Su molti temi decisivi il governo Meloni dimostra d’essere in qualche misura vero erede del Mussolini imbroglione, quello che per impressionare l’Ospite (Hitler) faceva piazzare fondali di cartone per rendere più magnificente il panorama romano.
Potremmo parlare del tassare le banche (finita con un prestito), oppure dell’aumentare i salari (con la partita di giro della riduzione del cuneo fiscale). Ma nulla come la “crisi della natalità” dimostra che le misure governative sono solo chiacchiere e distintivo.
Gli ultimi dati sulle nuove nascite confermano un tragico andamento in atto da 60 anni (il “boom” risale ormai al 1964, con un milione e 35mila neonati). Nel 2023 i nuovi nati sono stati appena 372.820, 13mila in meno rispetto al 2022.
È matematico che un paese il cui ricambio della popolazione diminuisce di oltre il 60%, senza peraltro che si intraveda un’inversione di tendenza, nonostante i numeri non piccoli dell’immigrazione, non ha futuro. perché non sostituire le braccia e i cervelli che fisiologicamente debbono passare il testimone a qualcun altro.
Il governo si pavoneggia con il suo “bonus bebè”, 1.000 euro per ogni nuovo neonato. O meglio. Per quelle coppie che rientrano nella soglia Isee di 40 mila euro, con tutta la solita serie di “eccezioni” che rendono l’accesso al bonus una corsa ad ostacoli.
Anche i giornalisti de IlSole24Ore – il giornale di Confindustria – hanno dovuto ammettere che questa misura probabilmente non farà nascere neanche un bambino in più...
Perché, semplicemente, non sfiora neanche le cause reali del calo delle nascite.
Proviamo a citare almeno le ragioni principali.
In primo luogo quelle fisiologiche. Nelle generazioni in età riproduttiva (15-50 anni) va diminuendo la fertitilità, sia maschile che femminile. Patologie come le disfunzioni erettili o l’oligo-tanato-spermia (tra i maschi), o l’endometriosi e i danni all’utero da papillomavirus (tra le donne) sono in costante espansione.
Le cause scatenanti risiedono probabilmente nell’aumento dell’inquinamento e nell’uso di pesticidi-conservanti nella produzione alimentare, ma non ce n’è ancora la certezza scientifica perché – tra l’altro – i finanziamenti pubblici alla ricerca sono anch’essi in costante diminuzione.
In ogni caso, abbiamo avuto governi che riconoscevano l’esistenza di problemi ambientali, ma poi non facevano nulla nel timore di disturbare le imprese (quelli di centrosinistra); oppure governi che semplicemente negano che esista una serio cambiamento climatico e un inquinamento ormai letale (quelli di centrodestra). Il risultato, com’è ovvio, non cambia...
Poi ci sono gli ostacoli economici alla natalità. È persino inutile ricordare che proprio i giovani in età fertile sono quelli più penalizzati – nell’insieme – sul piano contrattuale e salariale. Coppie con contratti precari e salari bassi devono misurare con particolare attenzione ogni voce di spesa. E fare un figlio – anche soltanto uno, che è già la metà di quel che sarebbe auspicabile per garantire il “ricambio” – significa aprire una voragine nel bilancio familiare.
Quest’ultimo infatti deve certamente comprendere l’affitto o il mutuo per la casa di abitazione, le bollette per le utenze e uno o due mezzi di locomozione per andare al lavoro e il tempo libero. Sommate le varie voci di spesa nella vostra vita quotidiana e verificate da soli che già così si arriva quasi al limite del reddito disponibile, anche facendo una spesa alimentare molto accorta.
Del resto non esiste più da decenni una edilizia popolare a basso costo, né tanto meno una politica dell’abitare in grado di garantire un tetto a chi non si può permettere l’acquisto o un affitto gonfiato da fenomeni come l’overtourism. Anzi, i governi si preoccupano soprattutto di punire con pene sempre più pesanti anche forme di difesa come le occupazioni...
Ma un figlio richiede:
– pannolini in quantità industriale (anche per oltre 200 euro al mese);
– spese mediche supplementari e indispensabili (anche perché la sanità pubblica viene progressivamente ridotta ai minimi termini);
– alimentazione dedicata (latte in polvere, omogenizzati, ecc.);
– rette pesanti per l’asilo fino ai tre anni e poi le normali tasse scolastiche;
– eventuale ricorso al sitteraggio (a meno di non poter contare su nonni disponibili in un raggio accettabile di chilometri);
– eventuali iscrizioni a corsi o attività ludico-sportive (e materiali relativi).
È chiaro che servirebbe una rete di asili pubblici a bassissimo costo, così da permettere ai genitori – ma anche e soprattutto alle madri single – di andare a lavorare. Ma di questo non c’è più traccia da decenni. Anzi, si è fatto di tutto per favorire “i privati”, con costi crescenti.
Servirebbero ovviamente salari decenti, sufficienti a far fronte a impegni crescenti. Servirebbe sicurezza contrattuale a lungo termine, perché un figlio ha bisogno di tutto almeno fino ai 20 anni e anche oltre.
Di fronte a tutto ciò cosa rappresentano 1.000 euro una tantum? Forse quattro o cinque mesi di pannolini. Un fondalino di cartoncino, anche un po’ maleodorante...
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