Ho poco tempo per scrivere in questi gironi d’inizio viaggio quindi mi toccherà in questi primi resoconti esser parecchio breve. Cerco di raccontarvi un poco l'esperienza unica della terza classe nel treno chiamato da tutti “Uzbekiston” che collega Mosca a Tashkent (Uzbekistan).
Dopo una giornata intensa passata a girovagare per le splendide vie di Mosca ed una serata passata in compagnia del mio caro amico Eugene chiacchierando del più e del meno, siamo corsi alla stazione kazanskaya dove il treno 006 è già pronto per partire per la lunga traversata fino all'Asia centrale, trascinato da un antica locomotiva d’era sovietica.
Dopo qualche strombazzata ed una potente fumata nera, entro dentro al treno e la situazione non mi convince: c'è un po’ di diffidenza nei miei confronti, qualche sguardo storto ed un timido saluto di un ferroviere.
Ad essere sinceri il primo impatto dentro al treno non è difatti stato dei migliori: intorno a me una situazione quasi imbarazzante di silenzio e solitudine che non lascia presagire a niente di troppo sicuro. Dopo qualche minuto di sistemazioni varie, mi sono seduto al mio posto - cuccetta nel corridoio ed un ragazzo si è piazzato vicino a me aiutandomi a mettere il bagaglio sotto la mia postazione; uno sguardo, poi un altro seguito ad una richiesta in uzbeko accompagnata dal tipico gesto del chiedere i soldi con le dita della mano. Nella convinzione che il ragazzo volesse chiedermi dei soldi ho scosso la testa lasciando presagire la più antipatica delle situazioni, ecco quale è stato il mio primo approccio con un passeggero del treno.
In realtà la situazione va rilassandosi quando, in un continuo gioco di sorrisi e gestualità, riesco a capire che la richiesta presentatami poco prima avesse un esclusivo riferimento alla sua curiosità nel vedere una banconota europea, senza alcun secondo fine.
Il suddetto ragazzo diventerà ben presto un inseparabile compagno di viaggio con il quale condividere ogni cosa per tutto il tragitto, dalle sigarette, al cibo, al tè sino alla vodka ed al cognac.
Riflettendo bene sull’apprensione respirata nei minuti precedenti la partenza, riesco lentamente a capire che nella concitazione del momento non abbia ben pensato che quel treno non sarebbe stato un normalissimo mezzo a lunga percorrenza come ne esistono molti in Asia, ma un treno particolare.
Il treno 006 è quello che fa da spola tra due grandi capitali e che ospita nei suoi scompartimenti un gran numero di famiglie di lavoratori e lavoratrici uzbeki. Questi rientrano a casa dopo intense giornate di lavoro, affrontando una lunga odissea di quattro giorni per portare a casa un gruzzolo di soldi dall’ex madrepatria.
Mosca è una città con una presenza di centro asiatici altissima; molti di loro lavorano in nero e non possono permettersi un alloggio a lunga durata nella capitale, così la scelta più economica è il pendolarismo tra Uzbekistan e Russia. Un pendolarismo di più di settanta ore che ha la spaventosa particolarità d’essere transnazionale, continuo ed obbligato; l’atmosfera che si respira quindi da subito nel treno non è certamente delle più allegre e delle più rilassate. La differenza con altri treni a lunga percorrenza presi nel passato è estremamente radicale: la stanchezza negli occhi dei lavoratori è percepibile in ogni sguardo, così come la voglia di andarsene dalla vecchia capitale sovietica per ritrovare il calore familiare dell’Uzbekistan; lavoratori e lavoratrici, giovani ed intere famiglie costrette ad abbandonare saltuariamente la propria casa per le pessime condizioni di vita e le poche opportunità di lavoro sicuro che si presentano nel paese centro asiatico; genti che fuggono da un regime che è pronto ad incarcerare ogni oppositore politico con la scusa di terrorismo per approdare in un paese dove l’odio etnico e razziale è accompagnato da un ben radicato sfruttamento dell’immigrato nel mondo del lavoro più duro e mal pagato.
