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11/03/2024

Il Marx "verde" di Kohei Saito

di Carlo Formenti

Mi sono già occupato delle tesi del marxista giapponese Kohei Saito nella prima puntata dell'articolo "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog. In quell'occasione avevo discusso un suo libro dal titolo Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022). Poco dopo, l'editore Fazi ha dato alle stampe l'edizione italiana di un testo precedente, L'ecosocialismo di Karl Marx (Karl Marx's Ecosocialism), un saggio che ha avuto uno strepitoso successo in Giappone (mezzo milione di copie!) e che, grazie alle sue tesi provocatorie, presumo ne avrà altrettanto a livello mondiale. Ho quindi ritenuto opportuno dedicargli questo secondo intervento nel quale, da un lato, ribadisco le perplessità formulate nel primo, dall'altro tento di approfondire alcuni dei temi affrontati da Saito che mi sono parsi tutt'altro che privi di interesse.

Saito mette le mani avanti, riconoscendo che, se ci si limita a considerare la produzione marxiana "canonica", sembrano più che fondate le critiche rivoltagli sia dagli ecologisti che da coloro che lo accusano di eurocentrismo (1): il filosofo di Treviri, il che vale a maggior ragione per Engels, aveva ancora, infatti, una visione unilateralmente ottimistica della funzione storica del capitalismo, al quale riconosceva il merito di avere accelerato, non solo il progresso economico, ma anche quello civile dell'umanità, contribuendo a emanciparla dai vincoli sociali e ideologici che impastoiavano il mondo precapitalista. Dalla lettura di opere come il Manifesto emerge un Marx “produttivista”, entusiasta dello sviluppo delle forze produttive innescato dalla crescita dell'economia capitalistica, persino disposto a perdonare i crimini del colonialismo nella misura in cui “risvegliavano” dal sonno millenario le statiche civiltà orientali. Un punto di vista sostanzialmente condiviso dal successivo movimento marxista.

Saito ha l’indubbio merito di avere messo in discussione questa lettura, dimostrando come nelle opere della maturità (soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni '60 dell’Ottocento) la visione di Marx si sia progressivamente allontanata da questa concezione unilateralmente ottimistica del potenziale emancipatorio del capitalismo. Posto che il filosofo giapponese non è l’unico ad avere messo in luce come nel lavoro teorico di Marx si intreccino diversi “regimi narrativi” (2), l’originalità (ma al tempo stesso l’azzardo) della sua tesi consiste nel rintracciare in un uno di questi regimi narrativi una vera e propria svolta, in ragione della quale Marx sarebbe arrivato a considerare le “crisi ecologiche” come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Il rischio di anacronismo è chiaro, non solo e non tanto perché il paradigma ecologico era a quei tempi di là da venire, ma anche perché i riferimenti in tal senso che possono essere rintracciati nel Capitale (3) non sembrano svolgere un ruolo fondamentale nell’economia complessiva dell’opera maggiore. Eppure Saito nega che Marx abbia trattato il tema ecologico solo in modo sporadico e marginale. Vediamo su quali basi documentali.

La fonte primaria del suo ragionamento sono i quaderni di estratti, citazioni, commenti di lettura accumulati da Marx nel corso della sua esistenza. Non solo i già noti Quaderni di Parigi e Quaderni di Londra, ma l’enorme mole di inediti venuta via via alla luce con la pubblicazione (tuttora incompiuta) dei MEGA, un terzo dei quali sono stati redatti negli ultimi 15 anni di vita dell’autore. Questi estratti, sostiene Saito, non sono meno importanti dei testi “canonici”, in quanto documentano una serie di aspetti che nelle opere principali vengono accennati ma non approfonditi. Questa tesi poggia in particolare sul fatto che il secondo e il terzo volume del Capitale sono rimasti incompiuti e sono stati pubblicati postumi, dopo che Engels ne aveva rivisto e assemblato le stesure provvisorie. Secondo Saito, il “ritardo” accumulato da Marx nella stesura definitiva dell’opera fondamentale, va messo in relazione con i ripensamenti maturati negli ultimi anni di vita, ripensamenti che si rispecchiano negli appunti dei quaderni, i quali ci aiutano a comprendere cosa avrebbe scritto Marx se fosse riuscito a portare a termine la versione definitiva del Capitale. È evidente che questo approccio sottende l’esistenza di una divaricazione fra l’intenzione originaria di Marx e l’interpretazione che ne diede Engels redigendo la versione “ufficiale” dell’opera. Tuttavia non è questo il tema che qui mi interessa per cui, prima di entrare nel merito degli aspetti del lavoro di Saito che ritengo più interessanti, preferisco richiamare l’attenzione su due punti: il primo è la sua rilettura dei Quaderni economico filosofici, in quanto è un buon esempio dell’approccio che il nostro adotta laddove tenta di “mixare” un testo “ufficiale” con gli appunti coevi dei quaderni; il secondo riguarda le fonti scientifiche che avrebbero a suo avviso influenzato la svolta “ecologista” dell’ultimo Marx.

