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19/10/2024

Lo schianto dell’operazione migranti in Albania

Non c’è dubbio che l’operazione migranti in Albania fosse nata storta e non poteva raddrizzarsi. Sulla deportazione dei migranti in arrivo dalla “quarta sponda” – la Libia e la Tunisia – in quella che era stata un’altra colonia italiana – l’Albania – c’erano già stati dall’inizio i rilievi della Corte Europea di Giustizia, poi erano emerse le contraddizioni tra costi e benefici, fino al crash finale al quale abbiamo assistito in questi giorni.

Era apparso evidente come la premier Meloni avesse spinto più del ragionevole per rendere operativa la missione alla vigilia del Consiglio Europeo di giovedi scorso ed arrivare a questo con una medaglietta da appuntarsi in petto. Qua e là ha raccolto anche qualche plauso da una classe dirigente europea che ha ormai perso qualsiasi lascito della cultura giuridica di una UE che ha perduto dal 1992 ogni residuo di “funzione progressiva”.

Ma il crash era già lì a portata di mano, visibile a tutti per maldestrìa e fregola. Aver impegnato una nave militare per deportare 16 migranti arrivati da Egitto e Bangladesh, mentre la sera ne sbracavano più di mille a Lampedusa, era già balzata all’evidenza per la discrasia tra costi e risultati.

Poi 4 dei 16 migranti erano stati costretti a raggiungere su un gommone la nave militare che stava già tornando in Italia perché in Albania non dovevano neanche andarci.

La deportazione dei migranti che sbarcano sulle coste italiane in Albania non è affatto una grande idea, al contrario. Ma per quanti segnalassero che il re – o la regina in questo caso – fosse senza vestito, servitori di corte ed egocentrismo hanno voluto portare avanti l’operazione fino al suo conclamato fallimento da ogni punto di vista: economico, giuridico, politico, ideologico.

Infine è arrivata una giudice della Procura di Roma che, in coerenza con la Corte di Giustizia europea, ha applicato le indicazioni di quest’ultima, decretando che anche gli altri 12 dovevano tornare in Italia perché è qui che devono essere identificati e perché i paesi di provenienza – Egitto e Bangladesh – non vengono ritenuti dalla Corte europea “paesi sicuri”.

I latrati che si sono immediatamente sollevati dal governo e dai partiti della maggioranza che lo compone contro i giudici che remano contro il governo invece di assecondarlo, sono a lì a certificare il segno autoritario e fascistoide che ispira la natura di questo esecutivo. Non solo.

A Palermo, la Lega ha mobilitato addirittura ministri e parlamentari – portando in piazza nientemeno che 95 persone – a sostegno del ministro Salvini sotto processo per aver bloccato per giorni in mezzo al mare centinaia di naufraghi e la nave che li aveva raccolti. Un flop politico e numerico aggravato dalla presenza di ministri ad una manifestazione di delegittimazione del terzo potere dello stato di diritto: quello giuridico.

A parziale discolpa del governo Meloni va riconosciuto che il modello delle tre scimmiette nella gestione dell’emergenza sbarchi di immigrati, non è nato con questo esecutivo.

Già il decreto Minniti-Orlando del 2017 si ispirava alla logica del “Non vedo, non sento, non parlo”, delegando al trattenimento con qualsiasi mezzo dei migranti sulle coste e nei lager libici. L’importante era che quelle barche sgangherate con il loro dolente carico umano non arrivassero sulle coste italiane. Con quali mezzi di dissuasione era un problema affidato completamente alle milizie e ai banditi prosperati sull’altra sponda del Mediterraneo dopo la violenta destabilizzazione della Libia e l’uccisione di Gheddafi voluta dalla Nato e dall’Italia nel 2011.

Ma è indubbio che l’operazione Albania ambiva ad essere la soluzione shock, la deterrenza per fermare o ridurre gli sbarchi in Italia, allontanare la gestione coercitiva dei migranti dagli sguardi e dalle telecamere, una dimostrazione di “italica creatività” in materia di trattamento di esseri umani che – per dirla con Borrell – dalla giungla vengono per cercare di entrare nel giardino.

È evidente che l’emergenza sbarchi ci sia, è altrettanto evidente che Italia, insieme a Grecia e Spagna, siano i paesi di primo arrivo sulle coste europee e che la regolamentazione dei flussi sia continuamente messa in sollecitazione da arrivi niente affatto regolamentati. Eppure è proprio questo il terreno della vera sfida: aumentare i flussi di ingresso regolari – sottraendoli ai trafficanti – e velocizzare le pratiche di riconoscimento dei migranti in arrivo, facilitandone e non ostacolandone il transito verso i paesi di destinazione.

Solo il 15% di quelli che arrivano sulle coste italiane dichiarano che la propria destinazione sia l’Italia. Guardano ad altri paesi ma restano bloccati qui per mesi e in alcuni casi per anni, alimentando una bolla di umanità dolente, vagante per le nostre città o in alcuni casi prigioniera in centri di detenzione arbitraria, che innesca emergenze permanenti.

A quel punto il problema vero diventano i governi europei che continuano a fare i finti tonti mettendo avanti i numeri – decisamente più elevati – degli immigrati che già ospitano o hanno ospitato rispetto all’Italia. Questo è un dato vero e non smentibile, ma che diventa l’ulteriore barriera ad una gestione organizzata, umana e responsabile di un movimento migratorio per molti versi inarrestabile. Nessuno mette a rischio la propria vita se non ha la percezione che questa lo sia già.

Di fronte a questo, la dissuasione o la deterrenza dei paesi di arrivo dovrebbe superare in orrore quella che i migranti in fuga si lasciano alle spalle. È vero che i governi occidentali si sono assuefatti e si rendono complici del genocidio dei palestinesi al di là del Mediterraneo, ma se questi diventano i parametri della governance siamo giù alla barbarie, e chi governa con la barbarie merita di essere spazzato via dalla storia.

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