Nonostante la stanchezza e la continuità di riflessioni, la prima notte non scorre nel migliore dei modi; non sono interessato più di tanto al ricercare l’estrema comodità nei viaggi a lunga distanza, ma il piccolo posto riservatomi per dormire è davvero troppo scomodo, troppo piccolo anche per distendere tutto il corpo. Il passaggio di altri passeggeri nel corridoio è continuo e la temperatura all'interno dello scompartimento è estremamente rigida; non si può stare senza cappotto e felpa sotto le coperte. Oltre ciò il problema più grosso diverrà con il passare delle ore lo spiffero d'aria generato da una fessura abbastanza lunga tra il finestrino ed il legno del rivestimento interno del treno che continuerà ad investire la mia postazione d’aria gelida. Dopo alcuni tentativi di chiusura del buco con buste, pezzi di pane ed altro, perdo le speranze ed opto per la difesa della mia incolumità imbacuccandomi dentro a due coperte di lana, coperto con un cappellino invernale ed una sciarpa.
La nottata scorre abbastanza lentamente ed il freddo si fa sentire sempre di più con il passare delle ore. Mi accorgo comunque di non esser l'unico ad avere il problema della rigidità di temperatura, difatti oltre al mio tremolante compagno, noto un anziano signore della postazione prossima alla mia coprirsi a mo' di cadavere per tutta la durata della notte.
Svegliato alle 6.30 dall'amico Iqbal (così si chiama il ragazzo menzionato in precedenza) per fumare una sigaretta, mi accorgo che la situazione di gelo dentro lo scompartimento si è fatta davvero pesante.
Non si riesce a stare senza giacca neanche durante le ore seguenti quando il sole comincia a scaldare l'ambiente esterno senza però penetrare all'interno del vagone; inizio quindi a pensare che molto probabilmente avrò da soffrire il freddo e gli spifferi d’aria per quattro lunghi giorni.
Fortunatamente la prima smentita arriva durante il pomeriggio poco dopo la prima pausa rifornimento a Samara. All'interno del vagone polare, l’ambiente diviene più caldo e la situazione climatica va a migliorare progressivamente.
Il treno passa da sperdute lande con piccoli villaggi immersi tra fango ed ultimi residui di neve, fermandosi saltuariamente in qualche abitato per raccogliere passeggeri e fare piccole pause. Durante queste fermate il treno comincia a riempirsi di persone, i tratti somatici cominciano a cambiare e ci si accorge lentamente del salto tra la Russia europea e la Russia asiatica. Il clima sul treno lentamente diviene molto più rilassato rispetto al primo giorno; nel mio scompartimento cominciano a salire numerose famiglie di uzbeki e kazaki e qualcuno comincia timidamente ad accennarmi qualche sorriso e qualche parola.
Nello scompartimento comincia a circolare la voce che sono italiano, così lo stesso provodnik (una sorta di capo scompartimento, un padre famiglia dell'intera cuccetta collettiva) si avvicina tentando qualche approccio parlando di calcio, mafia e spaghetti. Ho voglia di fumare una sigaretta, così nel tragitto verso la zona fumatori, tra un pezzo di naan (pane uzbeko) ed un semplice Plov (tipico piatto di riso uzbeko), una famiglia composta da madre e figlia comincia ad osservarmi e discutere a bassa voce; sorrido cordialmente alla madre che con timidezza ricambia e m’invita a sedermi a fianco a lei: ecco come ha inizio la lunga trafila d’inviti ricevuti da varie famiglie uzbeke del treno con sostanziose offerte di cibo e bevande d’ogni tipo. La freddezza e la diffidenza del primo giorno va sciogliendosi lentamente: si comincia a sorridere, a condividere il cibo, s’invitano altre persone a spartire con gli altri ogni cosa poggiata sui tavolini d’ogni postazione e cominciano i primi scambi linguistici; cerco così di memorizzare alcune parole in lingua uzbeka per riutilizzarle durante la mia permanenza in treno ed in territorio centro asiatico.
