Attacco alla base italiana di Herat: cinque feriti, uno è grave. Si intensifica l'offensiva talebana in tutto il paese e la Nato risponde con massicci bombardamenti aerei che fanno strage di civili.
''Vedo significativi progressi a Herat, una delle aree in cui preso inizierà la transizione''.
Le ottimistiche parole pronunciate solo una settimana fa dal segretario generale della Nato, Fogh Rasmussen, sono state clamorosamente smentite questa mattina da uno dei più sanguinosi attacchi mai condotti contro una base militare italiana in Afghanistan.
Beffando i controlli di sicurezza all'esterno del Prt di Herat, uno o due kamikaze si sono fatti esplodere davanti al cancello della base, aprendo una breccia attraverso la quale un piccolo commando di guerriglieri è penetrato nel compound, ingaggiando una duro scontro a fuoco con le truppe italiane e con i soldati afgani di stanza nella base. Ci sono stati almeno quattro morti, ma non tra gli italiani, tra cui si contano però cinque feriti, di cui uno molto grave.
In questi giorni la guerra in Afghanistan registra un drammatico aumento d'intensità. Sia in termini di attacchi messi a segno dalla resistenza talebana (venerdì è stato ucciso in un attentato nel nord del paese uno dei principali comandanti governativi tagichi, il generale Daud Daud, assieme a due soldati tedeschi), che in termini di operazioni militari Nato. Di fronte all'intensificarsi dell'offensiva talebana, il generale David Petraeus ha lasciato briglia sciolta alle forze aeree, con l'inevitabile corollario di stragi di civili.
Sabato sera, nella provincia meridionale di Helmand, in rappresaglia a un attacco pomeridiano contro un avamposto dei marines, elicotteri americani Apache hanno bombardato un villaggio del distretto di Nawzad. Sotto le macerie di due abitazioni, rase al suolo dai missili, sono rimasti i corpi senza vita di dodici bambini e due donne. Diversi bambini avevano meno due anni.
''La mia casa è stata bombardata in piena notte! Hanno ucciso i miei figli! I talebani erano ormai lontani da casa mia! Perché ci hanno bombardati!?'', chiede disperato Noor Agha, un superstite, parlando ai giornalisti.
Sempre sabato, il governatore della provincia orientale del Nuristan, Jamaluddin Badr, ha denunciato l'uccisione di diciotto civili e venti poliziotti in uno dei pesanti bombardamenti aerei americani condotti la scorsa settimana sul distretto di Barg-e-Matal, appena conquistato dai talebani. Bombardamenti che in pochi giorni hanno ucciso almeno un centinaio di persone: tutti insorti secondo i comandi Nato; in maggioranza civili innocenti secondo le autorità locali.
Fonte.
31/05/2011
30/05/2011
Il meno peggio.
"Turiamoci il naso e votiamo DC."
Fu con questa frase che Indro Montanelli sdoganò il concetto di meno peggio agli occhi di un'opinione pubblica che, alla vigilia delle politiche del '76, andava sensibilizzata sul pericolo rosso, rappresentato dall'avanzata elettorale che registrava il PCI sotto la segreteria di Enrico Berlinguer.
A volte mi domando se Montanelli abbia mai meditato sul deflagrante impatto che le sue parole hanno avuto sulla coscienza politica del popolo italiano.
Me lo domando con maggiore insistenza oggi, giorno in cui si festeggia il risultato elettorale conquistato dalla sinistra alle amministrative.
E' vero, in linea teorica ci sarebbe da rallegrarsi per il notevole ridimensionamento della destra, soprattutto in un caposaldo della conservazione come Milano, poi però penso a questa sinistra e in pochi minuti arrivo al già decantato "sinistra di merda", perché quelli che da domani andranno ad occupare le sedie su cui prima poggiavano le natiche i lacchè di Berlusconi, sono i compagni di partito di coloro che hanno demolito il lavoro col precariato (Treu non era di destra), che hanno svenduto la maggior parte del patrimonio industriale italiano (Prodi non era di destra), che hanno pomiciato con Forza Italia per 15 anni (D'Alema e Violante non sono di destra, sono post comunisti che è anche peggio!) e che consigliavano agli operai FIAT di calarsi le braghe davanti a Marchionne (Chiamparino, Fassino, Renzi, non sono di destra, almeno tecnicamente...).
Un discorso a parte meriterebbe De Magistris che si è fatto spedire al Parlamento Europeo con i voti dei simpatizzanti di Grillo sbandierando una cieca fede nella legalità (che ai tempi pareva pure genuina), poi s'è tesserato IDV e appena ha sentito odore di carriera nella politica nazionale, ha prontamente abbandonato il mandato che gli avevano affidato gli elettori per correre al comune di Napoli, non dimenticando di sfruttare l'immunità (come parlamentare europeo) per scansare un paio di procedimenti giudiziari a suo carico.
La domanda, retorica, che mi pongo costantemente è: perché la gente continua a sostenere questo sistema?
La risposta potrebbe darmela soltanto Licio Gelli.
Fu con questa frase che Indro Montanelli sdoganò il concetto di meno peggio agli occhi di un'opinione pubblica che, alla vigilia delle politiche del '76, andava sensibilizzata sul pericolo rosso, rappresentato dall'avanzata elettorale che registrava il PCI sotto la segreteria di Enrico Berlinguer.
A volte mi domando se Montanelli abbia mai meditato sul deflagrante impatto che le sue parole hanno avuto sulla coscienza politica del popolo italiano.
Me lo domando con maggiore insistenza oggi, giorno in cui si festeggia il risultato elettorale conquistato dalla sinistra alle amministrative.
E' vero, in linea teorica ci sarebbe da rallegrarsi per il notevole ridimensionamento della destra, soprattutto in un caposaldo della conservazione come Milano, poi però penso a questa sinistra e in pochi minuti arrivo al già decantato "sinistra di merda", perché quelli che da domani andranno ad occupare le sedie su cui prima poggiavano le natiche i lacchè di Berlusconi, sono i compagni di partito di coloro che hanno demolito il lavoro col precariato (Treu non era di destra), che hanno svenduto la maggior parte del patrimonio industriale italiano (Prodi non era di destra), che hanno pomiciato con Forza Italia per 15 anni (D'Alema e Violante non sono di destra, sono post comunisti che è anche peggio!) e che consigliavano agli operai FIAT di calarsi le braghe davanti a Marchionne (Chiamparino, Fassino, Renzi, non sono di destra, almeno tecnicamente...).
Un discorso a parte meriterebbe De Magistris che si è fatto spedire al Parlamento Europeo con i voti dei simpatizzanti di Grillo sbandierando una cieca fede nella legalità (che ai tempi pareva pure genuina), poi s'è tesserato IDV e appena ha sentito odore di carriera nella politica nazionale, ha prontamente abbandonato il mandato che gli avevano affidato gli elettori per correre al comune di Napoli, non dimenticando di sfruttare l'immunità (come parlamentare europeo) per scansare un paio di procedimenti giudiziari a suo carico.
La domanda, retorica, che mi pongo costantemente è: perché la gente continua a sostenere questo sistema?
La risposta potrebbe darmela soltanto Licio Gelli.
26/05/2011
25/05/2011
Bob Dylan, 70 anni. E non per caso.
Settant’anni. Un traguardo. Soprattutto se ti chiami Bob Dylan e hai scritto Like a Rolling Stone, All Along The Watchtower, Blowin’ in The Wind, Forever Young, Hurricane. Settant’anni vuol dire almeno tre generazioni. Il vento della sua musica ha soffiato sul vento di continenti, è riuscito ad accomunare milioni di persone con quella forza dirompente che solo la musica e la letteratura riescono a emanare.
Di celebrazioni, in questi giorni, ce ne sono state anche troppe. In fondo è solo un traguardo. Mi sono andato a leggere i giornali in giro per il mondo, la solita nenia. Se volete sapere qualcosa di Bob Dylan fate come feci io a quattordici anni, quando mi comprai la biografia scritta da Anthony Scaduto, lì dentro capirete chi è davvero quel poeta che a vent’anni partì dal Minnesota, Duluth, la provincia gelida di un’America che i fratelli Cohen hanno raccontato in maniera magistrale in Fargo, e arrivò in un ospedale di New York dove il suo idolo, Woody Guthrie, stava per tirare le cuoia e lui fece in tempo a fargli ascoltare solo quei pochi pezzi che aveva già scritto su pezzi di carta.
A New York Robert Allen Zimmerman sarebbe rimasto, e al Greenwich Village – quello degli anni Sessanta, non il quartiere di oggi – sarebbe diventato Bob Dylan.
Mi ero promesso, io che sono dylaniano da quando ero fanciullo, che non avrei mai scritto di Dylan, soprattutto in ricorrenze come queste. Dylan l’ho ascoltato a New York, Londra, Modena e Livorno. Mi è bastato, anche se l’abilità con la quale dal vivo stravolge le canzoni non piace quasi mai. Evito ogni tipo di ipocrisia, e confesso candidamente che forse solo al concerto di New York ho rivissuto la magia trovata nelle pagine del libro di Scaduto: le altre volte l’attesa e l’emozione hanno sempre giocato a mio sfavore.
Non ne avrei scritto, dicevo. Ma è stato un professore di giornalismo della Columbia University a farmi aprire gli occhi. A spiegarmi perché 70 anni, nella musica, sono un traguardo importante.
La lezione di David Hajdu è molto semplice e basata sui numeri, non sulle parole. 70 anni compie Bob Dylan, 70 ne avrebbe compiuti John Lennon lo scorso ottobre. Joan Baez ha festeggiato a gennaio, Paul Simon raggiungerà il traguardo entro la fine dell’anno. Il prossimo anno, il club dei settantenni pop leggendario crescerà fino a includere Paul McCartney, Aretha Franklin, Carole King, Brian Wilson e Lou Reed. Jimi Hendrix e Jerry Garcia sarebbero stati anche loro settantenni nel 2012.
Coincidenza? Niente affatto, secondo Hajdu.
Tutti questi signori hanno compiuto 14 anni intorno al 1955 e il 1956, quando il rock ‘n’ roll per la prima volta eruttò come un vulcano impazzito.
Quattordici è un'età formativa per quello che sarà il pop. A 14 anni si affrontano le tirannie del sesso e l’età adulta, quella che non ti lascia più le briciole sul percorso per trovare il ritorno. A 14 anni lotti per capire che tipo di adulto ti piacerebbe essere.
“Quattordici è una sorta di età magica per lo sviluppo di gusti musicali”, spiega Daniel J. Levitin, professore di psicologia e direttore del Laboratorio di Musica Perception, Cognition and Expertise della McGill University. ”Sono gli ormoni della crescita puberale i maggiori responsabili. E a 14 anni i gusti musicali ti creano un distintivo di identità”.
Il rock ‘n roll e quell’eruzione che ricorda il professor Hajdu hanno un nome e cognome: Elvis Presley, il re che l’America non ha mai avuto. Lo disse Bob Dylan stesso a Anthony Scaduto: “La prima volta che sentii Elvis fu come fuggire dalla prigione”.
