L’avanzata e soprattutto l’allargamento dei paesi Brics sono un problema ormai molto consistente per la propaganda che deve vendere la storica “superiorità occidentale”. Soprattutto sul piano economico.
L’ingresso, un anno fa, di altri quattro paesi (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti), ha portato quell’area a rappresentare il 35% del Pil e quasi la metà della popolazione mondiali, mentre il G7 (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Italia, Francia e Germania) è sceso ormai al 30% del Pil, con appena un sedicesimo della popolazione. Particolari decisivi: la quota del Pil “occidentale” continua a scendere velocemente e l’età media nei Brics (e nei candidati) è molto bassa, mentre l’area G7 sente il morso del calo demografico, con popolazioni che invecchiano e fisiologicamente escono dalla produzione (nonostante il costante aumento dell’età pensionabile).
Anche il fatto di controllare il 42% della produzione di petrolio chiarisce l’importanza di questo insieme, forte nella produzione industriale e nelle materie prime. Soprattutto tenendo presente che alcuni paesi già oggi sulla porta dell’organizzazione potranno solo aumentare di molto queste caratteristiche: a cominciare da Arabia Saudita, Malesia, Algeria, Venezuela, Indonesia, Cuba.
Detto in estrema sintesi, economie sovradimensionate dalle attività finanziarie, con una popolazione in calo, contro economie “fisiche” che possono contare su una massa di giovani che – una volta migliorate le condizioni per il loro protagonismo in tutti gli ambiti del lavoro (istruzione, formazione, sviluppo industriale, ecc.) – non potranno che moltiplicare la distanza che già ora separa i Brics dall’“Occidente collettivo”.
Questa situazione è nota a tutti gli analisti ed anche ai semplici propagandisti di complemento che abitano nelle redazioni. Si possono distinguere facilmente questi ultimi perché ogni volta che aprono bocca o scrivono un pezzo cercano di convincervi che il problema in realtà non esiste, se non come “preoccupazione” per le aspirazioni “egemoniche” dei paesi più grandi e forti, come Russia e Cina (e Iran). Agitando davanti ai vostri occhi lo straccio rozzo dell’“asse del male”.
Oppure provando a ridicolizzare quelle ambizioni – in primo luogo lo svincolo del proprio commercio globale dall’ostacolo chiamato dollaro (e dal sistema di pagamenti Swift, controllato dagli Stati Uniti) – con la creazione di un’altra moneta e di un altro sistema di pagamenti.
Un esempio classico sono i molti “Rambini” che descrivono i Brics come un “insieme di mattoni” (giocando sulla parola inglese “bric”) ma “senza cemento”. Instabile e non resistente, insomma, che basta una buona spallata per far cadere.
Bambinate, certo, ma che possono confondere chi non ha tempo e infarinatura economica per farsi un giudizio da solo.
Ma fortunatamente ci sono anche analisti seri, che magari hanno la fortuna di lavorare o collaborare con giornali che hanno il compito di “informare gli investitori”, non un pubblico generico (l’“opinione pubblica manipolata” nella sua accezione orwelliana). E che dunque devono dire la verità per permettere a chi ha soldi da mettere sui mercati di avere notizie valide, altrimenti la funzione di quel giornale salta.
Sul recente vertice dei Brics a Kazan, e sui risultati raggiunti (“nulli” per i propagandisti meno attrezzati) il giornale economico MilanoFinanza ci ha offerto un lucidissimo contributo di Guido Salerno Aletta, che evidenzia come il processo di costruzione di una moneta comune e di un sistema di pagamenti alternativo abbia questa volta fatto un passo avanti forse decisivo.
Dopo di che bisogna sapere – e capire – che la “moneta unica” dei Brics non sarà e non può essere un equivalente dell’euro, con tutte le sue costrizioni invalidanti che hanno azzoppato la crescita europea. Né potrà ovviamente essere un equivalente del dollaro, ovvero di una “moneta imperiale” che obbliga ogni attività economica a passare per la sua mediazione e a lasciare, nel passaggio, una fettina di plusvalore prodotto altrove; ma soprattutto a subire le ondate di “finanziamento facile” e quelle opposte di “rientro veloce dal debito” che hanno incatenato per decenni una valanga di paesi alle decisioni del Fmi (di Washington, di fatto).