Dopo una lenta chiacchierata con varie persone sui miei studi, il mio viaggio e la mia famiglia sono gentilmente invitato a dormire in una casa nella valle del Fergana per i giorni successivi in Uzbekistan; prendo così i contatti della famiglia e ritorno sorridente al mio scomodo lettino.
Al secondo giorno di permanenza in treno comincio a sentirmi già più a mio agio, acquisisco alcune gestualità ed inizio anche ad apprezzare le minime difficoltà che saltuariamente si presentano, riuscendo a risolverle con la collaborazione di tutto lo scompartimento; un’enorme famiglia che affronta l’avventura transaralica tentando di uccidere il tempo ed i problemi con la solidarietà reciproca.
Il treno giunge con il passare delle ore in prossimità del confine kazako dove, in un piccolo villaggio, una famiglia di uzbeki della valle del Fergana sale sul treno portandosi con sé un bel cumulo di bagagli e viveri per la traversata; Il padre, molto giovane, aiuta la propria moglie ed una graziosa bambina di tre anni a salire sul treno sorridendo vivamente ad un’altra coppia rimasta sul binario, mentre il treno riprende la via per l’Uzbekistan; saliti nello scompartimento, mi passano vicino, mi osservano per un attimo e si dispongono nelle due postazioni dietro alla mia, salutandomi con un mesto "Asalam aleikum".
La bambina comincia a correre per tutto il vagone, avvicinandosi ad altre famiglie e regalando sorrisi ed abbracci a tutti, sino a che alla mia vista si blocca completamente, guardandomi quasi come fossi uno strano essere mai visto. Nel guardarla mi affido al mio pessimo russo salutandola prima con un "pryviet" tentando poi la via musulmana con un ulteriore “Asalam Aleikum"; sorridendomi si nasconde dolcemente il viso correndo verso i propri genitori che dopo qualche ora dalla partenza, m’invitano a mangiare del riso cotto dalla nonna: un ottimo plov con carne e verdura. Dopo le consuete presentazioni, il marito mi offre di andare a fumare una sigaretta nell'apposita zona; nonostante il mio pessimo russo, riesco a farmi capire tra un sorriso ed un altro.
L'incontro con il giovane padre non finisce dopo la sigaretta, come con ogni vicino di posto si deve condividere anche il non dormire. Tra un pezzo di Naan di Samarcanda ed un chay caldo (tè) preparato grazie all’affascinante samovar (contenitore metallico utilizzato per scaldare l’acqua per ventiquattr’ore) saltano fuori le carte da gioco, una bella bottiglia di vodka, una di cognac ed un buon numero di tazze; la mia postazione si riempie degli uomini del vagone che si divertono a sconfiggere la noia del tempo con giochi di carte incomprensibili e canti dal sapore tradizionale.
Cominciano le chiacchiere, si ascolta un po' di musica tradizionale, si tenta di insegnarmi senza successo un gioco di carte e si passa velocemente alla vodka; da qua in poi comincia la bevuta collettiva accompagnata da saltuarie degustazioni di cioccolata fondente dal sapore molto forte.
La notte passa veloce, neanche mi accorgo del freddo, probabilmente l'alcool ha fatto il suo dovere, così dopo un’ultima sigaretta fumata insieme al provodnik, una nebbia totale assale i ricordi successivi a quel momento.
Ciò che ricordo bene è stata la sveglia umana concessami dal mio giovane vicino di postazione che come suo solito, mi chiede di andare a fumare insieme a lui l’ennesima sigaretta ammazza tempo, alle prime luci dell'alba.
Il sole comincia ad alzarsi nella sconfinata steppa russa al confine con il Kazakistan; non c'è la benché minima presenza di un essere umano e di un villaggio. Mi viene spiegato che la steppa che stiamo attraversando si alterna dopo molte ore ad un deserto privo di sabbia, ricco di fiori ed erbe di ogni tipo; una distesa di colori cresciuti grazie alle piogge consistenti che in questo periodo dell'anno si alternano a pochi giorni di sole debole.