I Manoscritti economico filosofici, secondo Saito, non andrebbero letti come un’opera indipendente bensì come una parte degli appunti di studio di Marx raccolti nei Quaderni di Parigi. Questo approccio consente a suo avviso di superare la sterile contrapposizione fra marxisti “umanisti” e marxisti “scientisti”. Com’è noto, i primi rivalutano il pensiero del “giovane Marx”, impegnato nella critica della sinistra hegeliana, per affermare la centralità del concetto di lavoro alienato (4) in polemica con le interpretazioni materialistico-meccaniche del suo pensiero; i secondi (vedi, fra gli altri, Althusser) sostengono al contrario che, dopo L’ideologia tedesca, Marx avrebbe completamente abbandonato lo schema antropologico-hegeliano del 1844 per orientarsi verso una problematica “scientifica” (cioè verso la critica dell’economia politica, senza più indulgere a civetterie con la dialettica hegeliana). Ma in questo modo, argomenta Saito, i primi sottovalutano i successivi sviluppi del pensiero economico di Marx, mentre i secondi ignorano che è proprio la critica marxiana alla filosofia giovane-hegeliana che consente di cogliere il vero punto di partenza della sua critica dell’economia politica. Per superare il dualismo fra analisi sociologica e analisi filosofica, scrive Saito, occorre capire che, fin dall’inizio, Marx ha studiato l’economia politica analizzando le forme sociali delle categorie economiche e, nel contempo, ha studiato la filosofia e le scienze naturali per acquisire la base scientifica necessaria ad analizzare le qualità materiali della realtà. In tal senso non esiste dunque una sostanziale cesura fra il “giovane” Marx e il Marx “maturo”, e i quaderni (sia quelli giovanili che quelli dell’ultimo quindicennio di vita) vanno riletti in stretta connessione con la formazione della sua critica dell’economia politica e non come un grandioso progetto materialista di spiegazione dell’universo (il riferimento critico alla engelsiana Dialettica della natura è qui implicito).

I quaderni dell’ultimo Marx, si riferiscono alle opere di studiosi come il chimico Justus von Liebig, l'economista Henry Carey e il fisico Carl Fraas, tutti impegnati, ancorché a partire da punti di vista diversi e a volte divergenti, a denunciare il rischio dell’esaurimento dei suoli provocato dall’agricoltura di rapina praticata da proprietari terrieri e imprenditori agricoli esclusivamente preoccupati di ottenere il massimo profitto nel più breve tempo possibile. Non ho qui lo spazio, né lo ritengo indispensabile, per descrivere nei dettagli le loro teorie. Basti ricordare che, per Liebig, la questione di fondo era la mancata reintegrazione delle sostanze nutritive dovuta al supersfruttamento dei suoli, laddove Fraas attribuiva maggior peso all’influenza del clima, in particolare alle mutazioni climatiche indotte dalla deforestazione selvaggia, ma giungeva alle stesse conclusioni. Ad attirare l’attenzione di Marx, sostiene Saito, fu soprattutto la settima edizione (1862) della “Chimica organica applicata all’agricoltura e alla fisiologia” di Justus von Liebig. Le tesi del chimico tedesco lo indussero infatti a riconsiderare la tesi (condivisa da Engels) secondo cui la fertilità del suolo può essere accresciuta all’infinito con il concorso del capitale, del lavoro e della scienza. Ma Saito insiste soprattutto sul fatto che l’interesse di Marx per questo lavoro, come per quelli di Carey e Fraas, non era meramente scientifico-naturalistico bensì di tipo squisitamente economico. Marx, ragionando sulle teorie di Ricardo sulla rendita fondiaria, ne condivideva l’analisi del meccanismo di tale categoria economica, ma ne rigettava la tesi sulla legge dei rendimenti decrescenti, nella misura in cui essa, da un lato avrebbe legittimato la teoria di Malthus, dall’altro avrebbe indotto ad ammettere che anche una futura società socialista sarebbe stata inevitabilmente minacciata dal problema dell’insufficienza dei mezzi di produzione.