Lo stesso Sir Paul McCartney ha sempre avuto una venerazione per Elvis. Ma non è questo il punto, non è solo il rock ‘n roll. Sono i 14 anni. Non sappiamo se Robert Zimmerman sarebbe mai diventato Bob Dylan se avesse compiuto i suoi 14 anni un decennio prima. Non lo potremo mai sapere. Sappiamo però che quando i Beatles sbarcarono negli Stati Uniti, all’Ed Sullivan Show, avevano 14 anni di età Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Gene Simmons e Billy Joel. E forse anche per questo, musicalmente parlando e in modi e termini diversi tra loro, sono diventati quello che sono oggi. Forse per sapere chi sarà il genio dei prossimi anni faremmo bene ad andare a spiare negli armadietti dei ragazzi che frequentano la terza media. Probabilmente faremmo bene a spiare i 140 caratteri che i social network impongono come limite per capire i sonetti che segneranno a modo loro un’epoca.
E’ probabile che coloro che saranno celebrati nel 2067 hanno 14 anni oggi, nel 2011.
Fonte.
Mi cambia la giornata trovare persone che scrivono così di musica, soprattutto quando sì tratta d'artisti che, per un verso o per l'altro, non gravitano nella mia orbita.
Di celebrazioni, in questi giorni, ce ne sono state anche troppe. In fondo è solo un traguardo. Mi sono andato a leggere i giornali in giro per il mondo, la solita nenia. Se volete sapere qualcosa di Bob Dylan fate come feci io a quattordici anni, quando mi comprai la biografia scritta da Anthony Scaduto, lì dentro capirete chi è davvero quel poeta che a vent’anni partì dal Minnesota, Duluth, la provincia gelida di un’America che i fratelli Cohen hanno raccontato in maniera magistrale in Fargo, e arrivò in un ospedale di New York dove il suo idolo, Woody Guthrie, stava per tirare le cuoia e lui fece in tempo a fargli ascoltare solo quei pochi pezzi che aveva già scritto su pezzi di carta.
A New York Robert Allen Zimmerman sarebbe rimasto, e al Greenwich Village – quello degli anni Sessanta, non il quartiere di oggi – sarebbe diventato Bob Dylan.
Mi ero promesso, io che sono dylaniano da quando ero fanciullo, che non avrei mai scritto di Dylan, soprattutto in ricorrenze come queste. Dylan l’ho ascoltato a New York, Londra, Modena e Livorno. Mi è bastato, anche se l’abilità con la quale dal vivo stravolge le canzoni non piace quasi mai. Evito ogni tipo di ipocrisia, e confesso candidamente che forse solo al concerto di New York ho rivissuto la magia trovata nelle pagine del libro di Scaduto: le altre volte l’attesa e l’emozione hanno sempre giocato a mio sfavore.
Non ne avrei scritto, dicevo. Ma è stato un professore di giornalismo della Columbia University a farmi aprire gli occhi. A spiegarmi perché 70 anni, nella musica, sono un traguardo importante.
La lezione di David Hajdu è molto semplice e basata sui numeri, non sulle parole. 70 anni compie Bob Dylan, 70 ne avrebbe compiuti John Lennon lo scorso ottobre. Joan Baez ha festeggiato a gennaio, Paul Simon raggiungerà il traguardo entro la fine dell’anno. Il prossimo anno, il club dei settantenni pop leggendario crescerà fino a includere Paul McCartney, Aretha Franklin, Carole King, Brian Wilson e Lou Reed. Jimi Hendrix e Jerry Garcia sarebbero stati anche loro settantenni nel 2012.
Coincidenza? Niente affatto, secondo Hajdu.
Tutti questi signori hanno compiuto 14 anni intorno al 1955 e il 1956, quando il rock ‘n’ roll per la prima volta eruttò come un vulcano impazzito.
Quattordici è un'età formativa per quello che sarà il pop. A 14 anni si affrontano le tirannie del sesso e l’età adulta, quella che non ti lascia più le briciole sul percorso per trovare il ritorno. A 14 anni lotti per capire che tipo di adulto ti piacerebbe essere.
“Quattordici è una sorta di età magica per lo sviluppo di gusti musicali”, spiega Daniel J. Levitin, professore di psicologia e direttore del Laboratorio di Musica Perception, Cognition and Expertise della McGill University. ”Sono gli ormoni della crescita puberale i maggiori responsabili. E a 14 anni i gusti musicali ti creano un distintivo di identità”.
Il rock ‘n roll e quell’eruzione che ricorda il professor Hajdu hanno un nome e cognome: Elvis Presley, il re che l’America non ha mai avuto. Lo disse Bob Dylan stesso a Anthony Scaduto: “La prima volta che sentii Elvis fu come fuggire dalla prigione”.
Lo stesso Sir Paul McCartney ha sempre avuto una venerazione per Elvis. Ma non è questo il punto, non è solo il rock ‘n roll. Sono i 14 anni. Non sappiamo se Robert Zimmerman sarebbe mai diventato Bob Dylan se avesse compiuto i suoi 14 anni un decennio prima. Non lo potremo mai sapere. Sappiamo però che quando i Beatles sbarcarono negli Stati Uniti, all’Ed Sullivan Show, avevano 14 anni di età Bruce Springsteen, Stevie Wonder, Gene Simmons e Billy Joel. E forse anche per questo, musicalmente parlando e in modi e termini diversi tra loro, sono diventati quello che sono oggi. Forse per sapere chi sarà il genio dei prossimi anni faremmo bene ad andare a spiare negli armadietti dei ragazzi che frequentano la terza media. Probabilmente faremmo bene a spiare i 140 caratteri che i social network impongono come limite per capire i sonetti che segneranno a modo loro un’epoca.
E’ probabile che coloro che saranno celebrati nel 2067 hanno 14 anni oggi, nel 2011.
Fonte.
Mi cambia la giornata trovare persone che scrivono così di musica, soprattutto quando sì tratta d'artisti che, per un verso o per l'altro, non gravitano nella mia orbita.
24/05/2011
Addio, Macho !!!
E' stato sicuramente tra i migliori wrestler di tutti i tempi. Aveva 62 anni, origini italiane ed era un figlio d'arte: suo padre Angelo Poffo è stato tra i primi combattenti a stelle e strisce. Chiassoso e sempre colorato, le sue avventure con Hulk Hogan appassionarono una generazione intera. Erano i tempi di Dan Peterson che commentava con la sua inconfodibile voce le gesta di Macho Man Randy Savage ed i suoi scontri accesi contro Ultimate Warrior, suo grande amico/nemico di sempre, contro il compianto Andre' The Giant e contro il diabolico Ted 'Million Dollar Man' DeBiase. Macho Man fu famoso anche per essersi sposato sul ring con Miss Elizabeth (altro character del wrestling) al SummerSlam 1991. Un matrimonio che però non durò molto. Per colpa di Miss Elizabeth ci fu anche un grande scontro tra lui e l'amico di sempre, Hulk Hogan. Con Hulkster formò uno dei tag team più memorabili di tutti i tempi: i MegaPowers.
Fu costretto ad abbandonare la lega più importante di Wrestling dopo uno scontro con Ultimate Warrior. L'incontro prevedeva una clausola: chi perde, si ritira dalla lega. Perse Macho Man che si rifece una carriera nella meno blasonata lega WCW. Per lui anche brevi apparazioni nel mondo del cinema, interpretò un wrestler nell'ultimo Spiderman di Sam Raimi.
23/05/2011
Futuro, questo sconosciuto.
Questa massima, infaustamente usata dai nazisti come messaggio di "benvenuto" per tutti i disgraziati che soggiornarono ad Auschwitz Birkenau, è anche il cardine su cui si fonda ogni organizzazione sociale, da sempre. Se non sì lavora, non sì usufruisce di un reddito. Senza reddito è praticamente impossibile farsi una vita propria.
Banalità? Quando il sistema funziona sì, quando lo stesso sistema s'inceppa e va progressivamente in pezzi, no. La disgregazione sempre più spinta dell'economia e della società che ci sta dietro è il dato più facilmente riscontrabile in questi tempi. Se il declassamento della finanza greca e i timori per quella italiana, generalmente dicono poco all'uomo della strada (varrebbe comunque la pena domandarsi perché l'affidabilità di un ente pubblico debba essere sancita da un soggetto privato -ndr) il disfacimento del tessuto produttivo dovrebbe (anche se nella realtà dei fatti riscontro spesso l'esatto opposto -ndr) destare decisamente più allarme, soprattutto quando rischia d'impattare in maniera devastante sulla realtà sociale di turno, come potrebbe accadere nell'immediato a Genova.
Il capoluogo ligure, sconta in questi giorni decenni di scelte economiche scellerate, che hanno trasformato il settore produttivo della città in una mastodontica struttura assistenziale, in cui lo sviluppo è sempre stato subordinato alla logica clientelare del potere politico e sindacale, che è ingrassato distribuendo redditi (finché ce n'era -ndr) a destra e manca.
La pacchia è definitivamente finita con gli anni '90, periodo in cui anche Genova sperimenta sulla propria pelle la ricetta della privatizzazione (gestita in buona parte da Prodi), "necessaria" per allineare il sistema Paese al libero mercato e all'UE, in realtà finalizzata allo spolpamento delle eccellenze che l'Italia fu comunque in grado di coltivare negli anni delle vacche grasse.
Le logiche del mercato, al posto di divenire occasione di rilancio per aziende che andavano male ma possedevano comunque un patrimonio industriale spendibile, si tramutarono nella pietra tombale della "grande industria" nazionale e di conseguenza genovese, che è passata per una serie infinita di fusioni, vendite e riassetti costantemente gestiti in quel di Roma dalla teste che hanno rilevato la direzione dei gruppi una volta appartenenti all'IRI, che costituiscono tuttora l'ossatura occupazionale cittadina (fatta eccezione per il mastodontico terziario pubblico) a maggior ragione se sì considera l'indotto gravitante attorno ad Ansaldo Energia, Ansaldo STS, Elsag-Datamat, Selex Communications, Fincantieri, la crème dell'industria locale.
Gli ultimi tre nomi citati sono i protagonisti delle più recenti vicende economiche cittadine.
Dopo anni d'andamento non incoraggiante nei rispettivi settori, Elsag e Selex sì sono fuse in un'entità unica. L'obiettivo ufficiale di Finmeccanica è quello di armonizzare l'offerta ICT in seno al gruppo, decisione che sì potrebbe condividere se la dirigenza della neo azienda non avesse deciso di battezzare un piano industriale ancora inesistente con la cassa integrazione per 650 dipendenti (190 genovesi).
Forte di questo riassetto strategico, Genova patisce in queste ore anche il ridimensionamento di Fincantieri, intenzionata a smantellare lo stabilimento di Sestri Ponente, dove i lavoratori sono già sul piede di guerra.