Sarà invece una sorta di “unità di conto”, con meccanismi completamente diversi e tali da proteggere anche i paesi meno forti dall’emergere di un “imperatore valutario”. Potendo contare peraltro su un “sistema dei pagamenti” diverso dall’americano Swift, che fin qui era servito a dare efficacia concreta alle “sanzioni” unilaterali decise da Washington.
Ma vi lasciamo volentieri al testo di Salerno Aletta, certamente più preciso...
L’ingresso, un anno fa, di altri quattro paesi (Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti), ha portato quell’area a rappresentare il 35% del Pil e quasi la metà della popolazione mondiali, mentre il G7 (Usa, Giappone, Gran Bretagna, Canada, Italia, Francia e Germania) è sceso ormai al 30% del Pil, con appena un sedicesimo della popolazione. Particolari decisivi: la quota del Pil “occidentale” continua a scendere velocemente e l’età media nei Brics (e nei candidati) è molto bassa, mentre l’area G7 sente il morso del calo demografico, con popolazioni che invecchiano e fisiologicamente escono dalla produzione (nonostante il costante aumento dell’età pensionabile).
Anche il fatto di controllare il 42% della produzione di petrolio chiarisce l’importanza di questo insieme, forte nella produzione industriale e nelle materie prime. Soprattutto tenendo presente che alcuni paesi già oggi sulla porta dell’organizzazione potranno solo aumentare di molto queste caratteristiche: a cominciare da Arabia Saudita, Malesia, Algeria, Venezuela, Indonesia, Cuba.
Detto in estrema sintesi, economie sovradimensionate dalle attività finanziarie, con una popolazione in calo, contro economie “fisiche” che possono contare su una massa di giovani che – una volta migliorate le condizioni per il loro protagonismo in tutti gli ambiti del lavoro (istruzione, formazione, sviluppo industriale, ecc.) – non potranno che moltiplicare la distanza che già ora separa i Brics dall’“Occidente collettivo”.
Questa situazione è nota a tutti gli analisti ed anche ai semplici propagandisti di complemento che abitano nelle redazioni. Si possono distinguere facilmente questi ultimi perché ogni volta che aprono bocca o scrivono un pezzo cercano di convincervi che il problema in realtà non esiste, se non come “preoccupazione” per le aspirazioni “egemoniche” dei paesi più grandi e forti, come Russia e Cina (e Iran). Agitando davanti ai vostri occhi lo straccio rozzo dell’“asse del male”.
Oppure provando a ridicolizzare quelle ambizioni – in primo luogo lo svincolo del proprio commercio globale dall’ostacolo chiamato dollaro (e dal sistema di pagamenti Swift, controllato dagli Stati Uniti) – con la creazione di un’altra moneta e di un altro sistema di pagamenti.
Un esempio classico sono i molti “Rambini” che descrivono i Brics come un “insieme di mattoni” (giocando sulla parola inglese “bric”) ma “senza cemento”. Instabile e non resistente, insomma, che basta una buona spallata per far cadere.
Bambinate, certo, ma che possono confondere chi non ha tempo e infarinatura economica per farsi un giudizio da solo.
Ma fortunatamente ci sono anche analisti seri, che magari hanno la fortuna di lavorare o collaborare con giornali che hanno il compito di “informare gli investitori”, non un pubblico generico (l’“opinione pubblica manipolata” nella sua accezione orwelliana). E che dunque devono dire la verità per permettere a chi ha soldi da mettere sui mercati di avere notizie valide, altrimenti la funzione di quel giornale salta.