Viceversa le opere dei tre autori appena citati consentivano, secondo Marx, di indagare le cause dei rendimenti decrescenti non come manifestazione “assoluta” (trans storica) dei limiti naturali all’aumento della produttività, bensì come causa specificamente moderna (capitalistica) del fenomeno. Le loro opere, che Marx definiva “inconsapevolmente socialiste”, mettevano infatti in luce che il miglioramento del suolo operato dal capitalismo non mira a una produzione sostenibile nel lungo periodo ma all’utile monetario immediato, per cui investe capitale e lavoro solo nelle terre più redditizie, che finiscono così per esaurirsi, mentre le altre vengono lasciate incolte. Inoltre Liebig puntava il dito contro lo squilibrio fra città e campagna generato dall’industrialismo moderno (squilibrio che interrompe il ciclo delle sostanze nutritive, nella misura in cui gli scarti organici della città non tornano alla terra sotto forma di concime ma vanno dispersi nell’ambiente). Senza contare che questo antagonismo fra centri e periferie si manifesta su scala mondiale sotto forma di rapina delle risorse naturali e della forza lavoro dei paesi periferici.

In poche parole, Marx usa le analisi scientifiche di autori come Liebig, Carey e Fraas, per dimostrare che un'economia di mercato è incapace di realizzare una gestione razionale della terra come condizione di esistenza e riproduzione delle generazioni umane che si susseguono, e per affermare la necessità di un’agricoltura non mediata dal valore. Basta tutto ciò per avvalorare la tesi di Saito sulla presunta svolta “ecologista” (pur mettendo fra parentesi l’anacronismo associato all’uso di tale termine) dell’ultimo Marx, svolta che non sarebbe stata incorporata negli ultimi due volumi del Capitale solo perché la morte gli avrebbe impedito di portarli a compimento? Gli ecologisti obietterebbero che Saito non riesce a dimostrare che Marx abbia preso seriamente in considerazione la questione della scarsità delle risorse naturali, dal momento che pensa che il problema esista solo nel capitalismo mentre verrà superato nel socialismo attraverso il libero sviluppo della produttività. Per capire se, come e in che misura, Saito riesca a fronteggiare tale obiezione, nella seconda parte dell’articolo discuterò il modo in cui egli affronta due temi: la questione del processo lavorativo come ricambio organico uomo-natura, e la visione marxiana del rapporto uomo-natura nella società socialista.

*****

Saito parte dal presupposto che, per cogliere il contributo di Marx alla problematica ecologica, occorra partire dal rapporto fra quest’ultima e la categoria marxiana di reificazione, il che implica spostare l’attenzione della critica dell’economia politica dalle forme sociali ed economiche alle dimensioni materiali del mondo. Il concetto di materiale (stoff), argomenta, è una categoria centrale del progetto critico di Marx, tanto è vero che nel Capitale e altrove si ribadisce a più riprese:
1) che la produzione umana non può ignorare la proprietà e le forze naturali;
2) che il lavoro non può creare sostanze naturali ma può solo modificarne la forma, il che implica
3) che le forme economiche non possono esistere senza la base materiale.
Le teorie postmoderniste che si concentrano su categorie quali “lavoratori della conoscenza”, “lavoro immateriale” ecc. (5), e che descrivono la società tardo capitalista come un mondo economico, sociale e culturale disincarnato, integralmente riconducibile alle leggi dell’informazione, del linguaggio, della semiotica, non colgono il fatto che gli esseri umani non possono trascendere la natura, con la quale realizzano da sempre, e continueranno a realizzare finché esisteranno come specie, una unità mediata dal lavoro.