La situazione, per forza di cose, ha già chiamato in causa la politica nazionale e locale, da cui personalmente mi attendo poco e nulla, soprattutto a fronte dei recenti casi FIAT.
22/05/2011
Week end a St.Moritz per quelli che contano.
L'annuale riunione a porte chiuse del gruppo Bilderberg si terrà dal 9 al 12 giugno a St.Moritz.
Si terrà dal 9 al 12 giugno a St.Moritz, in Svizzera, la riunione del gruppo Bilderberg, il conclave che ogni anno, dal 1954, raccoglie l'élite economica, politica e militare occidentale per discutere a porte chiuse, nella massima riservatezza, dei principali problemi globali del momento e delle politiche da promuovere nelle sedi internazionali ufficiali (Ue, Fmi, G8, G20, ecc).
Finora non sono filtrate indiscrezioni sui temi dell'incontro, che dovrebbe essere ospitato al Grand Hotel Kempinski (foto a lato) o all'Hotel Suvretta House (foto in basso). Ma, visti gli ordini del giorno dei passati meeting, è facile immaginare che si parlerà di guerra in Libia e di rivoluzione in Siria, di Afghanistan e Pakistan, di crisi economica e prezzo del petrolio e, se non sarà già stata decisa, della successione di Strauss-Kahn alla guida del Fondo monetario internazionale.
I Giovani socialisti grigionesi hanno già presentato alle autorità cantonali la richiesta di tenere una manifestazione anti-Bilderberg l'11 giugno a St. Moritz, all'insegna dello slogan "L'essere umano prima del mercato - Osare più democrazia". Ma, viste le rigidissime misure di sicurezza solitamente adottate in occasione di questi summit, è difficile che la protesta verrà autorizzata.
A parte questo, l'unica voce critica alzatasi contro il summit globalista è quella di Dominique Baettig, parlamentare della destra nazionalista dell'Udc-Svp (quella delle campagne xenofobe contro i minareti e contro gli immigrati italiani), lo stesso personaggio che a febbraio costrinse Bush ad annullare la sua visita in Svizzera dopo aver chiesto al governo elvetico di arrestare l'ex presidente Usa per crimini di guerra.
Baettig ha scritto una lettera al Dipartimento federale di giustizia e polizia, stigmatizzando anche stavolta il fatto che diversi partecipanti all'incontro - dallo stesso George Bush, al suo ex vice Dick Cheney all'inossidabile Henry Kissinger - sono responsabili di crimini di guerra e contro l'umanità, e denunciando quelli che, a suo dire, sono gli obiettivi dell'élite riunita dal Bilderberg.
''Questo discreto ma influente gruppo promuove un modello sociale ultraliberista con una moneta unica mondiale e l'Fmi come tesoriere'' - scrive Baettig - ''gioca con le paure globalizzate, manipolando i mass media controllati, per imporre terapie d'urto dagli effetti sociali devastanti'' che ''favoriscono l'indebitamento degli Stati nei confronti delle banche''.
''Privatizzano eserciti e polizie, pianificano azioni contro Stati sovrani'' e ''programmano la fine della democrazia, con lo spostamento del potere dagli Stati a istituzioni sovranazionali non elette''.
Se queste innegabili tendenze globali siano o meno frutto di decisioni prese a tavolino durante gli incontri del Bilderberg lo sa solo chi vi prende parte. Da quando questa organizzazione privata, lo scorso anno, ha deciso di uscire dall'ombra con la pubblicazione di un sito web ufficiale si conoscono i nomi dei partecipanti* e gli ordini del giorno, ma non le decisioni prese: quelle rimangono coperte dal massimo riserbo.
* Le personalità italiane che, secondo le liste ufficiali, hanno partecipato agli ultimi incontri del Bilderberg sono Mario Draghi, Romano Prodi, Mario Monti, Paolo Scaroni, Tommaso Padoa-Schioppa, Joahn Elkann, Franco Bernabè, Domenico Siniscalco, Fulvio Conti e Gianfelice Rocca.
Fonte.
I leghisti elvetici sembrano (leggermente) più seri di quelli nostrani.
Si terrà dal 9 al 12 giugno a St.Moritz, in Svizzera, la riunione del gruppo Bilderberg, il conclave che ogni anno, dal 1954, raccoglie l'élite economica, politica e militare occidentale per discutere a porte chiuse, nella massima riservatezza, dei principali problemi globali del momento e delle politiche da promuovere nelle sedi internazionali ufficiali (Ue, Fmi, G8, G20, ecc).
Finora non sono filtrate indiscrezioni sui temi dell'incontro, che dovrebbe essere ospitato al Grand Hotel Kempinski (foto a lato) o all'Hotel Suvretta House (foto in basso). Ma, visti gli ordini del giorno dei passati meeting, è facile immaginare che si parlerà di guerra in Libia e di rivoluzione in Siria, di Afghanistan e Pakistan, di crisi economica e prezzo del petrolio e, se non sarà già stata decisa, della successione di Strauss-Kahn alla guida del Fondo monetario internazionale.
I Giovani socialisti grigionesi hanno già presentato alle autorità cantonali la richiesta di tenere una manifestazione anti-Bilderberg l'11 giugno a St. Moritz, all'insegna dello slogan "L'essere umano prima del mercato - Osare più democrazia". Ma, viste le rigidissime misure di sicurezza solitamente adottate in occasione di questi summit, è difficile che la protesta verrà autorizzata.
A parte questo, l'unica voce critica alzatasi contro il summit globalista è quella di Dominique Baettig, parlamentare della destra nazionalista dell'Udc-Svp (quella delle campagne xenofobe contro i minareti e contro gli immigrati italiani), lo stesso personaggio che a febbraio costrinse Bush ad annullare la sua visita in Svizzera dopo aver chiesto al governo elvetico di arrestare l'ex presidente Usa per crimini di guerra.
Baettig ha scritto una lettera al Dipartimento federale di giustizia e polizia, stigmatizzando anche stavolta il fatto che diversi partecipanti all'incontro - dallo stesso George Bush, al suo ex vice Dick Cheney all'inossidabile Henry Kissinger - sono responsabili di crimini di guerra e contro l'umanità, e denunciando quelli che, a suo dire, sono gli obiettivi dell'élite riunita dal Bilderberg.
''Questo discreto ma influente gruppo promuove un modello sociale ultraliberista con una moneta unica mondiale e l'Fmi come tesoriere'' - scrive Baettig - ''gioca con le paure globalizzate, manipolando i mass media controllati, per imporre terapie d'urto dagli effetti sociali devastanti'' che ''favoriscono l'indebitamento degli Stati nei confronti delle banche''.
''Privatizzano eserciti e polizie, pianificano azioni contro Stati sovrani'' e ''programmano la fine della democrazia, con lo spostamento del potere dagli Stati a istituzioni sovranazionali non elette''.
Se queste innegabili tendenze globali siano o meno frutto di decisioni prese a tavolino durante gli incontri del Bilderberg lo sa solo chi vi prende parte. Da quando questa organizzazione privata, lo scorso anno, ha deciso di uscire dall'ombra con la pubblicazione di un sito web ufficiale si conoscono i nomi dei partecipanti* e gli ordini del giorno, ma non le decisioni prese: quelle rimangono coperte dal massimo riserbo.
* Le personalità italiane che, secondo le liste ufficiali, hanno partecipato agli ultimi incontri del Bilderberg sono Mario Draghi, Romano Prodi, Mario Monti, Paolo Scaroni, Tommaso Padoa-Schioppa, Joahn Elkann, Franco Bernabè, Domenico Siniscalco, Fulvio Conti e Gianfelice Rocca.
Fonte.
I leghisti elvetici sembrano (leggermente) più seri di quelli nostrani.
21/05/2011
Come get some!
Insieme a Prince of darkness questo era l'unico pezzo di Risk che mi piaceva.
Peccato si trattasse di una bonus cover per la sola edizione giapponese, che amarezza.
20/05/2011
From row power to soft power.
Sempre più spesso mi capita di leggere opinioni secondo cui, i libri di storia (scritti da chi?) dedicheranno ampio spazio alla primavera araba e probabilmente faranno altrettanto con la figura di Barack Obama che, con sempre maggiore decisione, sta assurgendo a più grande piazzista del globo.
Se l'Italia può fregiarsi d'essere la natia patria del più abile venditore di fumo d'Europa (Berlusconi), ci sta che il primo inquilino della Casa Bianca voglia aggiudicarsi la coppa del mondo nella medesima disciplina. Ovviamente, non è questione di solo orgoglio nazionale, ma di squisita e becera politica. Con l'elezione di Obama è indubbio che il lobbismo abbia fatto centro come mai verificatosi nella storia americana, quanto meno del secondo dopoguerra.
L'hawaiano, infatti, è sintesi perfetta di quel carisma tanto accecante nelle rappresentazioni televisive, quanto inconsistente nelle azioni concrete. Esattamente ciò che serviva per traghettare l'intero blocco occidentale oltre la politica del pugno duro di Bush Jr. Il row power del texano aveva ormai stancato. La gente iniziava a scoglionarsi di finanziare con sangue e tasse l'infinita guerra al terrore, e non aveva più tanta simpatia per quel liberismo che negli anni '80 infiammò gli animi, ma alla soglia del nuovo millennio prese a scricchiolare sotto il peso della speculazione finanziaria poi trasformatasi in crisi economica di cui, fino ad ora, nessun analista "ufficiale" ha potuto (voluto) stimare le ripercussioni.
Questa situazione presentava due soli possibili sbocchi:
Le tempistiche dell'azione sono state studiate con precisione cronometrica. Allo scadere del mandato di Bush Jr. è casualmente corrisposto l'inizio della crisi finanziaria, che nel corso della campagna presidenziale del 2008 è progressivamente divenuta crisi dell'economia reale, un ottimo argomento su cui i democratici hanno potuto tessere i propri slogan, in maniera per altro piuttosto banale, merito di un'opinione pubblica abilmente manipolata dai media (tutti privati) e quindi incapace di riconoscere che il tracollo USA ha radici ben più lontane dei due mandati del cespuglio texano, e coinvolge pienamente il decennio governato dal democratico Bill Clinton.
Azzeccati i tempi e il copione, mancava solo il protagonista dell'ennesimo film scritto da altri, e quale miglior teatrante del cambiamento sì poteva trovare in un paese di bianchi, anglosassoni e protestanti, se non un volto nero? Detto fatto, il buon Barack, hawaiano di nascita (quindi formalmente made in USA) ma con radici nell'Africa Nera, viene incoronato dalle primarie democratiche alla guida del partito e contrapposto ad una compagine repubblicana appositamente scelta per essere impresentabile (il duo McCain – Palin), stravince le presidenziali a furor di un popolo incantato dal suo "Yes we can!", ritornello perfetto con cui martellare le menti di una popolazione stanca e desiderosa di un cambio di marcia.
Di Obama, anche dalle nostre parti, s'è detto di tutto e di più. Sull'esaltazione della sua politica dal basso finanziata dai cittadini (ma molto più dalle lobby) ci hanno marciato in molti, soprattutto a sinistra (vedi PD, SEL ecc.) e tra gli alternativi (Beppe Grillo). Su ogni organo d'informazione non manca mai l'articolo che esalta l'uscita del giorno del presidente americano e parimenti ne ridimensiona le sconfitte. La strategia comunicativa messa in atto a tale scopo è la canonica mitizzazione del singolo discorso cui fa immediato seguito il disinteresse circa i reali cambiamenti avvenuti a seguito del proclama di turno.
E' il caso del recente cambio di linea politica USA in Medio Oriente che sancisce a chiare lettere il nuovo passo che Obama intende imporre all'imperialismo americano. Non più, o meglio non solo guerre di occupazione, ma anche e soprattutto investimenti per lo sviluppo e la speculazione in Medio Oriente. In sostanza, Wall Street dovrà farsi carico di vincere la dove il fucile s'è dimostrato fallimentare o non sufficiente. A dispetto di quanto sostenuto da Obama, infatti, il disimpegno in Iraq è il risultato di una sconfitta politico-militare seconda solo al disastro vietnamita, mentre la vittoria sui talebani e al-qaeda sono due sonore balle perché in Afghanistan la NATO controlla esclusivamente le aree metropolitane del Paese, mentre la reale esistenza della organizzazione terroristica facente capo a Bin Laden ha avuto un riscontro prevalentemente mediatico.
In questa chiave va, quindi, interpretata la simpatia americana per le rivolte più o meno laiche in atto nel mondo arabo, e sempre in quest'ottica sì colloca l'affermazione di Obama secondo cui Israele dovrebbe tornare entro i confini del 1967 (ovviamente a condizioni tutte da definire).
Probabilmente, Obama e chi lo manovra è convinto che il profumo dei verdoni americani sarà in grado di placare gli animi di tutti gli esagitati che s'ammazzano da decenni in una zona del mondo che, se conquistata economicamente, potrebbe garantire altri 50 anni di monopolio internazionale allo Zio Sam, oggi più pressato di un tempo perché l'economia prossima al soffocamento, oltre alle storture interne, deve fare i conti anche con la Cina che ha tratto enormi benefici dal progressivo impoverimento produttivo che ha eroso la società occidentale. E', quindi, imperativo per gli USA ammaliare con il proprio soft power i mercati medio orientale ed africano, prima che vi esondi l'abbondantissimo capitale cinese (e russo), che potrebbe chiudere definitivamente il capitolo del dominio unico a stelle e strisce.
Se l'Italia può fregiarsi d'essere la natia patria del più abile venditore di fumo d'Europa (Berlusconi), ci sta che il primo inquilino della Casa Bianca voglia aggiudicarsi la coppa del mondo nella medesima disciplina. Ovviamente, non è questione di solo orgoglio nazionale, ma di squisita e becera politica. Con l'elezione di Obama è indubbio che il lobbismo abbia fatto centro come mai verificatosi nella storia americana, quanto meno del secondo dopoguerra.
L'hawaiano, infatti, è sintesi perfetta di quel carisma tanto accecante nelle rappresentazioni televisive, quanto inconsistente nelle azioni concrete. Esattamente ciò che serviva per traghettare l'intero blocco occidentale oltre la politica del pugno duro di Bush Jr. Il row power del texano aveva ormai stancato. La gente iniziava a scoglionarsi di finanziare con sangue e tasse l'infinita guerra al terrore, e non aveva più tanta simpatia per quel liberismo che negli anni '80 infiammò gli animi, ma alla soglia del nuovo millennio prese a scricchiolare sotto il peso della speculazione finanziaria poi trasformatasi in crisi economica di cui, fino ad ora, nessun analista "ufficiale" ha potuto (voluto) stimare le ripercussioni.
Questa situazione presentava due soli possibili sbocchi:
- La rivoluzione del sistema economico sociale che ha dominato fino ad oggi
- Il restauro dell'odierno sistema al fine di renderlo più digeribile alle masse che iniziavano a dare segnali d'insofferenza
Le tempistiche dell'azione sono state studiate con precisione cronometrica. Allo scadere del mandato di Bush Jr. è casualmente corrisposto l'inizio della crisi finanziaria, che nel corso della campagna presidenziale del 2008 è progressivamente divenuta crisi dell'economia reale, un ottimo argomento su cui i democratici hanno potuto tessere i propri slogan, in maniera per altro piuttosto banale, merito di un'opinione pubblica abilmente manipolata dai media (tutti privati) e quindi incapace di riconoscere che il tracollo USA ha radici ben più lontane dei due mandati del cespuglio texano, e coinvolge pienamente il decennio governato dal democratico Bill Clinton.
Azzeccati i tempi e il copione, mancava solo il protagonista dell'ennesimo film scritto da altri, e quale miglior teatrante del cambiamento sì poteva trovare in un paese di bianchi, anglosassoni e protestanti, se non un volto nero? Detto fatto, il buon Barack, hawaiano di nascita (quindi formalmente made in USA) ma con radici nell'Africa Nera, viene incoronato dalle primarie democratiche alla guida del partito e contrapposto ad una compagine repubblicana appositamente scelta per essere impresentabile (il duo McCain – Palin), stravince le presidenziali a furor di un popolo incantato dal suo "Yes we can!", ritornello perfetto con cui martellare le menti di una popolazione stanca e desiderosa di un cambio di marcia.
Di Obama, anche dalle nostre parti, s'è detto di tutto e di più. Sull'esaltazione della sua politica dal basso finanziata dai cittadini (ma molto più dalle lobby) ci hanno marciato in molti, soprattutto a sinistra (vedi PD, SEL ecc.) e tra gli alternativi (Beppe Grillo). Su ogni organo d'informazione non manca mai l'articolo che esalta l'uscita del giorno del presidente americano e parimenti ne ridimensiona le sconfitte. La strategia comunicativa messa in atto a tale scopo è la canonica mitizzazione del singolo discorso cui fa immediato seguito il disinteresse circa i reali cambiamenti avvenuti a seguito del proclama di turno.
E' il caso del recente cambio di linea politica USA in Medio Oriente che sancisce a chiare lettere il nuovo passo che Obama intende imporre all'imperialismo americano. Non più, o meglio non solo guerre di occupazione, ma anche e soprattutto investimenti per lo sviluppo e la speculazione in Medio Oriente. In sostanza, Wall Street dovrà farsi carico di vincere la dove il fucile s'è dimostrato fallimentare o non sufficiente. A dispetto di quanto sostenuto da Obama, infatti, il disimpegno in Iraq è il risultato di una sconfitta politico-militare seconda solo al disastro vietnamita, mentre la vittoria sui talebani e al-qaeda sono due sonore balle perché in Afghanistan la NATO controlla esclusivamente le aree metropolitane del Paese, mentre la reale esistenza della organizzazione terroristica facente capo a Bin Laden ha avuto un riscontro prevalentemente mediatico.
In questa chiave va, quindi, interpretata la simpatia americana per le rivolte più o meno laiche in atto nel mondo arabo, e sempre in quest'ottica sì colloca l'affermazione di Obama secondo cui Israele dovrebbe tornare entro i confini del 1967 (ovviamente a condizioni tutte da definire).
Probabilmente, Obama e chi lo manovra è convinto che il profumo dei verdoni americani sarà in grado di placare gli animi di tutti gli esagitati che s'ammazzano da decenni in una zona del mondo che, se conquistata economicamente, potrebbe garantire altri 50 anni di monopolio internazionale allo Zio Sam, oggi più pressato di un tempo perché l'economia prossima al soffocamento, oltre alle storture interne, deve fare i conti anche con la Cina che ha tratto enormi benefici dal progressivo impoverimento produttivo che ha eroso la società occidentale. E', quindi, imperativo per gli USA ammaliare con il proprio soft power i mercati medio orientale ed africano, prima che vi esondi l'abbondantissimo capitale cinese (e russo), che potrebbe chiudere definitivamente il capitolo del dominio unico a stelle e strisce.
19/05/2011
Yes, we can create debt!
Usa: scatta di nuovo l'allarme sul debito, raggiunto tetto massimo.
(Il Sole 24 Ore Radiocor) - New York, 16 mag - Il debito federale Usa il tetto, fissato a 14.294 miliardi di dollari, e' sul punto di essere raggiunto. Il segretario al Tesoro Timothy Geithner ha nuovamente definito "catastrofici" gli effetti di un eventuale default del Paese e in una lettera al leader del Senato Harry Reid, lo stesso Geithner preme sul Congresso affinche' decida urgentemente di rialzare il tetto "per proteggere la credibilita' e il credito gli Stati Uniti ed evitare catastrofiche conseguenze per i cittadini". Nel breve termine, il Tesoro ha a disposizione vari meccanismi temporanei per guadagnare tempo ed evitare il default (vi ha fatto ricorso nel 2004, dopo che il 14 ottobre il tetto del debito era stato raggiunto, ma e' stato alzato un mese circa piu' tardi di 800 miliardi di dollari a 8.184 miliardi). Per esempio, dovrebbe annunciare il blocco alle emissioni e al reinvestimento di obbligazioni in determinati piani pensionistici, in questo modo spostando la scadenza per il default al 2 agosto. Il tetto e' fissato per legge dal Second Liberty Bond Act del 1917 e il limite massimo raggiungibile e' appunto di 14.294 miliardi di dollari (dal 1940 ad oggi e' stato rivisto al rialzo 73 volte, l'ultima nel 2010 di 1.900 miliardi). A fine marzo, il debito pubblico americano era pari a 14.260 miliardi di dollari, pari al 97,3 per cento del prodotto interno lordo del 2010 (14.660 miliardi di dollari). Dall'anno fiscale 2003 in poi il debito e' cresciuto di oltre 500 miliardi di dollari all'anno, con picchi di 1.000, 1.900 e 1.700 miliardi di dollari negli ultimi tre anni. A questo ritmo di crescita, secondo le stime del Governo, il limite dovrebbe appunto essere raggiunto oggi. Poi il Tesoro avra' bisogno dell'autorizzazione del Congresso per ricevere ogni prestito ulteriore e il Governo diventera' inadempiente rispetto ai prestiti gia' ottenuti. Il punto cruciale e' che i repubblicani non sono disposti a dare il via libera a una "legge pura", come quella che ha chiesto Barack Obama, ovvero a un provvedimento che riguardi solo l'innalzamento del tetto del debito, mentre chiedono che nel testo siano aggiunte anche maggiori concessioni sul taglio della spesa pubblica. Un'idea e' quella di legare la legge che alza il tetto del debito al rapporto della cosiddetta "Gang of Six", il gruppo bipartisan di senatori (tre democratici e tre repubblicani) incaricato di mettere a punto una proposta per la riduzione di lungo termine del deficit. A24 (RADIOCOR) 16-05-11 16:30:33 (0290) 5 NNNN
Fonte.
Due appunti:
1) I giornalisti di professione scrivono sempre peggio (eppure gli strumenti di correzione ortografica sono ormai diffusissimi).