Sul recente vertice dei Brics a Kazan, e sui risultati raggiunti (“nulli” per i propagandisti meno attrezzati) il giornale economico MilanoFinanza ci ha offerto un lucidissimo contributo di Guido Salerno Aletta, che evidenzia come il processo di costruzione di una moneta comune e di un sistema di pagamenti alternativo abbia questa volta fatto un passo avanti forse decisivo.
Dopo di che bisogna sapere – e capire – che la “moneta unica” dei Brics non sarà e non può essere un equivalente dell’euro, con tutte le sue costrizioni invalidanti che hanno azzoppato la crescita europea. Né potrà ovviamente essere un equivalente del dollaro, ovvero di una “moneta imperiale” che obbliga ogni attività economica a passare per la sua mediazione e a lasciare, nel passaggio, una fettina di plusvalore prodotto altrove; ma soprattutto a subire le ondate di “finanziamento facile” e quelle opposte di “rientro veloce dal debito” che hanno incatenato per decenni una valanga di paesi alle decisioni del Fmi (di Washington, di fatto).
Sarà invece una sorta di “unità di conto”, con meccanismi completamente diversi e tali da proteggere anche i paesi meno forti dall’emergere di un “imperatore valutario”. Potendo contare peraltro su un “sistema dei pagamenti” diverso dall’americano Swift, che fin qui era servito a dare efficacia concreta alle “sanzioni” unilaterali decise da Washington.
Ma vi lasciamo volentieri al testo di Salerno Aletta, certamente più preciso...
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Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
Perché i Brics vogliono una moneta di riserva internazionale
Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza
Via libera all’uso delle valute nazionali nelle transazioni tra i Paesi Brics+, che saranno effettuate attraverso i rispettivi sistemi bancari su una piattaforma autonoma rispetto allo Swift: è questo il passo operativo e decisivo che emerge dalle conclusioni del summit tenuto a Kazak sotto la presidenza della Russia nel nuovo formato a nove Paesi, nel lungo e complesso cammino verso l’obiettivo ambiziosissimo di sottrarsi all’egemonia del dollaro.
Dettagli del summit
Sfrondando i documenti finali del vertice dalle consuete affermazioni di principio che si ripetono invariabilmente altisonanti insieme agli impegni confermati per il futuro, il punto decisivo viene dettagliato ai paragrafi 5.1 e 12 del Joint Statement dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali, che utilizza una gergalità tecnica indistinguibile rispetto a quella utilizzata nei documenti elaborati dell’analogo organismo del G7.
Questa forma di mimesi linguistica punta a due obiettivi: dimostrare che il sistema messo a punto parte dalla perfetta conoscenza teorica e tecnica del sistema occidentale oggi diffuso dappertutto a livello globale; sottolineare che è più vantaggioso sia dal punto di vista economico che delle libertà che garantisce.
Il documento parte dal riconoscimento del vantaggio derivante dall’uso di strumenti di pagamento transfrontalieri a basso costo, più rapidi e più efficienti di quelli attuali, trasparenti, sicuri e inclusivi, basati sul principio di minimizzazione delle barriere e di un accesso non discriminatorio: quest’ultima è una chiara risposta a favore della Russia e dell’Iran, che hanno subito pesanti limitazioni attraverso sanzioni sempre più severe per quanto riguarda l’accesso ai sistemi internazionali di pagamento.
Un assetto monetario multilaterale
C’è un secondo aspetto del documento, ancor più significativo rispetto alla stessa indipendenza della nuova piattaforma dal punto di vista tecnologico e politico, in quanto definisce la prospettiva davvero multilaterale del nuovo assetto monetario, in quanto evita il prefigurarsi di una nuova egemonia in via di fatto: si accoglie con favore l’uso delle valute locali nel commercio internazionale e nelle transazioni finanziarie tra i Brics e i loro partner commerciali, e si incoraggia il rafforzamento delle reti bancarie dei paesi Brics consentendo regolamenti nelle valute locali in linea con la Bcbpi (Brics Cross-Border Payments Initiative).
