di Fulvio Scaglione
Nelle foto che arrivavano da Kazan, dov’era in corso il summit dei Paesi BRICS (in origine Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ora quelli più Iran, Etiopia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, con Arabia Saudita e Turchia sulla soglia), Vladimir Putin ha la faccia (ci sia perdonata l’ardita metafora) del gatto col sorcio in bocca. Perché da questo incontro (che le fonti diplomatiche russe, forse con un eccesso di ottimismo, hanno definito “il più importante appuntamento di politica internazionale nella storia del Paese”) lui, proprio lui inteso come presidente della Federazione Russa, esce con un risultato non da poco: il sogno di isolare la Russia ha fatto puff e si è disperso come nebbia al sole.
Se vengono da te Modi (India) e Xi Jinping (Cina), Erdogan (Turchia) e Al-Sisi (Egitto), Lula (Brasile) e Ramaphosa (Sudafrica), di che isolamento stiamo parlando? E se poi a dialogare con questo bel gruppo arriva anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che evidentemente è abbastanza razionale da ritenere di non poter ignorare una “associazione” che rappresenta il 36% del Pil mondiale e il 45% della popolazione, l’opera è completa.
In società consce della realtà e non intimidite dalla verità, questo dovrebbe bastare a riconoscere un fatto: l’Occidente ha perso la guerra contro la Russia. Se l’idea era di sconfiggerla sul campo, piegarla con le sanzioni, renderla un paria del panorama mondiale, farle abbandonare qualunque ambizione e, perché no, provocare un cambio di regime e magari la frantumazione della Federazione, allora abbiamo perso.
Per il semplice fatto che nessuno di quegli obiettivi si è realizzato.
Mentre intanto, sul campo, sembra che la Russia ora possa realizzare il suo, di obiettivo: ovvero, occupare quella parte di Ucraina che considera “sua”, con il nome di Novorossija. Ha perso l’Occidente, non l’Ucraina: che altro potevano fare questo Paese e questo popolo martire, se non resistere, sacrificarsi, combattere strenuamente e bruciare nel rogo dell’invasione e della guerra la loro migliore gioventù?
Questa, però, era la superficie del summit di Kazan.
La conclusione inevitabile del fatto che il summit era stato convocato in Russia, con Putin alla presidenza, e nessuno si era sognato di non aderire. Il nocciolo duro della riunione, invece, stava nel discorso finanziario, basato su un rapporto intitolato “Miglioramento del sistema monetario e finanziario internazionale” che la Russia aveva fatto circolare tra i Paesi membri alla viglia della riunione.
Inutile addentrarsi nei particolari. Il rapporto segna un cambio di strategia teso anche ad aumentare la coesione di questo circolo di grandi e piccole potenze che, in quanto tali, hanno obiettivi spesso diversi. Se Russia e Cina, per esempio, possono perseguire il sogno di rovesciare il secolo americano e con quello gli equilibri mondiali, Brasile e India non vogliono smettere di dialogare con l’Occidente a trazione americana.
Per questo è stata abbandonata dai BRICS l’idea, a tratti anche discussa, di creare una valuta comune. Di fatto, l’unica valuta abbastanza forte da potersi proporre in quel ruolo era lo Yuan cinese, ipotesi che non sarebbe mai stata accettata da altri Paesi (India) e che avrebbe avuto poco senso per Paesi come Egitto, Brasile o Sudafrica.
Ora i BRICS cercano il modo, ovvero gli strumenti tecnici, per aggirare quella che definiscono “l’eccessiva dipendenza da una moneta unica e da una struttura finanziaria centralizzata”. Come se dicessero: caro dollaro, caro Fondo monetario internazionale, cara Banca mondiale, caro Swift, non è che vi vogliamo male, è che avete fatto il vostro tempo. Quindi vogliamo usare le nostre valute per commerciare tra noi e sistemi che possiamo gestire noi in prima persona, senza dipendere da nessuno. Leggi: gli Usa.
È chiaramente il modo che la Russia ha scelto per non spaventare nessuno dei Paesi membri con obiettivi troppo aggressivi o troppo complicati da raggiungere. Ed è la maniera, invero assai diplomatica, per dire al resto del mondo e al G7 in particolare: ma noi che gestiamo il 36% del Pil mondiale dovremmo continuare a passare da voi per gestire i nostri soldi? Dovremmo sottostare a un sistema che è sostanzialmente ancora quello disegnato nella conferenza di Bretton Woods nel 1944? Non è che il mondo è un tantino cambiato da allora?
Si capisce bene che questo discorso è come una specie di esca lanciata ben oltre i confini dei BRICS. Lanciata, cioè, verso quelle economie emergenti e in via di sviluppo che con il commercio tra di loro hanno raggiunto una quota pari al 26% del commercio globale, destinato a diventare il 32% entro il 2032.
Retorica? Può darsi. Vedremo con i prossimi anni in quale misura le suggestioni e le intenzioni sapranno trasformarsi in fatti concreti. Di certo c’è che, proprio mentre Russia e Cina sono diventati i nemici pubblici numero uno dell’Occidente, il fascino dei BRICS aumenta: l’Arabia Saudita non è ancora Paese membro a tutti gli effetti, ma partecipa alle attività del gruppo; la Turchia aspetta il momento buono per entrarvi, almeno altri trenta Paesi (tra cui colossi come l’Indonesia) hanno manifestato serio interesse.
Il che ci riporta al discorso iniziale. Perché è chiaro il ruolo fondamentale che la Russia ha assunto in questo contesto. I soloni nostrani continuano a scrivere che la Russia è ormai un vassallo della Cina. Certo, senza la sponda fondamentale di Pechino per Mosca sarebbe stata assai dura affrontare le sanzioni economiche. Ma il discorso vale anche al contrario: senza la Russia a scontrarsi direttamente con l’Occidente, la Cina “peserebbe” assai meno nell’attuale contesto internazionale. E di certo farebbe la voce assai meno grossa su Taiwan. Quindi a Pechino non serve un vassallo, ma un partner robusto con cui fare squadra. Come infatti succede.
Venendo ai BRICS, solo la Russia può fare da pivot del gruppo. Non che le sia stato affidato alcun incarico, sono le condizioni oggettive ad assegnarle quel compito: non è così forte, dal punto di vista economico, da far paura agli altri; è abbastanza importante da farsi ascoltare; è per vocazione post-sovietica restia a immischiarsi negli affari altrui (a meno che non si tratti dei suoi confini); ha risorse naturali (gas, petrolio) e industriali (armamenti, energia atomica, settore minerario) che possono tornare utili anche ad altri. L’impressione è che ne vedremo delle belle.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento