Uno degli eserciti più potenti del mondo, una delle industrie di armi
più tecnologicamente sviluppate ed in grado di infilarsi e proliferare
nei mercati di Paesi ai quattro angoli del globo. Chi pensa che l'occupazione militare israeliana sia un mero costo per Tel Aviv, si sbaglia di grosso.
Negli ultimi cinque decenni, l'industria militare israeliana ha
raggiunto livelli inimmaginabili per un Paese apparentemente "piccolo".
Ma a permettere di raggiungere successi tecnologici di tale fattura è
il conflitto, sia locale che regionale.
Le armi, i carri armati, i sistemi di difesa anti-missile, da sempre
vengono testati in casa e poi venduti fuori. Prendiamo l'ultima
operazione militare contro la Striscia di Gaza, a novembre del 2012:
durante gli otto giorni di "Colonna di Difesa", l'esercito israeliano ha
lanciato 1.643 attacchi aerei. Nell'operazione - che ha lasciato sul
terreno quasi 200 morti palestinesi, oltre l'80% dei quali civili - sono
stati impiegati droni, Apache, jet F-16 e navi da guerra.
Un'industria vera e propria quella militare, fatta di compagnie
private e società statali, di indotti e ramificazioni: nell'ultimo
rapporto, reso noto la scorsa settimana da Tel Aviv, in Israele ben
6.784 imprenditori privati si occupano di esportazione di armi. Un
numero a cui va aggiunta l'industria statale e che garantisce ad
Israele di raggiungere il sesto posto nella classifica dei maggiori
esportatori di armi al mondo, scavalcando Canada, Cina, Svezia e Italia.
Secondo un rapporto pubblicato dal quotidiano Ha'aretz, nel
2012 il valore totale delle esportazioni israeliane di armi ha toccato
quota sette miliardi di dollari, con un incremento del 20% rispetto
all'anno precedente. Un balzo in avanti garantito dagli affari
stretti con i mercati di tutto il globo, dagli Stati Uniti all'Europa,
dal Sud America al Sud Est asiatico.
Per farsi un'idea del potenziale - già molto ben espresso -
dell'industria militare israeliana, basti ricordare l'ultimo grande accordo stretto tra Tel Aviv ed un gigante del settore militare: la Lockheed Martin
- 140mila dipendenti, 45 miliardi di fatturato, il principale
rifornitore di armi del governo degli Stati Uniti, nonché della NASA -
aprirà un centro di sviluppo tecnologico in Israele.
Obiettivo dell'accordo stretto con la Israel Aerospace Industries - la
compagnia militare statale - è produrre le ali per il nuovo F35 della
Lockheed. Un programma decennale, ribattezzato "Project 5/9", da oltre
210 milioni di dollari e che partirà nel 2015. Secondo i calcoli
interni, il contratto con la Lockheed Martin potrebbe garantire ad
Israele - almeno potenzialmente - entrate per circa due miliardi e mezzo
di dollari.
A rendere grande fino ad oggi l'industria militare israeliana è
sicuramente l'alta tecnologia. Il governo di Tel Aviv continua a puntare
su tale superiorità, frutto di decenni di esercitazioni e test ma anche
e soprattutto di conflitti veri e propri, tanto da immaginare un futuro
in cui sarà la tecnologia la vera arma vincente. L'attuale ministro
della Difesa, Moshe Ya'alon, ha annunciato poco tempo fa l'intenzione di
dar vita ad un"nuovo esercito" per il quale l'utilizzo di droni sarà la
quotidianità: «Non siamo schiavi della tecnologia - ha detto il
ministro alla stampa - ma la usiamo e la adattiamo alla realtà, dove i
conflitti armati a cui abbiamo assistito negli ultimi 40 anni stanno
diventando sempre meno rilevanti».
A partire proprio dai droni e dai sistemi di difesa anti-missile ampiamente testati nell'ultima offensiva militare contro Gaza: a
differenza della sanguinosa Operazione Piombo Fuso (dicembre
2008-novembre 2009), che dopo i bombardamenti aerei è proseguita con
l'invasione via terra, stavolta l'esercito israeliano non ha messo piede
in territorio palestinese, ma ha attaccato le città e le coste di Gaza
esclusivamente con l'aviazione. E con i droni, aerei senza pilota,
che hanno permesso così ai soldati israeliani di non aver alcun tipo di
coinvolgimento diretto nell'attacco. Una guerra a senso unico, in cui
l'IDF si è sporcato indirettamente le mani. Gli stessi droni che gli
americani usano da tempo in Pakistan, in Africa, in Afghanistan.
«Il futuro ci porterà verso battaglie che saranno determinate dalla
superiorità tecnologica dell'IDF in mare, aria e terra - ha aggiunto il
ministro Ya'alon - Saranno sempre meno i mezzi pesanti e sempre di più
le tecnologie sofisticate e senza equipaggio che ci daranno un
significativo vantaggio su ogni nemico».
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, compagnie
israeliane pubbliche e private sono dietro il 41% dei droni esportati
nel mondo nel decennio 2001-2011. Israele esporta ufficialmente in 24
Paesi del mondo, che con il velivolo senza pilota israeliano tagliano i costi: compri l'aereo, ma non addestri un soldato.
Torniamo a novembre e all'Operazione Colonna di Difesa: "L'ultimo
round di attacchi israeliani contro i palestinesi della Striscia di Gaza
ha permesso l'ottenimento di una serie di obiettivi del governo di
Israele - ci spiega il giornalista israeliano Sergio Yahni, da tempo
esperto della questione dell'industria militare del Paese - Ad
esempio l'incremento delle vendite internazionali del sistema di difesa
aereo Iron Dome che Israele ha sviluppato per intercettare e distruggere
i missili a breve raggio che partono da Gaza. Il sistema Iron Dome è stato creato per individuare e abbattere i razzi da 155 mm in un raggio di azione di 70 chilometri".
"A luglio dello scorso anno [pochi mesi prima dell'offensiva contro Gaza, ndr],
un giorno prima dell'arrivo dell'allora candidato presidente Mitt
Romney a Gerusalemme - continua Yahni - il presidente Obama ha
finanziato con 70 milioni di dollari il sistema Iron Dome. Non solo:
Obama ha garantito altri 205 milioni per contribuire alla produzione del
sistema. Oltre ai soldi americani, dietro Iron Dome ci sono due
compagnie israeliane, giganti del settore: la Elta Systems, sussidiaria
dell'Israel Aerospace Industries (un fatturato da 805 milioni di
dollari, di cui il 90% derivanti da esportazioni); e la Rafael Advanced
Defence System, fondata nel 1948 e da tempo laboratorio per il
rifornimento di armi e tecnologie militari all'interno del Ministero
della Difesa".
"Alla luce di tali numeri e tali coinvolgimenti - aggiunge Yahni -
ritengo che l'offensiva militare israeliana contro Gaza sia stata utile a
testare il sistema Iron Dome. Era già successo a marzo 2012, quando
Israele ha compiuto una serie di omicidi mirati a cui i miliziani
palestinesi hanno risposto con il lancio di missili. La prima 'uscita
ufficiale' di Iron Dome, le cui vendite all'estero sono schizzate alle
stelle. Prima si testa, poi si vende: gli ideatori di Iron Dome hanno
spiegato che il sistema ha intercettato tra l'80% e il 90% dei missili. E
dopo le offensive militari la compagnia Rafael è entrata nelle grazie
americane, entrando in lizza per fornire un sistema simile agli Stati
Uniti".
Lo aveva spiegato bene anche Shir Hever, analista economico israeliano
dell'associazione Alternative Information Center, in un'intervista dello
scorso inverno: «Dall'attacco contro Gaza, apparentemente Israele ha
solo perso: non ha ottenuto un cambiamento della situazione, non ha
indebolito Hamas, ha perso denaro pubblico. In realtà ha anche
guadagnato: ha testato Iron Dome in un contesto di scontro reale.
Ciò si è tradotto subito in contratti di vendita che copriranno i costi.
Anzi, faranno intascare a Israele, alla compagnia statale Rafael e
all'indotto, formato da società private, un bel mucchio di soldi».
E alle tecnologie da guerra si affianca anche il business della
sicurezza interna: l'occupazione israeliana della Cisgiordania e di
Gerusalemme Est: "Israele non ha abbastanza soldati per coprire gli
oltre 700 checkpoint presenti nei Territori Occupati - ci spiega in
conclusione Sergio Yahni - per cui si affida a compagnie private,
facendo affluire altro denaro nel settore. Compagnie che prima si
esercitano in Cisgiordania e poi mettono quell'esperienza a disposizione
di altri: ad esempio, sono compagnie private israeliane ad addestrare
la sicurezza per i prossimi Mondiali in Brasile".
Fonte
Che schifo...
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