2) L'efficiente (come no!) sistema americano gestisce il proprio debito elevando il tetto massimo d'indebitamento del Paese e scaricando il peso dei tagli sui fondi dedicati alla spesa sociale (i petrolieri, invece, non si toccano, cazzo loro danno lavoro!).
Fortuna che da sta gente prendiamo sempre esempio!
(Il Sole 24 Ore Radiocor) - New York, 16 mag - Il debito federale Usa il tetto, fissato a 14.294 miliardi di dollari, e' sul punto di essere raggiunto. Il segretario al Tesoro Timothy Geithner ha nuovamente definito "catastrofici" gli effetti di un eventuale default del Paese e in una lettera al leader del Senato Harry Reid, lo stesso Geithner preme sul Congresso affinche' decida urgentemente di rialzare il tetto "per proteggere la credibilita' e il credito gli Stati Uniti ed evitare catastrofiche conseguenze per i cittadini". Nel breve termine, il Tesoro ha a disposizione vari meccanismi temporanei per guadagnare tempo ed evitare il default (vi ha fatto ricorso nel 2004, dopo che il 14 ottobre il tetto del debito era stato raggiunto, ma e' stato alzato un mese circa piu' tardi di 800 miliardi di dollari a 8.184 miliardi). Per esempio, dovrebbe annunciare il blocco alle emissioni e al reinvestimento di obbligazioni in determinati piani pensionistici, in questo modo spostando la scadenza per il default al 2 agosto. Il tetto e' fissato per legge dal Second Liberty Bond Act del 1917 e il limite massimo raggiungibile e' appunto di 14.294 miliardi di dollari (dal 1940 ad oggi e' stato rivisto al rialzo 73 volte, l'ultima nel 2010 di 1.900 miliardi). A fine marzo, il debito pubblico americano era pari a 14.260 miliardi di dollari, pari al 97,3 per cento del prodotto interno lordo del 2010 (14.660 miliardi di dollari). Dall'anno fiscale 2003 in poi il debito e' cresciuto di oltre 500 miliardi di dollari all'anno, con picchi di 1.000, 1.900 e 1.700 miliardi di dollari negli ultimi tre anni. A questo ritmo di crescita, secondo le stime del Governo, il limite dovrebbe appunto essere raggiunto oggi. Poi il Tesoro avra' bisogno dell'autorizzazione del Congresso per ricevere ogni prestito ulteriore e il Governo diventera' inadempiente rispetto ai prestiti gia' ottenuti. Il punto cruciale e' che i repubblicani non sono disposti a dare il via libera a una "legge pura", come quella che ha chiesto Barack Obama, ovvero a un provvedimento che riguardi solo l'innalzamento del tetto del debito, mentre chiedono che nel testo siano aggiunte anche maggiori concessioni sul taglio della spesa pubblica. Un'idea e' quella di legare la legge che alza il tetto del debito al rapporto della cosiddetta "Gang of Six", il gruppo bipartisan di senatori (tre democratici e tre repubblicani) incaricato di mettere a punto una proposta per la riduzione di lungo termine del deficit. A24 (RADIOCOR) 16-05-11 16:30:33 (0290) 5 NNNN
Fonte.
Due appunti:
1) I giornalisti di professione scrivono sempre peggio (eppure gli strumenti di correzione ortografica sono ormai diffusissimi).
2) L'efficiente (come no!) sistema americano gestisce il proprio debito elevando il tetto massimo d'indebitamento del Paese e scaricando il peso dei tagli sui fondi dedicati alla spesa sociale (i petrolieri, invece, non si toccano, cazzo loro danno lavoro!).
Fortuna che da sta gente prendiamo sempre esempio!
18/05/2011
17/05/2011
Economia, politica e sesso.
La svolta scomoda di Strauss-Kahn
L'economista e politico francese esce di scena dopo aver auspicato una svolta "a sinistra" dell'Fmi poco gradita al gran capitale.
Lo scandalo sessuale che ha travolto il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, fa tirare un gran sospiro di sollievo a molte persone potenti: non solo al presidente francese Nicolas Sarkozy, che si è liberato del suo più pericoloso sfidante alle prossime elezioni, ma anche al gran capitale occidentale, banche e multinazionali, che vedono tramontare la svolta "a sinistra" dell'Fmi che Strauss-Kahn aveva appena annunciato.
Nelle ultime settimane, forse anche con un occhio al suo impegno elettorale in patria, l'economista parigino aveva più volte ribadito la necessità storica di trasformare il Fondo monetario internazionale da cinico strumento delle élite capitaliste occidentali a istituzione promotrice dell'uguaglianza e dell'occupazione.
Solo pochi giorni fa il famoso economista americano Joseph Stiglitz, noto critico degli eccessi del liberismo selvaggio, scriveva che ''un nuovo Fmi è pian piano emerso sotto la guida di Dominique Strauss-Kahn'', con un ''notevole sforzo di distanziarsi dalle vecchie idee sui mercati del capitale e del lavoro''. Stiglitz cita le parole con cui Strauss-Kahn ha concluso un suo recente intervento pubblico: ''Occupazione e uguaglianza sono i pilastri della prosperità economica e della stabilità politica, e devono costituire il cuore della nostra agenda politica''.
Quale fosse, nello specifico, la svolta auspicata da Strauss-Kahn lo spiegava il mese scorso il Washigton Post. In un articolo dal titolo inequivocabile, "Il capo dell'Fmi per un maggior ruolo dello Stato in economia", si legge che ''per Strauss-Kahn deve essere estesa la regolamentazione statale dei mercati, le politiche globali devono promuovere una più equa distribuzione dei redditi e le banche centrali devono fare di più per contrastare l'eccessiva espansione dei prestiti e dei prezzi''.
''La scorsa settimana - continua il Post - Strauss-Kahn ha dichiarato: "Il pendolo oscilla dal mercato verso lo Stato; la globalizzazione ha portato molto, ma ha anche mostrato un lato oscuro, un crescente abisso tra ricchi e poveri: abbiamo bisogno di una nuova forma di globalizzazione se vogliamo evitare che la mano invisibile di mercati poco regolati diventi un pugno invisibile. Ci vorrà molto tempo per riparare i danni causati dalla mancanza di supervisione del mercato: l'intera sfera pubblica deve fare di più''.
''Possiamo solo sperare che governi e mercati tengano conto delle parole di Strauss-Kahn'', concludeva Stiglitz. La sua speranza è svanita in una camera d'albergo di New York.
Come futuro direttore dell'Fmi circola con insistenza il nome di un campione del liberismo: il britannico "principe delle tenebre" Peter Mandelson, ex spin dottor di Tony Blair, commissario europeo al Commercio fino al 2008, ministro del Business di Gordon Brown fino allo scorso anno e, ovviamente, membro del Gruppo Bilderberg.
Fonte.
Considerando che Draghi (ennesimo scudiero del liberismo anglosassone) è prossimo ad insediarsi alla presidenza della BCE, ci attendono tempi davvero rosei, ma l'importante è fare il tifo da stadio per Pisapia che probabilmente subentrerà alla Moratti.
L'economista e politico francese esce di scena dopo aver auspicato una svolta "a sinistra" dell'Fmi poco gradita al gran capitale.
Lo scandalo sessuale che ha travolto il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, fa tirare un gran sospiro di sollievo a molte persone potenti: non solo al presidente francese Nicolas Sarkozy, che si è liberato del suo più pericoloso sfidante alle prossime elezioni, ma anche al gran capitale occidentale, banche e multinazionali, che vedono tramontare la svolta "a sinistra" dell'Fmi che Strauss-Kahn aveva appena annunciato.
Nelle ultime settimane, forse anche con un occhio al suo impegno elettorale in patria, l'economista parigino aveva più volte ribadito la necessità storica di trasformare il Fondo monetario internazionale da cinico strumento delle élite capitaliste occidentali a istituzione promotrice dell'uguaglianza e dell'occupazione.
Solo pochi giorni fa il famoso economista americano Joseph Stiglitz, noto critico degli eccessi del liberismo selvaggio, scriveva che ''un nuovo Fmi è pian piano emerso sotto la guida di Dominique Strauss-Kahn'', con un ''notevole sforzo di distanziarsi dalle vecchie idee sui mercati del capitale e del lavoro''. Stiglitz cita le parole con cui Strauss-Kahn ha concluso un suo recente intervento pubblico: ''Occupazione e uguaglianza sono i pilastri della prosperità economica e della stabilità politica, e devono costituire il cuore della nostra agenda politica''.
Quale fosse, nello specifico, la svolta auspicata da Strauss-Kahn lo spiegava il mese scorso il Washigton Post. In un articolo dal titolo inequivocabile, "Il capo dell'Fmi per un maggior ruolo dello Stato in economia", si legge che ''per Strauss-Kahn deve essere estesa la regolamentazione statale dei mercati, le politiche globali devono promuovere una più equa distribuzione dei redditi e le banche centrali devono fare di più per contrastare l'eccessiva espansione dei prestiti e dei prezzi''.
''La scorsa settimana - continua il Post - Strauss-Kahn ha dichiarato: "Il pendolo oscilla dal mercato verso lo Stato; la globalizzazione ha portato molto, ma ha anche mostrato un lato oscuro, un crescente abisso tra ricchi e poveri: abbiamo bisogno di una nuova forma di globalizzazione se vogliamo evitare che la mano invisibile di mercati poco regolati diventi un pugno invisibile. Ci vorrà molto tempo per riparare i danni causati dalla mancanza di supervisione del mercato: l'intera sfera pubblica deve fare di più''.
''Possiamo solo sperare che governi e mercati tengano conto delle parole di Strauss-Kahn'', concludeva Stiglitz. La sua speranza è svanita in una camera d'albergo di New York.
Come futuro direttore dell'Fmi circola con insistenza il nome di un campione del liberismo: il britannico "principe delle tenebre" Peter Mandelson, ex spin dottor di Tony Blair, commissario europeo al Commercio fino al 2008, ministro del Business di Gordon Brown fino allo scorso anno e, ovviamente, membro del Gruppo Bilderberg.
Fonte.
Considerando che Draghi (ennesimo scudiero del liberismo anglosassone) è prossimo ad insediarsi alla presidenza della BCE, ci attendono tempi davvero rosei, ma l'importante è fare il tifo da stadio per Pisapia che probabilmente subentrerà alla Moratti.
16/05/2011
Una vita spesa al servizio della democrazia.
Sì è espresso più o meno in questi termini Napolitano commentando il premio Dan David che gli è stato consegnato a Tel Aviv lo scorso 9 maggio.