Tutto ciò emerge chiaramente nelle parti del Primo libro del Capitale in cui Marx analizza il lavoro in generale, cioè l’aspetto trans storico e universale della produzione umana. La specificità del lavoro umano è il suo carattere teleologico di attività che persegue un fine consapevole (vedi la nota metafora dell’ape e dell’architetto, con la quale Marx illustra la differenza fra l’attività umana e quelle di tutte le altre specie animali). Tale specificità, su cui l’ultimo Lukács ha costruito una parte significativa delle sue riflessioni (6), non basta però a liquidare il sottostante carattere del lavoro come ricambio organico fra uomo natura. Marx, scrive Saito, analizza il processo lavorativo come ricambio con la natura, ossia come interazione metabolica materiale di tre momenti della produzione che hanno luogo all’interno della natura: materie prime, mezzi di produzione e attività lavorativa, il che dimostra, aggiunge, come egli conoscesse e utilizzasse il concetto di metabolismo ancor prima di avere letto i lavori di Liebig (prima cioè del 1851).

Tuttavia i marxisti ortodossi tendono a sorvolare su queste categorie, considerando le parti del Capitale che se ne occupano come una sorta di inciso storico-antropologico, sostanzialmente marginale rispetto all’analisi marxiana della produzione capitalistica. Viceversa Saito sostiene che si tratta di concetti che non permettono solo di comprendere le condizioni naturali universali (trans storiche) della produzione umana, ma anche di indagare le loro radicali trasformazioni storiche in seguito allo sviluppo del modo di produzione moderno e della crescita delle forze produttive.

È qui che nel ragionamento di Saito entrano in gioco i concetti marxiani di alienazione e reificazione. Nelle relazioni sociali pre capitalistiche esiste una unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali, mentre il processo di interscambio materiale uomo-natura assume una forma del tutto diversa non appena esso può avvenire solo sulla base della radicale scissione insita nel rapporto lavoro salariato-capitale. In precedenza, i lavori concreti divenivano immediatamente sociali malgrado la varietà dei rispettivi contenuti, nella misura in cui la loro allocazione era organizzata prima di svolgere il lavoro concreto, al contrario nelle società di mercato la distribuzione avviene a posteriori, dopo l’esecuzione del lavoro, così gli oggetti d’uso diventano merci in quanto si tratta di prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro, senza alcun accordo sociale, e il loro interscambio dev’essere mediato dal mercato, cioè dal valore di scambio. È a questo punto che si produce quel capovolgimento per cui i rapporti sociali fra lavori privati appaiono come rapporti fra cose, ma questa, scrive Saito, non è una “illusione” (7) che nasconde l’essenza delle relazioni umane fondamentali, bensì un fenomeno oggettivo dal momento che i produttori non possono relazionarsi fra loro se non attraverso la mediazione del mercato. Detto altrimenti: il lavoro come ricambio organico uomo-natura è un’attività trans storica, ma si trasforma quando riceve una specifica funzione capitalistica come processo di valorizzazione.

Ciò significa che il metabolismo uomo-natura regredisce a fenomeno secondario eclissato dalle “leggi” dell’economia capitalistica? No risponde Saito, perché la sostanza presupposta (stoff), ancorché modificata dalle forme economiche, conserva una propria indipendenza nella realtà, l’indifferenza della determinazione economica formale non è del tutto svincolata dalle caratteristiche materiali dei suoi depositari, e le proprietà naturali materiali non possono essere integralmente sussunte sotto il capitale. È da questa irriducibilità della materia alla potenza manipolatoria del capitale che scaturisce la contraddizione antagonistica fra modo di produzione capitalistico e ambiente naturale, perché gli effetti distruttivi delle modifiche all’ambiente che la società capitalistica apporta a quest’ultimo, in modo consapevole e inconsapevole, non possono essere controllate. Ma soprattutto – e qui Saito si differenzia dalle posizioni dell’ecologismo ingenuo – è inutile sperare che una ipotetica “vendetta della natura” induca il capitalismo ad autoregolare i propri comportamenti. Infatti il capitale, spinto dal suo insopprimibile impulso all’accumulazione illimitata, può continuare a trarre profitto dallo sfruttamento delle ricchezze naturali a tempo indeterminato, rendendo gran parte della Terra un luogo inospitale per l’umanità, e ciò almeno finché non si verifichino condizioni tali da configurare la possibilità di una estinzione della vita umana. In altre parole, la contraddizione si risolve solo con il superamento del modo di produzione capitalistico. Vediamo ora come Saito cerca di attribuire a Marx l’idea che quella  appena descritta fosse la contraddizione fondamentale del capitalismo, e come descrive il presunto contenuto “ecologista” della visione marxiana della futura società socialista.