Il paesaggio risulta quindi per molte ore molto monotono e buio, sino a che con l’arrivo delle prime luci, la vita dentro al treno comincia a riprendere la sua essenza. La madre conosciuta nelle prime ore del viaggio, m’invita a fare colazione con la propria figlia: un tè e dei biscotti fanno da cornice ad un paesaggio sempre più brullo e spento. Qualche ora e si cominciano ad intravedere piccoli villaggi, per lo più agglomerati di quindici case e piccole moschee costruite su di un’unica via sterrata.
Cavalli, carovane di asini, pastori e carretti trainati da muli seguono la via del treno, che risponde alle grida dei pastori con grandi fumate e fischi continui che creano un atmosfera di antichità in un deserto quasi inanimato.
La giornata trascorre abbastanza lentamente, talvolta alcuni personaggi delle ferrovie uzbeke, transitando vicino alla mia postazione impartiscono ordini d’ogni tipo ad alcuni giovani passeggeri abituali. Non capisco bene cosa stia accadendo ma noto che il provodnik continua ad imporre disposizioni a destra ed a manca ad Iqbal da quasi tre giorni.
Per ogni minima cosa il mio vicino viene svegliato, senza essere risparmiato neanche nelle più tranquille ore della notte, durante il sonno più profondo; su quest’aspetto mi soffermo un attimo. Come spiegato in precedenza, l'atteggiamento dei lavoratori delle ferrovie uzbeke nei confronti dei russi è vicino alla sottomissione.
La scala delle gerarchie in questo treno comincia così a farsi ben chiara: i russi in testa, i lavoratori uzbeki delle ferrovie (capo treno, macchinista ect ect) al secondo posto, i giovani uzbeki e lavoratori pendolari del treno all'ultimo posto. Sembra quasi che i ragazzi che stanno affrontando un estenuante viaggio in treno da semplici passeggeri, siano lavoratori anch'essi, quasi piccoli schiavi.
Non so se fosse stato nell’animo di Iqbal e di altri ragazzi, essere così disponibili ad aiutare e lavorare, magari sto errando nel dare una lettura così radicale della situazione, ma il loro frenetico attivarsi è apparso come un eseguire gli ordini di una persona più anziana che ha la prima parola su tutto e non si deve contraddire mai; una sorta di retaggio culturale di riferimento macrosociale che in una realtà così piccola si nota maggiormente.
Aldilà di ciò passo alcune ore con P (uso uno pseudonimo), tentando di farmi raccontare come funziona e cosa si prova a lavorare avanti ed indietro su di un treno a lunga percorrenza di quel tipo.
Innanzitutto mi viene riferito che sono informalmente dipendenti delle ferrovie russe che li ricattano e li sfruttano per ogni piccola evenienza, dopodiché mi ha spiegato che la difficoltà maggiore nel lavorare in questo genere di treni è che si deve avere a che fare con l’onnipresente malinconia di casa, abituandosi all'idea di non averne una, ma di avere la stessa ferrovia come compagna di vita, un po' come dei marinai della via ferrata.
Non voglio prolungarmi troppo nel descrivere la chiacchierata fatta in treno con P anche se importante, ricca di spunti di riflessione ed informazioni preziose sui lavoratori uzbeki. Non mi sono neanche soffermato sul passaggio di confine tra Russia e Kazakistan che è stato tranquillo ed indolore, risolvendo le varie questioni burocratiche russe in non più di due ore e mezzo.
Mi addormento durante il tardo pomeriggio del terzo giorno di treno fino a che fortunatamente mi sveglio d'improvviso accorgendomi che il mezzo è fermo a Turkistan, una delle città più importanti del Kazakistan, nonché meta di pellegrinaggio fondamentale per molti musulmani kazaki.
Finalmente scendo dal treno e dopo la freddezza della Russia di San Pietroburgo ed il traffico di Mosca, respiro per la prima volta odore di shashlik (spiedini di kebab centro asiatici), spezie di vario tipo e sento la voce profonda del muezzin cantare l'Adhan. Eccomi finalmente arrivato in Asia centrale; i caratteri somatici delle persone hanno la tipica caratteristica d'incontro con i tratti mongoli, la frenesia regna sovrana quasi ovunque e le persone ti sorridono appena accenni ad un saluto in lingua kazaka.