Leggendo le sue affermazioni, mi viene spontaneo chiedermi se il Presidente c'è oppure ci fa. Tralasciando la sviolinata espressa nei suoi confronti della politica israeliana, che utilizza i premi filantropici sperando (a ragione visto che ci riesce sempre) di far chiudere un occhio sulla nefandezze giornaliere che compie in Palestina e dintorni, a lasciarmi basito sono le parole espresse dall'inquilino più illustre del Quirinale. Nel curriculum di un uomo che afferma d'aver speso la propria vita a rafforzare la democrazia, non mi spetterei di trovarci l'appoggio alla repressione sovietica delle rivolte ungheresi del 1956, salvo poi "migliorarsi" (insieme ad altri sedicenti comunisti stile Bondi) strizzando l'occhio alla modernizzazione nazionale socialista fondata sulle tangenti.
Il mantra che accompagna ogni politico di professione che si rispetti, afferma che l'uomo dalla mente autenticamente genuina, medita e revisiona anche profondamente le proprie linee di pensiero. Sulla carta sì tratta di un principio condivisibile, ammesso che le revisioni non diventino omicidio volontario della coerenza, che a mio modo di vedere, non è mai stata la migliore amica di Napolitano, soprattutto da quando il partenopeo è approdato al sommo colle. In 5 anni spesi come Presidente della Repubblica, Napolitano s'è dimostrato molto più attento a consolidare lo status quo politico-sociale del Paese, piuttosto che le sorti della Democrazia, pubblicamente martoriata come non mai in qust'ultimo decennio.
Chi è disposto (soprattutto a sinistra) a perdonargli ogni "svista", sostiene che la firma facile su tutte le porcherie partorite dalla nostra classe politica, fosse determinata dai ristretti margini di manovra che gli sono imposti dalla Costituzione, peccato che l'abdicazione del Presidente ai seppur ridotti poteri di cui è dotato, abbia contribuito in maniera determinante al disfacimento dell'immagine politico e sociale dell'Italia tanto a livello interno, quanto estero.
In chiusura, vale la pena notare che il premio assegnato a Napolitano non è solo di carattere "rappresentativo", ma legittima il proprio peso accompagnandosi con un assegno del valore di 1 milione di dollari...
Viene il dubbio che per il buon Giorgio, l'edificazione della democrazia sia stata un business decisamente remunerativo e come potrebbe essere altrimenti dopo ben 12 legislature trascorse tra il Parlamento nazionale e quello europeo?
Uno come lui, la crisi la sente proprio da lontano, anzi, considerando l'età non la vede nemmeno!
Leggendo le sue affermazioni, mi viene spontaneo chiedermi se il Presidente c'è oppure ci fa. Tralasciando la sviolinata espressa nei suoi confronti della politica israeliana, che utilizza i premi filantropici sperando (a ragione visto che ci riesce sempre) di far chiudere un occhio sulla nefandezze giornaliere che compie in Palestina e dintorni, a lasciarmi basito sono le parole espresse dall'inquilino più illustre del Quirinale. Nel curriculum di un uomo che afferma d'aver speso la propria vita a rafforzare la democrazia, non mi spetterei di trovarci l'appoggio alla repressione sovietica delle rivolte ungheresi del 1956, salvo poi "migliorarsi" (insieme ad altri sedicenti comunisti stile Bondi) strizzando l'occhio alla modernizzazione nazionale socialista fondata sulle tangenti.
Il mantra che accompagna ogni politico di professione che si rispetti, afferma che l'uomo dalla mente autenticamente genuina, medita e revisiona anche profondamente le proprie linee di pensiero. Sulla carta sì tratta di un principio condivisibile, ammesso che le revisioni non diventino omicidio volontario della coerenza, che a mio modo di vedere, non è mai stata la migliore amica di Napolitano, soprattutto da quando il partenopeo è approdato al sommo colle. In 5 anni spesi come Presidente della Repubblica, Napolitano s'è dimostrato molto più attento a consolidare lo status quo politico-sociale del Paese, piuttosto che le sorti della Democrazia, pubblicamente martoriata come non mai in qust'ultimo decennio.
Chi è disposto (soprattutto a sinistra) a perdonargli ogni "svista", sostiene che la firma facile su tutte le porcherie partorite dalla nostra classe politica, fosse determinata dai ristretti margini di manovra che gli sono imposti dalla Costituzione, peccato che l'abdicazione del Presidente ai seppur ridotti poteri di cui è dotato, abbia contribuito in maniera determinante al disfacimento dell'immagine politico e sociale dell'Italia tanto a livello interno, quanto estero.
In chiusura, vale la pena notare che il premio assegnato a Napolitano non è solo di carattere "rappresentativo", ma legittima il proprio peso accompagnandosi con un assegno del valore di 1 milione di dollari...
Viene il dubbio che per il buon Giorgio, l'edificazione della democrazia sia stata un business decisamente remunerativo e come potrebbe essere altrimenti dopo ben 12 legislature trascorse tra il Parlamento nazionale e quello europeo?
Uno come lui, la crisi la sente proprio da lontano, anzi, considerando l'età non la vede nemmeno!
15/05/2011
Allegramente verso il baratro.
Atene ha solo due alternative davanti a sé: uscire adesso prima di esaurire tutte le riserve valutarie in cassa, oppure quando in cassa non ci sarà più niente. Dall'Europa un piano di aiuti pasticciato. Germania, Francia e Olanda non hanno salvato il popolo greco: hanno salvato i propri banchieri dall'insolvenza greca.
Tutte le banche sono virtualmente in solventi e sono mantenute in vita solo dalla generosa liquidità erogata dalla Bce, unica istituzione finanziaria del mondo che continua ad accettare i titoli di Stato greci a garanzia dei prestiti erogati. Il sistema finanziario interno è bloccato, i crediti erogati sono inevitabilmente in rapido deterioramento. La desertificazione economica è stata accelerata dalle misure draconiane imposte dall’Europa nel maggio 2010 quando è stato erogato un prestito di 110 miliardi di euro per “salvare” la Grecia. La salvezza di Atene sarebbe stata quella di non essere entrata nell’euro, di non aver avuto accesso a prestiti facili con bassi tassi d’interesse che hanno fatto raggiungere al paese l’apogeo della bolla finanziaria con le spese faraoniche fatte per le Olimpiadi del 2004. Grazie alla bolla olimpica i cittadini greci hanno conosciuto una crescita economica del 4 per cento annuo dal 2003 al 2007. I governi alla ricerca di facile consenso hanno aumentato la spesa e il numero di dipendenti pubblici fino a far diventare il settore statale responsabile per il 40 per cento del Pil, cioè su ogni euro che circola in Grecia 40 centesimi provengono dalle casse statali. L’Europa ha tentato di mascherare questi dati con un piano di aiuti pasticciato, fatto di un prestito emergenziale che è servito solo a ripagare le banche straniere dei crediti verso Atene: la maggior parte dei 110 miliardi sono finiti nelle casse delle banche di quei Paesi che avevano erogato il prestito. Germania, Francia ed Olanda non hanno salvato il popolo greco hanno salvato i propri banchieri da perdite miliardarie in caso di insolvenza greca.
E lo hanno fatto con il concorso di tutti anche di chi, come l’Italia, non aveva una esposizione considerevole al rischio greco. La stessa cosa è stata fatta con l’Irlanda e sarà fatta con il Portogallo. Ma quanto può durare? Sempre più investitori ed economisti pensano che le istituzioni europee abbiano messo in piedi un gigantesco schema Ponzi: come nella vicenda Madoff i primi a tirare fuori i soldi (le banche private europee ed americane) riporteranno a casa i capitali con dignitosi profitti, gli ultimi rimarranno con il cerino in mano e subiranno le conseguenze di perdite disastrose.
Nella piramide messa in piedi dall’Ecofin e dalla Banca centrale europea alla base ci sono i cittadini dell’Unione e ai vertici i banchieri. Le finanze pubbliche sostengono il pagamento dei debiti dei paesi in difficoltà, le banche creditrici incassano e poi non erogano più credito e il gioco è fatto gli unici creditori rimangono gli stessi Stati europei che hanno la scelta o di trasferire i costi tramite la fiscalità generale o di non pagare a loro volta i propri debiti. Tutti sanno che lo schema non regge che prima o poi crollerà, ma i politici non pensano a lungo termine, come tanti Madoff spostano in avanti il problema. Si troverà un compromesso sulla Grecia, si erogherà un prestito ponte al Portogallo e si consentirà all’Irlanda di pagare meno interessi sul prestito europeo, fino a quando i mercati consentiranno alla Catena di San’Antonio europea di stare in piedi poi ognuno per sé e Dio per tutti.
Fonte.
Davanti a un UE totalmente incapace d'intavolare delle politiche economiche che vadano a sostenere quella che dovrebbe essere la naturale base del continente, io mi auguro seriamente che la Grecia esca dall'Euro, interpreti a sua maniera il debito che ha contratto con l'estero e inneschi un effetto domino (Irlando, Portogallo, Spagna e Italia) che mandi completamente gambe all'aria l'unione, sfasciandola politicamente ed azzerandola a livello economico.
Per come la vedo io è l'unico modo per tornare a discutere e costruire della "sostanza", chiudendo i conti coi miti finanziari che ci portiamo dietro dall'ingresso di Reagan alla Casa Bianca.
Che bello è sto pezzo???
14/05/2011
Altarini libici.
Nel consueto peregrinare giornaliero per le desolate lande della rete (trovare informazioni affidabili sta diventando uno sbattimento sempre più menoso!) alla ricerca di documentazione targata "Libia", mi ero imbattuto in un interessante articolo pubblicato dal più noto portale cospirazionista d'Italia, che tirava in ballo questioni fino ad allora inedite circa l'entusiasmo con cui Francia, Inghilterra e Stati Uniti s'erano imbarcati nell'impresa di Libia.
A poco più di un mese dalla pubblicazione di quel testo, tuttavia, le dietrologie (in senso figurato) che venivano la descritte, trovano riscontro in altri due articoli firmati da personaggi che hanno toccato con mano, pur da angolazioni differenti, l'attuale degenero in atto nel Paese nord africano:
La guerra di Libia, il potere americano e il sistema dei petrodollari
Quello che ho visto in Libia
Devo delle scuse a Gheddafi per averlo etichettato come pezzo di merda in una situazione che mostra sempre più chiaramente come lui sia il meno infame tra gli attori in scena.
A poco più di un mese dalla pubblicazione di quel testo, tuttavia, le dietrologie (in senso figurato) che venivano la descritte, trovano riscontro in altri due articoli firmati da personaggi che hanno toccato con mano, pur da angolazioni differenti, l'attuale degenero in atto nel Paese nord africano:
La guerra di Libia, il potere americano e il sistema dei petrodollari
Quello che ho visto in Libia
Devo delle scuse a Gheddafi per averlo etichettato come pezzo di merda in una situazione che mostra sempre più chiaramente come lui sia il meno infame tra gli attori in scena.
13/05/2011
11/05/2011
10/05/2011
"Made in USA" again.
Oltreoceano si parla già di "rinascimento manifatturiero", ma l'apertura di nuove fabbriche si basa sulla contrazione dei salari
Meno merci cinesi, più made in Usa. Secondo uno studio di Boston Consulting Group è questa la tendenza che va affermandosi oltreoceano: sempre più produttori stanno ripercorrendo a ritroso la strada che li ha portati a delocalizzare oltre Muraglia fino a ieri, costruiscono nuovi stabilimenti in patria e - questo lo zuccherino per il ceto medio impoverito - creano posti di lavoro.