Come abbiamo visto, per sostenere la propria tesi, Saito fa riferimento agli appunti inediti di Marx venuti alla luce con la pubblicazione dell’edizione MEGA, ai quali attribuisce il carattere di abbozzi per una revisione del testo definitivo del Capitale, testo che avrebbe sancito un ribaltamento radicale del suo giudizio positivo in merito al potenziale emancipativo del modo di produzione capitalistico. Tuttavia il filosofo giapponese segue anche un’altra linea interpretativa, che potremmo definire come una sorta di linea rossa che, a suo avviso, congiungerebbe i testi giovanili con alcune riflessioni dell’ultimo Marx sollecitate dal dibattito fra socialdemocratici e populisti russi (8) in merito alla possibilità di una transizione diretta al socialismo delle comunità contadine russe (obscina).

In buona sostanza, Saito sostiene che Marx non avrebbe mai abbandonato la sua intuizione del '44 relativa all’esistenza di una unità originaria tra uomo e natura nelle società precapitalistiche. Analizzando le relazioni sociali feudali, scrive Saito per esempio, Marx mette in luce come esse si fondassero sul dominio personale e politico, che dipendeva a sua volta dalla tradizione e dai costumi, e dal quale non era esente una certa quota di contenuto affettivo. Viceversa i moderni braccianti sono liberi dal dominio politico diretto, sono soggetti giuridici liberi ed eguali, il che non implica tuttavia che essi godano di una vita migliore dei servi della gleba. Dal matrimonio d’amore con la terra, commenta Saito, si passa al matrimonio d’interesse e tanto la terra quanto l’uomo decadono allo status di valori commerciali (9). Il dominio non sparisce ma al posto del dominio personale subentra un dominio impersonale e reificato. Tutta la produzione non è più diretta alla soddisfazione di bisogni personali concreti bensì alla valorizzazione del capitale, per cui si potrebbe dire che l'alienazione moderna scaturisce dal totale annientamento del lato affettivo della produzione.

Al pari di molti marxisti “eretici” sudamericani (10), Saito è convinto che certi interventi dell’ultimo Marx, come la Critica al programma di Gotha, la polemica con il traduttore russo del Capitale e la lettera alla Zasulic, oltre ai quaderni di appunti del suo ultimo decennio di vita, siano assai più vicini all’umanesimo delle opere giovanili che al Marx “produttivista” e ammiratore del progresso tecnologico, sociale e culturale associato allo sviluppo capitalistico delle forze produttive. Seguendo le tracce degli autori di scienze naturali citati in precedenza, e le loro argomentazioni in merito ai limiti naturali dell’aumento della produttività agricola, e sulla scorta di un intenso programma di ricerca antropologica basato sull’analisi delle società premoderne di autori come Morgan e altri, Marx avrebbe ripreso concetti risalenti alle sue ricerche giovanili, a partire dall’idea della necessità di ricostruire il rapporto morale dell'uomo con la terra, ancorché a un livello superiore rispetto a quello proprio delle società precapitalistiche, dopo la loro distruzione da parte del capitalismo. Del resto la presenza, nei suoi rari accenni alle caratteristiche della società post capitalista, di formule come “appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo” e come il permanere del regno della necessità, inteso come riconoscimento del fatto che la produzione di beni materiali è fondamentale in qualsiasi società, anche nel comunismo, dimostrerebbe, secondo Saito, il fatto che per Marx la società a venire non sarà altro che un'organizzazione e una regolazione collettiva e consapevole del rapporto fra uomo e natura.