Tento di addentrarmi nelle vie di Turkistan per recarmi nella zona della moschea più bella del Kazakistan per ammirarne le bellezze architettoniche e la perfezione stilistica; purtroppo il signor P m’impedisce d' inoltrarmi nelle vie della città giacché il treno resterà fermo a Turkestin solo per un piccolo rifornimento di quarantacinque minuti.
Ad ogni modo girovago per un po' di tempo nelle vie intorno alla stazione e mi rendo finalmente conto della fortuna di trovarmi in una città che anche per pochi minuti riesce a donarti una certa emozione. Ciò è dovuto molto probabilmente all'essere conscio che questa è la prima città che tocco dall'inizio del viaggio a far parte di quell’antica via della seta che lo stesso Marco Polo percorse descrivendo ogni suo passo nel magico Milione.
All'orizzonte noto la splendida cupola blu del Khwaja Ahemad Yasavi che mi ricorda di essere approdato nella terza città santa per gran parte dei musulmani, cosa che ha ampliato la religiosità di molti abitanti del Kazakistan.
La città santa si allontana all'orizzonte, mentre la cupola blu e l'enorme madrasa continuano a scorgersi per molti minuti. Sono entrato sulla vecchia via della seta ed ancora ho da attraversare il confine kazako per entrare in Uzbekistan.
Proprio al controllo kazako incontro il primo problema con la pessima burocrazia del paese centro asiatico, famoso per i propri funzionari rigidi e spesso corrotti.
Dopo svariati atteggiamenti di strafottenza nei confronti di lavoratori e donne uzbeke, viene richiesto a tutte le persone di porsi sul corridoio nelle zone laterali per essere controllate una ad una. Arrivato il mio turno, il funzionario comincia con una trafila di domande in russo, novanta per cento delle quali dedicate allo studio, al perché ho deciso di prendere il treno al posto dell'aereo, passando poi per il controllo del bagaglio e della macchina fotografica; qua cominciano i problemi: un funzionario con un atteggiamento di subdola superiorità mi chiede di mostrargli le foto scattate durante il viaggio, maneggiando la camera come una palla da basket. Dopo non avere notato niente di compromettente, la mia povera macchina fotografica viene letteralmente lanciata sul muro di legno del mio letto insieme al caro libro di Gogol provocando un certo nervosismo.
Il viaggio prosegue verso l'ultima notte nel treno; l'aria che si respira all'interno del convoglio è di una grande collettività in viaggio da qualche giorno. Si scende in compagnia quando il treno si ferma in piccoli villaggi o piccole città e si comprano viveri per tutti, si condivide anche la più piccola briciola di pane sino alla fine del tragitto e ci si addormenta quasi tutti alla stessa ora, cullati dal canto di una madre che accarezza il proprio figlio o dal suono di uno strumento tradizionale che accompagna il tentennare del treno.
Il paesaggio va cambiando, l'Uzbekistan è ormai vicino, il giallo della steppa lascia spazio a fantastici colori rosacei e rossi dei fiori del deserto primaverile.
Si cominciano ad intravedere alcune colline, i villaggi si fanno sempre più frequenti e nel treno cominciano i preparativi per l’arrivo. Dopo svariate ore passate a superare la noiosa burocrazia uzbeka e kazaka al confine, eccoci entrati in Uzbekistan. Tashkent ormai è ad un solo fischio di treno, le case si fanno più grandi, le luci più frequenti e le moschee si susseguono tra grandi viali ed imponenti caseggiati.
Il treno si ferma, la gente sorride, l'ultimo bicchiere di vodka per un brindisi a Tashkent, siamo arrivati.
La romantica odissea fino all’Asia centrale è terminata, adesso tocca al resto, buona fortuna penso mentre bevo l'ultimo sorso di vodka.
14 luglio 2013
Fonte
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