rappresentanti delle tribù impegnate nella protesta.
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