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18/10/2024

Maramaldo ed Enrico Toti. A Gaza

Premessa. Qui parliamo della morte di Sinwar dal punto di vista delle leggi della guerra e della comunicazione.

Questo significa che i giudizi qui espressi prescindono in larghissima parte dalle identità, e quindi da ogni possibile “immedesimazione”, con i vari protagonisti. In ogni tempo, in ogni luogo, in ogni guerra, senza neanche guardare alle idee e agli interessi dei diversi combattenti, gli atti concreti possono essere valutati con l’oggettività di un entomologo.

Del resto, com’è noto, siamo comunisti ed atei, e dunque non dividiamo gli esseri umani in base al loro credo religioso o alle tradizioni culturali (che hanno certo una grande importanza sul piano più strettamente “politico contingente”), ma in base ai loro atti.

Detto questo, passiamo ad esaminare i fatti.

L’esercito di Israele (Idf) ha detto fin dal primo momento di essersi reso conto dell’identità di Sinwar solo successivamente alla sua uccisione. Dunque per l’Idf quello era un palestinese qualsiasi, uno delle centinaia di migliaia quotidianamente bombardati.

Vero è che, nella ricostruzione ex post comunicata ai media, si narra che alcuni soldati avrebbero visto da lontano tre uomini armati entrare in una palazzina. Quindi hanno chiesto un attacco missilistico contro quell’obiettivo e anche dopo il bombardamento si sono ben guardati dall’avvicinarsi alle macerie, ma hanno inviato un drone dotato di telecamera per verificare se era rimasto qualcuno vivo.

E questo è il video.

Il drone entra in un appartamento devastato, dalle pareti sfondate, e individua una figura umana seduta di spalle, su una poltrona (lo “scontornamento” viene fatto in un secondo momento, dalla “post-produzione” dell’Idf).

Il volto è parzialmente coperto, l’uomo non si muove, è già ferito. Il drone si blocca in aria, continua a fissarlo finché l’uomo fa l’unico gesto che è ancora in grado di fare: tira un bastone all’indietro, come un “vaffa” d’addio, in direzione del drone.

Che a quel punto, si immagina (hanno tagliato i momenti successivi), spara una granata.

Il resto non si vede. I soldati presumibilmente entrano nella palazzina dove sono certi non ci sia più nessuno in vita. Individuano il corpo dell’anziano che aveva osato tanto (Sinwar aveva 62 anni, e certo non passati tra gli agi e i salotti – ben 22 nelle prigioni israeliane).

Ha il cranio sfondato, ma da ciò che resta qualcuno crede di riconoscere il “ricercato numero 1” di Israele, Yahya Sinwar. Parte il tam tam, i festeggiamenti in spiaggia, i brindisi.

Noi, sulla base delle leggi della guerra e della comunicazione, notiamo alcune cose che ci sembrano rilevanti.

La più semplice. Se è vero – e dovrebbe esserlo – che l’esercito non sapeva di avere davanti Sinwar, allora diventa esplicito che quel “trattamento” (bombardare un ferito che agita un bastone) è comunemente riservato a tutti i palestinesi, indipendentemente dall’eventuale appartenenza ad un’organizzazione combattente.

Poteva benissimo essere un anziano proprietario dell’appartamento, non proprio felice di vederlo – e vedersi – ridotto in quelle condizioni.

In secondo luogo. Ci aspettavamo che almeno i media italiani si accorgessero della “potenza comunicativa” di quel gesto estremo – scagliare un inoffensivo bastone contro una macchina da guerra – se non altro perché siamo tutti eredi di una cultura che giustamente ricorda lo “spirito indomito” di Enrico Toti.

In terzo luogo. Sempre restando ben dentro la comune cultura italiana, ed anche alle leggi della guerra, ci saremmo attesi che qualche notista politico – magari appena al di sopra dei bru-bru di Rete4 o dei fogliacci di destra – riconoscesse nel drone e nell’esercito israeliano la figura indecente di Maramaldo, consegnato alla storia per sempre, e con il marchio di infamia, inseguito dalle ultime parole del moribondo Francesco Ferrucci: “Vile, tu uccidi un uomo morto”.

Silenzio assoluto, invece. Segno che Maramaldo oggi lavora nelle redazioni...

Infine. Non c’è bisogno di essere dei colti cinefili per riconoscere in quel video la logica di Terminator. La macchina che uccide gli uomini, con la stessa “emozione” con cui spegne o accende la luce.

E quindi è facile capire che, davanti a quella scena, i comuni mortali si possono identificare soltanto con l’unico essere umano presente. Non certo con la macchina che vola, filma e spara.

E non stiamo parlando soltanto dei palestinesi, che da oggi in poi, per generazioni e generazioni, inseriranno Sinwar nell’affollatissimo pantheon dei combattenti per la sopravvivenza e la libertà del loro popolo. Stiamo parlando dell’umanità “normale”, quella che reagisce ad ogni disastro porgendo la mano al proprio simile e comunque al “vivente”, non certo a Terminator.

Certo, ce ne sono tanti che hanno brindato vedendo il video, magari mentre continuavano a fare il bagno o sulla spiaggia. Ma, per l’appunto, non bastano due gambe e due braccia per fare un essere umano.

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