Brevi note conclusive

A conclusione di quanto sin qui scritto, non posso che ribadire il giudizio che avevo espresso dopo la lettura di Marx in the Anthropocene: la pur imponente mole di indizi – non di prove: uso questa distinzione mutuata dalla terminologia giudiziaria per sottolineare che una tesi radicale come la sua avrebbe avuto bisogno di argomenti più inoppugnabili – esibiti da Saito non basta a sostanziare l’idea secondo cui Marx sarebbe arrivato, negli ultimi anni di vita, a considerare l’antagonismo fra capitalismo e ambiente come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Intendiamoci: non è mia intenzione negare che nell’ultimo Marx si trovino elementi che contraddicono certe sue precedenti esternazioni nei confronti del ruolo progressivo del capitalismo (sviluppo delle forze produttive, emancipazione dai ristretti orizzonti civili e culturali delle società premoderne, ecc.), del resto ho sostenuto io stesso questa tesi in più occasioni (vedi i libri citati in nota 5) sulla scia di molti marxisti sudamericani (vedi nota10). Ma ciò non giustifica l’ipotesi che la “questione ecologica” (sempre mettendo fra parentesi l’evidente anacronismo associato all’uso di questo termine) sarebbe divenuta per lui più importante di quella del conflitto capitale/lavoro. Il che non impedisce naturalmente di utilizzare le sue analisi relative ai danni devastanti arrecati agli esseri umani e alla natura dalla ricerca illimitata di profitto, interpretandole tuttavia più correttamente come intuizioni anticipatorie e non come atti fondativi della problematica ecologista.

Più complessa la questione relativa alla valorizzazione di certe caratteristiche delle società premoderne (assenza di proprietà privata, democrazia comunitaria, relazioni umane non alienate, ecc.) come “modello” (sia pure da replicare a un livello superiore) della futura società socialista. Anche qui non mancano a Saito alcune pezze di appoggio per sostenere la propria tesi, ma anche qui si espone al rischio di anacronismo, ma soprattutto al rischio di ignorare l’enorme mole di problemi accumulatisi in più di un secolo di tentativi concreti (non ideali!) di costruire una società socialista.

Personalmente condivido in toto la sua sensibilità nei confronti del tema del lavoro come dimensione trans storica del ricambio organico uomo-natura, sensibilità che lo accomuna all’ultimo Lukács e gli consente di cogliere quello che è a mio avviso l’unico vero principio del materialismo radicale. Ciò detto, considero irrealistico immaginare che su tale principio si possa fondare l’ipotesi del socialismo come un “ritorno” a relazioni armoniche uomo-natura di tipo pre moderno. L’armonia in questione, se e quando potrà essere raggiunta, sarà l’esito di un lungo percorso storico costellato di mediazioni e contraddizioni. Contraddizioni di cui l’esperienza cinese rappresenta un esempio significativo: per strappare centinaia di milioni di esseri umani alla miseria lo stato-partito cinese ha dovuto imboccare la via di una industrializzazione a tappe forzate che tutto era meno che ecologicamente sostenibile, tuttavia, dopo avere ottenuto risultati strabilianti sul fronte della crescita – inattingibili sia per una società ispirata al paradigma neo liberale sia per una società ispirata al paradigma della decrescita – il socialismo con caratteristiche cinesi sta ora rettificando il tiro e investe risorse ed energie sempre più ingenti per migliorare sia il benessere degli esseri umani che gli equilibri ambientali.

Note

(1) Un autore che rimprovera a Marx, ma ancor più ad Engels, di avere una visione eurocentrica della storia è Hosea Jaffe (vedi, in particolare, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995 e Abbandonare l’imperialismo, Jaka Book, Milano 2008). Restando in campo marxista, si possono trovare accenti analoghi, anche se meno radicali, in alcune opere di Samir Amin. Personalmente mi sono occupato del tema in un post dedicato alla raccolta di scritti di Marx ed Engels India Cina Russia (il Saggiatore, Milano 1960); vedi “L’eurocentrismo ‘funzionale’ di Marx ed Engels”.

(2) Dobbiamo l’analisi più convincente e raffinata dell’esistenza di differenti regimi narrativi nell’opera di Marx a Costanzo Preve: cfr. La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.

(3) Saito esibisce numerose citazioni del Capitale a sostegno delle proprie tesi in Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022), ne ho a mia volta rilanciate alcune nel post "La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione", uscito il 18 gennaio scorso su questo blog.

