L’imperdonabile veto del governo brasiliano all’ingresso del Venezuela nei BRICS+ non è una sorpresa. Esistono conflitti profondamente radicati tra i progetti regionali e internazionali del Ministero degli Affari Esteri del Brasile e quelli del governo bolivariano. Questo conflitto, a volte latente, altre volte manifesto, si è verificato indipendentemente da ciò che Lula pensava durante i suoi primi otto anni di mandato. Dopo molti attriti diplomatici, le relazioni tra Brasilia e Caracas si sono normalizzate solo dopo la sconfitta dell’ALCA nel novembre 2005.
Ma i rancori tra i due governi, e soprattutto tra i rispettivi ministeri degli Esteri, erano come quelle braci coperte di cenere, apparentemente spente, dove bastava una brezza per ravvivare il fuoco. E il vento soffiava forte nelle steppe di Kazan.
Per i diplomatici del subimperialismo brasiliano – mi rifaccio a questa caratterizzazione di Ruy Mauro Marinii (cf. “Subimperialismo y dependencia en América Latina”, Ver Adrián Sotelo Valencia, CLACSO 2021) – la posizione internazionale di Chávez, il suo instancabile iperattivismo e il tono fortemente antimperialista del suo discorso e della sua pratica concreta (come la creazione di Petrocaribe, ad esempio), hanno provocato fin dall’inizio una malcelata repulsione nei quadri dirigenti del Ministero degli Affari Esteri brasiliano.
Va ricordato che, a differenza della stragrande maggioranza dei Paesi, la “relativa autonomia” di cui gode il ministero degli Esteri all’interno dell’apparato statale brasiliano fa sì che le sue definizioni e proposte prevalgano spesso su quelle che potrebbero essere adottate dal presidente in carica, soprattutto quando quest’ultimo è un civile. La condotta di questa potente burocrazia sub-imperiale è regolata da un assioma: la coincidenza, l’accompagnamento (o almeno il non confronto) con la politica estera statunitense.
L’obiettivo di questo tacito allineamento con Washington è quello di preservare la stabilità dell’ordine neocoloniale in Sudamerica e, per quanto possibile, di impedire l’emergere di governi antimperialisti o, quando ciò è impossibile, di agire come fattore di “moderazione”. In cambio, la Casa Bianca dà la sua benedizione alla leadership del Brasile nella regione e gli apre persino la porta per collocare i suoi rappresentanti in alcuni ambiti del quadro istituzionale postbellico, come ad esempio l’Organizzazione mondiale del commercio.
Per questo motivo, il crescente protagonismo internazionale di Hugo Chávez ha sottoposto il patto siglato tra Brasilia e Washington a forti tensioni. Durante gran parte del primo mandato di Lula (2003-2007), le collisioni tra Caracas e Brasilia erano innegabili. L’amministrazione repubblicana ha chiesto più volte l’intervento di Brasilia per calmare le acque agitate dal leader bolivariano, che avrebbero presto acquistato nuovo vigore con l’avanzare del primo ciclo progressista e le elezioni che hanno catapultato alla presidenza personaggi come Evo Morales, Rafael Correa, Cristina Fernández e Fernando Lugo, Tabaré Vázquez e “Mel” Zelaya, e successivamente con la creazione dell’UNASUR Washington si è spinta a tal punto nel tentativo di convincere Lula a “calmare” Chávez da inviare Condoleezza Rice in Brasile per intercedere con il leader bolivariano affinché Caracas non disdicesse l’accordo di cooperazione militare tra Stati Uniti e Venezuela firmato circa trent’anni fa e, inoltre, per scoprire le “ragioni per cui Chávez aveva acquistato 70.000 fucili dalla Spagna”.
Naturalmente, questa mediazione non ha avuto alcun effetto.
I disaccordi tra Brasilia e Caracas continuarono a lungo. Elencarli sarebbe tanto lungo quanto noioso. Ricordiamone solo due: il rifiuto del governo Lula di attuare concretamente la Banca del Sud, solennemente fondata nel dicembre 2007 ma paralizzata fin dall’inizio soprattutto per la riluttanza brasiliana; e l’ostinato rifiuto del Brasile di ammettere il Venezuela nel Mercosur.
Date queste premesse, il comportamento della delegazione brasiliana a Kazan era prevedibile. L’assenza di Lula, dovuta a uno strano “incidente domestico”, rimarrà una delle grandi incognite del Vertice di Kazan. Forse lo sfortunato voto del Brasile all’ONU di condanna dell’“invasione russa” dell’Ucraina (4) può aver giocato un ruolo.