Quest’ultima affermazione ci riporta indietro nel tempo, al regolamento in oro degli sbilanci valutari, un onere che incombeva alle banche centrali che dovevano pagare con le proprie riserve e ridurre la circolazione della corrispondente moneta ritirata dal Paese creditore: un rimedio insufficiente, assunto a posteriori.
Rischi legati al debito
Abbandonata la base aurea, il pagamento viene ora effettuato o acquistando preliminarmente sul mercato la valuta del venditore o quella di riserva internazionale; in alternativa, si contrae un credito così denominato: mentre acquisti massicci di monete straniere indeboliscono di continuo il cambio rendendo più costose le importazioni, nel secondo caso il problema viene spostato in avanti nel tempo sul piano della affidabilità finanziaria del singolo debitore o dell’intero Paese nel caso di debito pubblico.
Quando la prospettiva del default dei debitori privati diviene sistemica, viene affrontata liberandosi velocemente dei bond da loro emessi che perdono conseguentemente di valore ed innescano una crisi di borsa; il pericolo di default del debito sovrano viene invece affrontato con la svalutazione e con le politiche restrittive della domanda di importazioni e di sostegno alle esportazioni.
Ebbene, sono queste le tipologie di squilibri dei conti con l’estero che vengono affrontate sia dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) che dalle diverse istituzioni regionali come la Latin American Reserve Fund (Flar), l’Arab Monetary Fund (Amf), l’Esm (European Stability Mechanism), e dallo stesso Contingent Reserve Arrangement (Cra) stipulato dai cinque Paesi fondatori dei Brics, ma che non è mai stato operativo.
Commercio tra i Paesi Brics
Nei rapporti commerciali intrattenuti tra i diversi Paesi Brics e verso terzi gli squilibri sono spesso cospicui e talora strutturali: ad esempio, commerciando nelle rispettive valute, la Russia e l’India si trovano la prima ad accumulare continuamente rupie che non sa come utilizzare e la seconda a doversi continuamente indebitare in rubli.
Se, dunque, il debito emesso nella propria valuta espone lo straniero che lo detiene al rischio di una svalutazione, e quello emesso nella valuta del creditore rappresenta un vincolo assai rilevante, il ricorso al finanziamento in dollari inchioda chi lo contrae alle dinamiche della politica monetaria di Washington, con repentini rialzi dei tassi di interesse e del rapporto di cambio che più di una volta hanno creato immense difficoltà ai Paesi indebitati, in particolare quelli sudamericani.
Il Brasile ne sa qualcosa, di questo tsunami della valuta americana che prima inonda l’economia di credito e poi si ritira con altrettanta devastante violenza.
La nuova valuta «R5»
L’obiettivo di commerciare e indebitarsi in una moneta di riserva internazionale che sia scevra da questi pericoli di egemonia, rappresenta l’ambizione dei Brics: se la Russia teme il sopravvento dello yuan, neppure l’India accetterebbe mai di replicare con Pechino le relazioni valutarie e finanziarie che le vennero imposte da Londra ai tempi in cui era la Perla dell’Impero.
E se, nell’ambito dei Brics, l’adozione di una moneta unica come l’euro non è minimamente ipotizzabile, sembra assai più plausibile che venga presa in considerazione una prospettiva analoga a Hard Ecu che venne abbandonata per il concorso di una triplice concomitanza di interessi: l’ambizione sfrenata della Germania di imporre la propria costituzione monetaria al resto del Continente; l’illusione della Francia di eliminare così dalla scena monetaria il marco che spadroneggiava sui tassi; la assoluta indisponibilità del Regno Unito ad abbandonare la sterlina, per rimanere davvero sovrana.
La valuta dei Brics di cui da tanto tempo si parla, e di cui Putin ha mostrato a Kazak una maquette, prenderebbe il nome «R5» dalle iniziali delle valute nazionali dei Paesi fondatori (Reais, Rublo, Rupia, Renminbi e Rand) e circolerebbe in parallelo alle valute esistenti ma solo in forma digitale. Sarebbe una moneta internazionale finalmente partecipata, non egemonizzata da nessun Paese: né adespota, né straniera.
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