(4) Nei testi giovanili, scrive Saito, Marx distingue quattro diversi tipi di alienazione: 1) il prodotto del lavoro si manifesta ai lavoratori come un oggetto estraneo con un potere indipendente dai produttori 2) ciò avviene perché le attività dei produttori appartengono ad altri con conseguente perdita di sé (il lavoro si riduce a mero mezzo per la propria sussistenza; 3) da 1 e 2 deriva che i lavoro alienato aliena all’uomo il genere (nel senso cioè che nega la libera creatività umana che può produrre qualcosa di indipendente dai bisogni fisici); da 1 2 e 3 deriva infine 4) dallo straniarsi dell’uomo dall’uomo emerge una antagonistica e atomistica competizione per la sopravvivenza. Evidentemente tutto ciò può essere superato solo superando la proprietà privata.

(5) Cfr. A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. La polemica contro la retorica dell’immateriale degli autori postmodernisti è stato uno dei leitmotiv di tutti i miei lavori recenti: cfr. in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011; Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013; Il socialismo è morto. Viva il socialismo,Meltemi, Milano 2019; Guerra e rivoluzione (2 voll.), Meltemi, Milano 2023.

(6) Cito qui di seguito ampli stralci dal primo volume di Guerra e rivoluzione laddove discuto le riflessioni dell’ultimo Lukács (cfr. Ontologia dell’essere sociale - 4 voll. - Meltemi, Milano 2023) sulla categoria marxiana del lavoro: “Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukács, può essere colto solo se si capisce che, per lui, il lavoro è la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni sono presenti in forma embrionale. Per Marx, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico, ma è “ l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”. È perciò che il lavoro è il modello di ogni prassi sociale, e solo tenendone conto si giustifica la definizione del marxismo come “filosofia della prassi”. Ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, Lukács scrive che “in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica”, e subito dopo aggiunge: “ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’‘economismo’ ”. Il lavoro, tuttavia, non può essere considerato isolatamente, perché, se è vero che la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono dal lavoro, è altrettanto vero che tutte le categorie in questione non nascono “in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente”. Questo passaggio rispecchia l’impegno di Lukács nel separare il materialismo dialettico da quello meccanicistico. Infatti, se si assume che nel lavoro “la coscienza diviene qualcosa di diverso del semplice adattarsi animale all’ambiente, diviene cioè un’entità in grado di compiere trasformazioni nella natura che altrimenti, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”, occorre parimenti ammettere che la coscienza non può essere considerata un epifenomeno. (...)

Per Lukács , mentre ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, al tempo stesso non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro in quanto ricambio organico fra uomo e natura (…). Porre la centralità del lavoro come ricambio organico uomo–natura a fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale, è una scelta che comporta conseguenze impegnative sul piano filosofico, politico e ideologico. In primo luogo, implica riconoscere la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta, in quanto essa è l’unica che occulta il fondamento concreto-ontico del lavoro per poterlo ridurre, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro lato, a fonte del valore di scambio. Ciò viene rimosso da quelle interpretazioni del pensiero marxiano che mirano a svalorizzarne gli elementi “metafisici”, contrapponendovi la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica, sviluppate dal Marx “maturo”.

Come si vede, e come apparirà ancora più chiaro nel proseguo dell’articolo, l'approccio di Saito è chiaramente debitore del contributo filosofico di Lukács.

(7) Qui Saito si allinea a Gramsci e Lukács nella misura in cui rifiuta la concezione dell’ideologia come “falsa coscienza”. L’incapacità di riconoscere la realtà materiale dei rapporti sociali dietro le “fantasmagorie” della merce non è frutto di “illusione”, ma è un fattore costituivo, materiale dell’egemonia delle classi dominanti.

(8) In merito a tale dibattito vedi quanto ho scritto nel post citato alla nota (1). vedi anche P. Poggio, L’Obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.

(9) Qui è riconoscibile il debito di Saito nei confronti di Karl Polanyi (La grande Trasformazione, Einaudi, Torino 1974) autore che Saito evoca più volte anche nel libro citato in nota (3).

(10) Basti pensare ad autori come J. C. Mariategui (Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1972; E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009; A. G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015.

Fonte

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