Un trend che, sempre secondo la ricerca, è destinato ad accelerare nei prossimi anni.
Alcuni marchi storici hanno già rilocalizzato: Caterpillar ha annunciato il grande ritorno sul suolo patrio degli escavatori che attualmente sono importati; Ncr Corporation, che fabbrica almeno un terzo dei bancomat del mondo, ha creato uno stabilimento in Georgia che darà lavoro a 870 dipendenti; Il produttore di giocattoli Wham-O, famoso per l'hula-hoop e il frisbee, ha già abbandonato le proprie manifatture in Cina per tornarsene a casa.
All'origine del fenomeno c'è uno spettro di valutazioni, sintetizzabili in una formula: in prospettiva, la Cina sarà meno conveniente e gli Stati Uniti di più. È una previsione che si basa su tendenze in atto: lo yuan si rivaluta e i salari medi dei cinesi stanno crescendo, rendendo il Dragone un'economia sempre più di consumatori e sempre meno di produttori. Più un mercato e meno una fabbrica.
Certo, oggi un operaio cinese continua a costare in media un decimo del corrispettivo Usa, 2 dollari contro 22. Ma da qui a quattro anni - continua lo studio - il gap dovrebbe restringersi. Se ci aggiungiamo la maggiore produttività della forza lavoro statunitense, una catena di distribuzione più corta, e il risparmio sui costi dovuti alla "diversità" politico-culturale cinese - si pensi all'incubo costituito dalla difficoltà a far rispettare la proprietà intellettuale - riportare le fabbriche a casa sembra un'opzione sempre più valida.
Opzione che si basa su tendenze in atto, si diceva, ma non scontate sul lungo periodo. Nulla garantisce infatti che lo yuan, che si rivaluta solo su input del potere politico cinese, continuerà la sua marcia verso l'alto. E neppure che l'ascesa del ceto medio del Dragone determinerà un aumento generalizzato di prezzi e salari in Cina. Ma per ora, soprattutto per i prodotti ad alto valore aggiunto - che richiedono cioè manodopera più specializzata - il made in Usa torna di moda.
Le prime ricadute occupazionali sembrano già intravedersi: ad aprile, negli Stati Uniti sono stati creati 244mila nuovi posti di lavoro, numero che supera le aspettative. Ma, dato apparentemente contraddittorio, il tasso di disoccupazione è passato dall'8.8 al 9 per cento.
Che succede? Molto semplicemente, i nuovi posti non bastano ad assorbire la manodopera che si affaccia sul mondo del lavoro. La nuova stagione del made in Usa non è così espansiva da garantire un livello sufficiente di occupazione.
Ma c'è di peggio, almeno secondo Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton: la ripresa senza lavoro sta diventando "ripresa senza salari" - scrive sul Sole 24Ore - nel senso che dati incoraggianti sull'occupazione non significano nulla se i nuovi posti di lavoro si creano proprio perché "milioni di americani accettano una decurtazione in busta paga".
Una condizione difficile, su cui grava anche l'impennata - questa volta globale - dei prezzi dei prodotti alimentari e dell'energia. Le famiglie di conseguenza non possono spendere e la crescita dell'economia resta asfittica, solo più 1,8 per cento da gennaio a marzo.
Se i cittadini Usa non possono spendere, c'è una sola soluzione: vendere a qualcun altro, magari proprio a quei cinesi che pian piano stanno diventando consumatori; o ai soliti europei, con il loro euro forte (almeno finché dura).
Eccolo qui, il nuovo modello americano: produzione export-oriented mentre la middle-class tira la cinghia. Ricorda molto il modello cinese, con una differenza: i sudditi del Celeste Impero hanno sempre risparmiato, i nipoti dello zio Sam no.
Fonte
Sarà in base a queste medesime considerazioni che Marchionne ha così voglia d'andare a nozze con gli States?
Meno merci cinesi, più made in Usa. Secondo uno studio di Boston Consulting Group è questa la tendenza che va affermandosi oltreoceano: sempre più produttori stanno ripercorrendo a ritroso la strada che li ha portati a delocalizzare oltre Muraglia fino a ieri, costruiscono nuovi stabilimenti in patria e - questo lo zuccherino per il ceto medio impoverito - creano posti di lavoro.
Un trend che, sempre secondo la ricerca, è destinato ad accelerare nei prossimi anni.
Alcuni marchi storici hanno già rilocalizzato: Caterpillar ha annunciato il grande ritorno sul suolo patrio degli escavatori che attualmente sono importati; Ncr Corporation, che fabbrica almeno un terzo dei bancomat del mondo, ha creato uno stabilimento in Georgia che darà lavoro a 870 dipendenti; Il produttore di giocattoli Wham-O, famoso per l'hula-hoop e il frisbee, ha già abbandonato le proprie manifatture in Cina per tornarsene a casa.
All'origine del fenomeno c'è uno spettro di valutazioni, sintetizzabili in una formula: in prospettiva, la Cina sarà meno conveniente e gli Stati Uniti di più. È una previsione che si basa su tendenze in atto: lo yuan si rivaluta e i salari medi dei cinesi stanno crescendo, rendendo il Dragone un'economia sempre più di consumatori e sempre meno di produttori. Più un mercato e meno una fabbrica.
Certo, oggi un operaio cinese continua a costare in media un decimo del corrispettivo Usa, 2 dollari contro 22. Ma da qui a quattro anni - continua lo studio - il gap dovrebbe restringersi. Se ci aggiungiamo la maggiore produttività della forza lavoro statunitense, una catena di distribuzione più corta, e il risparmio sui costi dovuti alla "diversità" politico-culturale cinese - si pensi all'incubo costituito dalla difficoltà a far rispettare la proprietà intellettuale - riportare le fabbriche a casa sembra un'opzione sempre più valida.
Opzione che si basa su tendenze in atto, si diceva, ma non scontate sul lungo periodo. Nulla garantisce infatti che lo yuan, che si rivaluta solo su input del potere politico cinese, continuerà la sua marcia verso l'alto. E neppure che l'ascesa del ceto medio del Dragone determinerà un aumento generalizzato di prezzi e salari in Cina. Ma per ora, soprattutto per i prodotti ad alto valore aggiunto - che richiedono cioè manodopera più specializzata - il made in Usa torna di moda.
Le prime ricadute occupazionali sembrano già intravedersi: ad aprile, negli Stati Uniti sono stati creati 244mila nuovi posti di lavoro, numero che supera le aspettative. Ma, dato apparentemente contraddittorio, il tasso di disoccupazione è passato dall'8.8 al 9 per cento.
Che succede? Molto semplicemente, i nuovi posti non bastano ad assorbire la manodopera che si affaccia sul mondo del lavoro. La nuova stagione del made in Usa non è così espansiva da garantire un livello sufficiente di occupazione.
Ma c'è di peggio, almeno secondo Robert Reich, ex ministro del Lavoro di Bill Clinton: la ripresa senza lavoro sta diventando "ripresa senza salari" - scrive sul Sole 24Ore - nel senso che dati incoraggianti sull'occupazione non significano nulla se i nuovi posti di lavoro si creano proprio perché "milioni di americani accettano una decurtazione in busta paga".
Una condizione difficile, su cui grava anche l'impennata - questa volta globale - dei prezzi dei prodotti alimentari e dell'energia. Le famiglie di conseguenza non possono spendere e la crescita dell'economia resta asfittica, solo più 1,8 per cento da gennaio a marzo.
Se i cittadini Usa non possono spendere, c'è una sola soluzione: vendere a qualcun altro, magari proprio a quei cinesi che pian piano stanno diventando consumatori; o ai soliti europei, con il loro euro forte (almeno finché dura).
Eccolo qui, il nuovo modello americano: produzione export-oriented mentre la middle-class tira la cinghia. Ricorda molto il modello cinese, con una differenza: i sudditi del Celeste Impero hanno sempre risparmiato, i nipoti dello zio Sam no.
Fonte
Sarà in base a queste medesime considerazioni che Marchionne ha così voglia d'andare a nozze con gli States?
09/05/2011
08/05/2011
07/05/2011
Artisti vecchi e nuovi.
Il fortuito incontro serale col nuovo astro nascente della letteratura ponentina, mi ha spinto a rivangare i ricordi delle ore di lettere che seguivo alle superiori, in cui la fortuna mi concesse l'occasione e il privilegio di seguire un docente di spessore oltre la media.
Data la pochezza del novello artista citato in apertura, ho pensato d'andare a parare su qualche rimembranza che "celebrasse" dignitosamente la tradizione di penna italiana, finendo per scegliere Cesare Pavese:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
La differenza tra gli artisti del passato (anche recente) e del presente, è tanto abissale quanto imbarazzante.
Data la pochezza del novello artista citato in apertura, ho pensato d'andare a parare su qualche rimembranza che "celebrasse" dignitosamente la tradizione di penna italiana, finendo per scegliere Cesare Pavese:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
La differenza tra gli artisti del passato (anche recente) e del presente, è tanto abissale quanto imbarazzante.
Sorci verdi.
In sede di recensione, così descrissi l'ultimo parto dei RATT.
"Il nuovo disco dei RATT s’è presentato molto in sordina tra i miei ascolti. L’ho, infatti, inserito nel lettore più per noia delle “solite cose” che per reale interesse nei confronti di un gruppo discograficamente in naftalina da 11 anni.
Sarà per l’assenza d’attese nei suoi confronti, ma quest’album scorre via che è una bellezza, dimostrando una solidità complessiva invidiabile, soprattutto a fronte di un quartetto iniziale che pare uscire direttamente dai tempi d’oro della scena hard & heavy statunitense. Per capirci, sono di fronte a un lavoro che, una volta ascoltato, fa venire voglia di rimettere in cuffia un po’ tutti i classici del genere. A scanso d’equivoci, preciso che non parlo della consueta pubblicazione vintage da periodi di reunion. Infestation, infatti, pur facendo riferimento a una tradizione precisa è formato da brani “svecchiati” dalla ben bilanciata produzione di Michael Baskette (che per i suoi trascorsi ha del miracoloso) e dallo stile di Carlos Cavazo, che ha portato in seno al gruppo una ventata di US Metal di notevole valore, perfettamente in sintonia con la sezione ritmica precisa e mai monotona, valorizzata con grande maestria da DeMartini, che non piazza mai un assolo fuori posto per tutta la durata del disco.
Considerando l’età anagrafica del gruppo si potrebbe andare a cercare il tallone d’Achille di quest’album nella voce di Pearcy che, invece, non fa assolutamente una piega fornendo, anzi, il più tangibile collegamento con quel passato stradaiolo tanto caro al rock californiano della seconda metà degli anni ’80.
In conclusione, non c’è proprio alcun motivo per cui Infestation non debba finire nella collezione di ogni amante dell’hard & heavy che si rispetti."
