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29/10/2024

Volkswagen, il crollo dell’impero tedesco

L’annuncio fatto dal management della Volkwagen devasta completamente il modello di relazioni industriali in Germania, ma è anche il punto di arrivo di una politica economico-industriale fondata sul mercantilismo “orientato all’esportazione” e l’austerità di bilancio (pubblico), che ha creato le basi della crisi attuale.

Il mega-piano di ristrutturazione di VW, ridotto all’osso, è quanto di più scontato si possa pensare: chiudere un terzo delle fabbriche in Germania, tagliando di almeno un quinto lo stipendio degli operai.

Sul piano salariale i conti sono semplici: taglio del 10% del salario, stop all’indennità mensile di 167 euro: sommati portano alla riduzione del 18% dello stipendio.

In più abolizione dei bonus per i dipendenti e dei pagamenti annuali una tantum per i 25 anni di servizio, una costante mai disattesa dall’azienda. E così si arriva in media al 20-25% di salario in meno.

Sul piano produttivo, “vendita” di tre stabilimenti posizionati in Germania più il dimezzamento dell’impianto di Zwickau, al confine tra Sassonia e Turingia, dove un tempo si costruivano le Trabant, uno dei simboli della DDR.

L’obiettivo è chiaramente quello di risanare i conti, dissestati dalla crisi delle vendite e dalla concorrenza, oltre che da scelte sbagliate e qualche scandalo che ha incrinato il mito dell’affidabilità della meccanica tedesca. In primo luogo il cosiddetto “dieselgate”, con VW scoperta (negli Usa) a truccare i dati sulle emissioni di CO2 e polveri sottili, in modo da superare i controlli delle normative ambientali di molti paesi, compresa l’Europa.

Tra i concorrenti più seri, in questo momento, ci sono i produttori cinesi, in grado di fornire – al contrario di VW, Bmw, Porsche e Opel – auto a trazione elettrica ormai di livello “interessante”. Contro di loro i difensori del “libero mercato” invocano disperati dazi pesantissimi (il contrario del libero mercato), anche sapendo che si tratta di una decisione suicida e anche facilmente aggirabile: la cinese Nio vuole acquistare in Belgio una fabbrica Audi, tra gli impianti fuori della Germania che il gruppo Volkswagen vuol vendere.

E proprio qui si scopre il punto di caduta delle politiche export oriented. In quel quadro – ancora vigente – la Cina e altri mercati extraeuropei erano fondamentalmente luoghi in cui vendere – e magari produrre, a costi ovviamente inferiori – i propri prodotti. Mentre il “mercato interno” veniva depresso dal blocco salariale e dai “mini-job”, i “lavoretti” legalizzati all’inizio del secolo da un governo “socialdemocratico”, con salari altrettanto ovviamente da fame, appena mitigati da servizi pubblici (asili, casa, trasporti, sussidi, ecc.) ancora decenti.

Quel che sembrava geniale trenta anni fa, ed imposto a tutto il Continente tramite le politiche di austerità dell’Unione Europea, a lungo andare – come ogni processo squilibrato a favore del capitale – ha prodotto conseguenze devastanti. A cominciare dal calo di vendite sul mercato europeo, dato il potere d’acquisto dei lavoratori in costante diminuzione.

Il costo inferiore delle auto extraeuropee, soprattutto cinesi, ha veicolato il più classico dei processi capitalistici: la competizione sul prezzo (e la scala produttiva, ormai). Mettendo quasi fuorigioco l’automotive tedesco e quindi anche quello europeo (Stellantis e Renault, poco altro).

Il tentativo di recuperare competitività senza però adeguare la produzione e investire su auto elettriche più efficienti (per autonomia e velocità di ricarica) avviene così nel più classico dei modi: diminuzione della produzione, chiusura di impianti, tagli al personale e ai salari.

Il che mette, però, il modello tedesco sulla graticola del conflitto sociale, sedato per decenni con la “compartecipazione” sindacale alla gestione dell’azienda (il sindacato IgMetall siede nel consiglio di amministrazione di VW, chiaramente con una quota non decisiva), i discreti livelli salariali (imparagonabili con quelli italiani), minore orario di lavoro, certezza del posto, bonus e un welfare pubblico di qualità.

Il sindacato è così stato risvegliato dal sonno e prepara ora una mobilitazione totale, con una piattaforma che non prevede chiusure e licenziamenti, anzi pretende un aumento salariale del 7%. Ma con calma, tra due mesi, perché «attualmente nel Gruppo VW nessun posto di lavoro è più al sicuro».

Il governo Scholz, scosso già dagli insuccessi elettorali e dalla necessità di far finta che il gasdotto North Stream sia stato sabotato da “ignoti” (la magistratura ha individuato i responsabili con nome e cognome: i servizi segreti ucraini, spalleggiati da quelli inglesi e statunitensi), promette ora di non permettere a VW di proseguire su questa strada. Ma nessuno ci crede davvero, sia nella ormai ex maggioranza che nelle opposizioni di destra e di sinistra.

Un modello ultratrentennale sta venendo giù molto rapidamente. E riguarda tutta l’Europa “europeista”, ossia fondata sul prevalere assoluto del capitale finanziario e dell’impresa.

Urge la capacità di organizzare movimenti di resistenza con in testa un “modello alternativo”, fondato sugli interessi delle popolazioni.

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