Federmotorizzazione Confcommercio Mobilità ha sollevato il pericolo che i dazi imposti alle auto cinesi vengano aggirati attraverso la Turchia. La via d’accesso sarebbe l’unione doganale tra Bruxelles e Ankara, in vigore da quasi un trentennio, che permette la circolazione delle merci senza tariffe aggiuntive.
La questione è arrivata fino alla Commissione Europea attraverso un’interrogazione partita da Carlo Fidanza. Il parlamentare europeo di Fratelli d’Italia e membro della Commissione TRAN che, all’interno del Parlamento di Strasburgo, si occupa di trasporti e turismo, ha cavalcato il tema per rilanciare “i pericoli della transizione all’elettrico” per la competitività europea.
Con l’interrogazione si vuole fare chiarezza su tre punti: se la Commissione sappia delle strategie di ingresso delle auto cinesi attraverso la Turchia, quali misure vuole adottare in merito e, infine, chi e in che modo si assicurerà che l’accordo doganale non venga usato per aggirare i dazi. Ad esempio, viene richiesta l’introduzione di un sistema di certificazione dell’origine del prodotto.
Federmotorizzazioni rappresenta 125 mila imprese dell’automotive italiano, con 450 mila addetti. L’associazione di categoria ha ribadito che è necessario “garantire condizioni di concorrenza leale nel mercato automobilistico europeo”, ovvero farla finita col libero mercato che vede i cinesi vincere in competitività sulle aziende nostrane.
I recenti sondaggi hanno ad esempio segnalato che 7 italiani su 10 sono disposti a comprare un mezzo di fabbricazione cinese. Non c’è dubbio, dunque, che ci sia un importante mercato nella UE che si vuole evitare venga “mangiato” da Pechino, aiutando invece la filiera europea attraverso misure protezionistiche.
Nel 2023 Ankara ha registrato la produzione di ben 1,4 milioni di veicoli nel paese, e il settore sembra destinato a crescere attraverso gli investimenti cinesi. Byd e Chery, colossi del Dragone, hanno indirizzato ingenti fondi verso la Turchia, dove la prima di queste società prevede la spesa di 1 miliardo di dollari per un impianto con una capacità produttiva di 150 mila vetture.
Il rapporto tra Pechino e Ankara si è intensificato negli ultimi anni, e soprattutto negli ultimi mesi. In estate il ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan, si è recato in Cina, per rafforzare il rapporto tra i due paesi, che vale 47 miliardi di dollari, anche se fortemente squilibrato a favore dei cinesi.
Fidan aveva detto che “lo squilibrio della bilancia commerciale è uno dei maggiori problemi strutturali nei rapporti bilaterali e può essere affrontato attraverso gli investimenti esteri diretti e progetti congiunti, come la Belt and Road Initiative (BRI)”. Uno sguardo molto interessato alla Nuova Via della Seta che preoccupa le cancellerie occidentali.
Sempre Fidan, a settembre, aveva rincarato la dose affermando “se la Turchia fosse stata accettata come membro a pieno titolo dell’Unione Europea, non avrebbe cercato i Brics”. Il ministro aveva fatto accenno diretto anche all’unione doganale con Bruxelles, facendo trasparire che ciò non veniva considerato un livello di relazione sufficiente.
“In un mondo in cui ci sono circa 200 attori commerciali nazionali, questi stanno diventando sempre più influenti. Vediamo che la matrice del potere è in continua evoluzione”, aveva aggiunto. Parole che esprimono in maniera chiara il modificarsi dello scenario economico e geopolitico a cui siamo stati abituati negli ultimi trent’anni.
Proprio ieri ha preso avvio il summit dei Brics, che vede tra i paesi in lista d’attesa proprio la Turchia. La quale vede l’adesione a questo quadro macroeconomico come un modo per differenziare le proprie alternative in un mercato sempre più frammentato e in un mondo sempre più definito dalle tensioni internazionali, in cui la filiera euroatlantica non è più tanto sicura come un tempo.
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