Convinto che l'autentica bontà di un album si misuri sul lungo periodo, a quei tempi non abbandonai la valutazione all'entusiasmo dei primi ascolti. Trascorso un anno, tuttavia, posso dire che Infestation non ha perso un briciolo dello smalto con cui si fece conoscere, dimostrandosi un disco autenticamente solido e dotato di valore a prescindere dai legami col passato.
Ne rendo merito ai RATT con gaudio dei miei timpani che lo hanno ben assimilato in ogni stagione e stato d'umore.
05/05/2011
Un sincero ringraziamento...
Direttamente dal sito della Berny Home Video:
"Nell'ottobre del 2006 Alex Katzura del gruppo di cover-cartoon dei Bishoonen informa Rob Barrel che ha intenzione di coverizzare - in genovese - la sigla di Mazinga Zeta e gli chiede aiuto per la realizzazione del relativo video. Nasce cosi' il fenomeno mediatico di Mazinga Zetto che ha il suo fondamento nella pronuncia della zeta che in giapponese suona come il materiale di scarto genovese: Lo Zetto. Appena sentita la canzone ce ne siamo invaghiti a tal punto da dedicare anima, cazzo e corpo alla ricerca ed al doppiaggio delle scene del cartoon.
Le prime registrazione avvennero una domenica notte di novembre nella sede - da sempre la casa di Rob - della Bernarda dove per 27 volte Andrew Young ha gridato figgiu de bagascia prima di trovare la miglior dizione. Così facendo il vicinato di Barrel ha iniziato a preoccuparsi in merito alle sue frequentazioni ed ai suoi natali - a quel punto - di sicuro bordelleschi. Montato il promo - di un video che non c’era ancora - lo abbiamo mostrato al Lucca Comics suscitando simpatia e risate.
Visto il risultato abbiamo scritto la sceneggiatura del primo Mazinga Zetto e poi i dialoghi modellati dal genovesista Aaron Roff. Una volta doppiato lo abbiamo presentato al Bernarda & Bishoonen Party del 20 Maggio 2007 al Jambalive di Rapallo.
Il resto l’ha fatto il Tubo."
Non posso far altro che postare i tre episodi della celebre parodia, per chi se li fosse persi...
Grazie Bernarda, per le ore di risate trascorse davanti al portatile...
"Nell'ottobre del 2006 Alex Katzura del gruppo di cover-cartoon dei Bishoonen informa Rob Barrel che ha intenzione di coverizzare - in genovese - la sigla di Mazinga Zeta e gli chiede aiuto per la realizzazione del relativo video. Nasce cosi' il fenomeno mediatico di Mazinga Zetto che ha il suo fondamento nella pronuncia della zeta che in giapponese suona come il materiale di scarto genovese: Lo Zetto. Appena sentita la canzone ce ne siamo invaghiti a tal punto da dedicare anima, cazzo e corpo alla ricerca ed al doppiaggio delle scene del cartoon.
Le prime registrazione avvennero una domenica notte di novembre nella sede - da sempre la casa di Rob - della Bernarda dove per 27 volte Andrew Young ha gridato figgiu de bagascia prima di trovare la miglior dizione. Così facendo il vicinato di Barrel ha iniziato a preoccuparsi in merito alle sue frequentazioni ed ai suoi natali - a quel punto - di sicuro bordelleschi. Montato il promo - di un video che non c’era ancora - lo abbiamo mostrato al Lucca Comics suscitando simpatia e risate.
Visto il risultato abbiamo scritto la sceneggiatura del primo Mazinga Zetto e poi i dialoghi modellati dal genovesista Aaron Roff. Una volta doppiato lo abbiamo presentato al Bernarda & Bishoonen Party del 20 Maggio 2007 al Jambalive di Rapallo.
Il resto l’ha fatto il Tubo."
Non posso far altro che postare i tre episodi della celebre parodia, per chi se li fosse persi...
Grazie Bernarda, per le ore di risate trascorse davanti al portatile...
04/05/2011
Obama killed Osama.
Un fine settimana seminale quello appena trascorso!
In tre giorni "si presentarono nell'ordine": il matrimonio in casa Windsor, la beatificazione del pontefice polacco e ultimo ma non ultimo l'assassinio di Osama.
Con questa bomba mediatica ci stanno asfissiando da inizio settimana, in parte a ragione perché in buona sostanza sì tratta dell'evento del decennio insieme al famigerato "attentato" dell'11 settembre 2001.
Peccato che non sia tutto oro quel che luccica, e mentre negli States la popolazione scende in piazza a celebrare la morte violenta del barbuto al grido di "USA, USA!" o del rinverdito "Yes we can!", a 10 anni di distanza nessuno ha ancora dissipato i dubbi in merito allo sbriciolamento un po' troppo certosino delle Twin Tower, alle carenze quasi volute della difesa aerea americana che si accorse dei dirottamenti solo quando i velivoli si sfracellarono sui rispettivi obiettivi, per non parlare dell'intelligence, descritto come totalmente allo scuro circa un'operazione terroristica così mastodontica e per di più realizzata da soggetti che erano in aria di CIA/Pentagono fin dai tempi dell'occupazione sovietica dell'Afghanistan.
Insomma, la faccenda puzza e considerando che gli americani sono specialisti nell'auto costruirsi il casus belli per poi impugnare le armi contro qualcuno (dalla guerra ispano-americana del 1898, a Pearl Harbor, dall'incidente nel Golfo del Tonkino all'11 settembre 2001) è singolare che nessuno dei maggiori organi di stampa occidentali abbia mai messo in discussione il maggior evento del decennio, fatta eccezione per Michael Moore, per altro immediatamente bollato come un povero visionario complottista.
A vederlo con occhio critico, in effetti, il decennio del terrore e relativa guerra per sopprimerlo, ha fatto la gioia delle tre principali lobby mondiali, quelle finanziaria, bellica ed energetica (basta fare i conti in tasca al Pentagono e alle compagnie petrolifere per capirlo) che, di fatto, comandano la politica, prima di tutte quella americana.
Ragionando, non appare, infatti, casuale che l'annuncio dell'assassinio di Bin Laden, sia stato diffuso (in piena campagna elettorale), da un Obama ben lontano dai livelli di consenso che deteneva 3 anni fa quando predicava di economia verde, assistenza sanitaria per tutti e smilitarizzazione dai principali teatri della guerra al terrore.
Solo affari e politica edulcorati dal desiderio di vendetta (deprecabile quando ci si proclama la più grande democrazia del pianeta) di una popolazione intera? Parrebbe proprio di sì, con buona pace dei 4000 poveracci crepati nelle due torri, degli altrettanti soldati caduti in Afghanistan e Iraq e dei milioni di civili periti nei due teatri bellici.
"I morti sanno solo una cosa, che è meglio essere vivi" forse sarebbe il caso di ricordarlo a un premio nobel per la pace che parla di giustizia a seguito di un assassinio.
01/05/2011
1 maggio, festa di chi?
Non sono riuscito a scrivere nulla sul 25 aprile causa schifo immenso prodotto dalla celebrazione d'una vittoria che lo scorrere dei decenni ha trasformato sempre più in sconfitta: dagli ex fascisti sugli scranni più alti della Repubblica, al successo dei revisionisti cresciuti sotto il sole di Salò, agli intenti bombaroli contro la Libia declamati nella giornata simbolo di quelli che sono morti perché non volevano più sentir parlare di guerra, ne abbiamo viste davvero di ogni genere!
A fronte della "mancanza" della scorsa settimana, ora mi pare giusto spendere due parole sul 1 maggio (anche in sto giorno cade una Madonna, mortacci del Vaticano e di quel reazionario beatificato proprio oggi!) che mi sembra sempre più ogni cosa tranne festa dei lavoratori. Tra concerti cazzata in cui sì va per passare una giornata diversa e cortei organizzati da sindacati che definire conniventi con i padroni è riduttivo, i festeggiamenti per una classe in via d'estinzione (perché non c'è più lavoro e parimenti autentica voglia di lavorare) sono una farsa grottesca e avvilente per quei pochissimi (cazzo ci sono! e non sono certamente i gabibbi che ci spiano!) che del lavoro fanno ancora un valore e di conseguenza si fanno un culo tanto per strappare coi denti un contratto che quanto meno gli consenta di portare a casa quel che basta per pagare l'affitto.
Per farla breve queste righe sono sinceramente dedicate a quelli come il fornicatore, pochi sì, ma che da soli danno ancora dignità a un Paese che volontariamente s'è privato d'ogni barlume di decenza.
A fronte della "mancanza" della scorsa settimana, ora mi pare giusto spendere due parole sul 1 maggio (anche in sto giorno cade una Madonna, mortacci del Vaticano e di quel reazionario beatificato proprio oggi!) che mi sembra sempre più ogni cosa tranne festa dei lavoratori. Tra concerti cazzata in cui sì va per passare una giornata diversa e cortei organizzati da sindacati che definire conniventi con i padroni è riduttivo, i festeggiamenti per una classe in via d'estinzione (perché non c'è più lavoro e parimenti autentica voglia di lavorare) sono una farsa grottesca e avvilente per quei pochissimi (cazzo ci sono! e non sono certamente i gabibbi che ci spiano!) che del lavoro fanno ancora un valore e di conseguenza si fanno un culo tanto per strappare coi denti un contratto che quanto meno gli consenta di portare a casa quel che basta per pagare l'affitto.
Per farla breve queste righe sono sinceramente dedicate a quelli come il fornicatore, pochi sì, ma che da soli danno ancora dignità a un Paese che volontariamente s'è privato d'ogni barlume di decenza.
Don't go away mad
Pur avendo apprezzato le ultime pubblicazioni morbose ed incazzate del fornicatore, mi sento in dovere di riequilibrare il piatto della bilancia perché è primavera e personalmente preferisco il richiamo del cielo azzurro e delle belle ragazze (a trovarne -ndr) alle sulfuree atmosfere della morte scandinava.
Agevolo, dunque, una bomba targata 1989 (vai fornicatore che pure stavolta ti faccio andare in bagno di corsa!)
Post visione, mi domando che cazzo avessero di tanto mitico gli anni '80, che almeno nell'iconografia rock, esaltavano ambienti urbani di merda, sprechi d'ogni genere e una fauna umana totalmente dedita al fancazzismo.
Aveva proprio ragione Vic Bondi (grazie fornicatore per quel clip d'antologia!) a dire "It's fucking midnight man!"
Agevolo, dunque, una bomba targata 1989 (vai fornicatore che pure stavolta ti faccio andare in bagno di corsa!)
Post visione, mi domando che cazzo avessero di tanto mitico gli anni '80, che almeno nell'iconografia rock, esaltavano ambienti urbani di merda, sprechi d'ogni genere e una fauna umana totalmente dedita al fancazzismo.
Aveva proprio ragione Vic Bondi (grazie fornicatore per quel clip d'antologia!) a dire "It's fucking midnight man!"
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