Ma quel che è certo è che con il veto all’ingresso del Venezuela come membro associato dei BRICS+, categoria che comprendeva anche Bolivia e Cuba, il prestigio internazionale del Brasile e la necessaria solidarietà tra i Paesi latinoamericani sono stati seriamente danneggiati.
Il governo di Lula ha ceduto alle pressioni conservatrici della sua stessa coalizione di governo e a quelle degli Stati Uniti, per i quali mantenere il Venezuela isolato è essenziale per continuare impunemente il suo criminale blocco contro quel Paese. Attaccarlo da solo non è la stessa cosa che attaccarlo quando è già membro dei BRICS+.
Quanto accaduto scredita il Brasile e fa apparire il suo governo come un docile partner di Washington che opera in America Latina, favorendo lo scollamento, per non dire la “disintegrazione”, tra i Paesi dell’area, il che alimenta i sospetti sulle future intenzioni del Ministero degli Affari Esteri brasiliano in campo internazionale. Per questo la mossa di Lula a Kazan è un “veto suicida” perché indebolisce la dignità internazionale del Brasile non solo in America Latina ma anche a livello globale.
L’analista brasiliano José Luis Fiori ha detto senza mezzi termini: “un Sudamerica diviso perderebbe rilevanza geopolitica e geoeconomica e le sue piccole unità ‘primarie-esportatrici’, nel loro isolamento, sono completamente irrilevanti sullo scacchiere geopolitico mondiale”. L’alternativa sarebbe quella di costruire un asse tra Brasile, Argentina e Venezuela, ma è quello che si è rotto quest’anno con il rifiuto di Milei all’incorporazione dell’Argentina nei BRICS+ e il veto del Brasile all’ingresso del Venezuela in questa organizzazione.
Con il suo veto, il governo brasiliano ha privato i BRICS+ dell’enorme vantaggio che avrebbe dato a questo raggruppamento l’incorporazione nei suoi ranghi del Paese con le maggiori riserve petrolifere accertate al mondo. Obiettivamente: ha indebolito il BRICS+, con grande gioia di Washington. Ecco perché credo che questo veto non avrà vita lunga e che Lula finirà per essere respinto, perché pochi errori potrebbero essere più gravi, nel mondo di oggi, che lasciare questa enorme riserva di petrolio alla mercé degli Stati Uniti, cosa che Cina, Russia e persino India non vedrebbero di buon occhio.
Ciò che sta accadendo è che il Ministero degli Affari Esteri brasiliano non crede che lo scacchiere internazionale si sia già trasformato in un sistema multipolare, da cui la sua errata decisione di porre il veto all’ingresso del Venezuela nei BRICS+. Continua a scommettere sul declino dell’egemonia statunitense e sul marcio “ordine mondiale basato sulle regole” con cui gli Stati Uniti difendono i propri interessi nazionali.
Il Ministero degli Esteri bolivariano ha ragione quando descrive il veto come “un gesto ostile, che si aggiunge alla politica criminale di sanzioni che sono state imposte a un popolo coraggioso e rivoluzionario”. Dire che “si aggiunge”, in un linguaggio diplomatico accurato, equivale a dire che il Brasile ha agito come una pedina diligente di Washington, convalidando le oltre 900 misure coercitive unilaterali che colpiscono il Paese fratello e mostrando una penosa mancanza di solidarietà.
Lula non ha ricordo del fatto che durante la pandemia, durante il governo dell’impresentabile Jair Bolsonaro, quando la gente moriva negli ospedali di Manaus per mancanza di ossigeno, il presidente Nicolás Maduro ordinò l’invio di 107 medici e sei autobotti con un totale di 136.000 litri di ossigeno per far fronte alla drammatica situazione negli ospedali di quella città? È questa la ricompensa del Brasile per quel gesto di solidarietà? Un veto deplorevole e imperdonabile.
Il Presidente Lula avrà un compito arduo se vuole che il suo Paese recuperi credibilità e dignità, non solo nell’ordine regionale latinoamericano e caraibico, ma anche agli occhi dei principali partner BRICS+, principalmente Cina, Russia e India. Sicuramente non passerà molto tempo prima che questo fatidico veto venga revocato e il presidente brasiliano dovrà sopportare un’amara bocciatura.
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