di Michele Paris
Nelle elezioni
di domenica prossima per il rinnovo della metà dei seggi della camera
alta del parlamento (Dieta) giapponese, il partito Liberal Democratico
(LDP) di governo dovrebbe riuscire a conquistare la maggioranza assoluta
senza troppe difficoltà, bissando il nettissimo successo nel voto per
la camera bassa dello scorso dicembre che aveva riportato alla guida
dell’esecutivo l’ex premier Shinzo Abe. L’imminente appuntamento con le
urne metterà così fine al parlamento diviso, consentendo al primo
ministro di provare a perseguire con più agio le politiche all’insegna
del militarismo e della liberalizzazione dell’economia annunciate da
mesi.
Secondo un recentissimo sondaggio di opinione condotto a
inizio settimana da alcuni media nipponici, l’LDP e il suo partner di
governo - il partito Nuovo Komeito - dovrebbero assicurarsi almeno 70
dei 121 seggi in palio alla Camera dei Consiglieri. Al contrario, il
Partito Democratico del Giappone (DPJ) di centro-sinistra sembra essere
avviato ad incassare una nuova pesantissima batosta, essendo accreditato
di meno della metà dei 44 seggi attualmente detenuti e messi in palio
domenica.
La metà dei seggi totali (242) della camera alta del
Parlamento di Tokyo viene rinnovata ogni tre anni. Nel voto del 2010, il
DPJ allora al governo aveva perso terreno rispetto a tre anni prima,
impedendo però ai liberal democratici di conquistare la maggioranza e
mantenendo, dopo il passaggio di consegne al governo a fine 2012, la
facoltà di ostacolare l’avanzamento della legislazione approvata dalla
camera bassa.
A determinare il praticamente certo successo di Abe
e del suo partito nelle elezioni del 21 luglio sarà soprattutto la
persistente ostilità nutrita dalla maggioranza dei giapponesi per il
DPJ. Quest’ultimo partito, infatti, dopo il trionfo nel voto del 2009,
aveva mancato tutte le principali promesse di cambiamento, abbandonando
ben presto le politiche di spesa prospettate in campagna elettorale,
così come i tentativi di prendere relativamente le distanze dagli Stati
Uniti e operare un certo ravvicinamento alla Cina.
Inoltre, il
governo Abe potrà beneficiare di alcuni segnali di ripresa economica nel
paese dopo due decenni di stagnazione e l’ulteriore battuta d’arresto
seguita allo tsunami e al conseguente disastro nucleare del 2011.
Questo artificioso e, con ogni probabilità, momentaneo successo
sarebbe dovuto ad una serie di misure propagandate dalla stampa locale e
internazionale col nome di “Abenomics” che consistono sostanzialmente
nell’immissione di denaro nel sistema finanziario grazie all’intervento
della Banca centrale del Giappone e all’adozione di provvedimenti di
libero mercato.
La politica monetaria simile al cosiddetto
“quantitative easing” promosso da qualche anno dalla Fed statunitense ha
determinato una svalutazione dello yen, favorendo sensibilmente le
esportazioni giapponesi a discapito dei più immediati concorrenti (Cina,
Corea del Sud, Taiwan). L’obiettivo della banca centrale è quello di
giungere ad un livello di inflazione pari al 2%, così da interrompere la
persistente tendenza deflattiva degli ultimi vent’anni.
Nonostante
l’entusiasmo di commentatori e giornali economici, la ricetta Abe ha
però finora portato qualche beneficio solo alle grandi compagnie
esportatrici e ai detentori di titoli finanziari grazie all’ingente
quantità di denaro immesso sui mercati. L’annunciato aumento
generalizzato degli stipendi e dei consumi, al di là di quelli relativi
ai beni di lusso, non sembra invece essersi ancora materializzato.
Oltretutto, le politiche promosse dal governo liberal democratico
includono una serie di “riforme” per flessibilizzare ulteriormente il
mercato del lavoro che avranno un impatto pesantissimo sulle fasce più
basse della popolazione, prevedibilmente escluse dai presunti benefici
generati dalle liberalizzazioni.
La scommessa di Abe, secondo
alcuni, rischia anche di peggiorare ulteriormente i problemi del
Giappone. Innanzitutto, il debito pubblico, superiore al 200% del PIL,
potrebbe raggiungere livelli insostenibili se non venisse innescata una
solida ripresa economica. Come ha spiegato mercoledì l’ex “trader”
Satyajit Das sul sito di informazione economica MarketWatch,
l’aggressiva politica monetaria della Banca centrale giapponese e la
svalutazione dello yen potrebbero poi causare la fuga di capitali
privati dal paese, alla ricerca di “interessi più alti e del
mantenimento del potere d’acquisto”.
Le “Abenomics”, il cui
eventuale fallimento avrebbe conseguenze ben oltre i confini del
Giappone, rischiano anche di innescare una guerra di valute in Estremo
Oriente e non solo. I paesi vicini, infatti, potrebbero mettere in atto
misure monetarie simili dopo che la loro competitività è già stata
colpita con una riduzione dell’export e dei tassi di crescita delle
rispettive economie.
Dall’ambito economico, questi conflitti
potrebbero facilmente sfociare in scontri militari, come è già apparso
chiaro dal riesplodere di una serie di contese territoriali nella
regione, in particolare tra Tokyo e Pechino attorno alle isole Senkaku
(Diaoyu per i cinesi), alimentate anche dalla “svolta” asiatica degli
Stati Uniti in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese.
Non
a caso, proprio l’impulso al militarismo è l’altra faccia del progetto
del premier Abe per il suo paese, sottolineato in primo luogo dalla
volontà di modificare la costituzione nipponica per abolire gli
“articoli pacifisti”, quelli cioè che assegnano alle forze armate una
funzione esclusivamente difensiva. Per raggiungere questo obiettivo, Abe
intende cambiare le regole previste per apportare modifiche alla
costituzione. Mentre ora qualsiasi emendamento deve essere approvato dai
due terzi di entrambe le camere del parlamento e da un referendum
popolare, secondo la proposta del governo basterebbe invece un voto
della maggioranza semplice dei due rami della Dieta.
Per
giustificare una simile svolta militarista tutt’altro che popolare tra i
giapponesi, l’esecutivo liberal democratico sta mettendo in atto una
strategia volta ad ingigantire le minacce esterne che graverebbero sul
paese. L’annuale rapporto del ministero della Difesa giapponese, diffuso
settimana scorsa, ha ad esempio elencato le crescenti minacce alla
sicurezza nazionale del paese, a cominciare proprio dalle dispute
territoriali con la Cina e dall’atteggiamento sempre più bellicoso della
Corea del Nord.
L’insistenza su questi presunti pericoli che
graverebbero sul Giappone si accompagna ad una retorica nazionalista
sempre più marcata da parte del governo Abe ed ha portato al primo
aumento del bilancio destinato alla difesa da 11 anni a questa parte,
salito quest’anno a 46 miliardi di dollari.
Oltre
a dipingere l’ascesa militare della Cina in termini particolarmente
critici, il rapporto della Difesa mette in luce due punti fondamentali:
la necessità di assegnare alle forze armate giapponesi la facoltà di
intraprendere azioni militari “preventive” contro nemici stranieri e la
maggiore cooperazione con l’alleato americano come punto fermo della
strategia legata alla sicurezza nazionale.
I suggerimenti
contenuti nel rapporto annuale sono stati ribaditi dal ministro della
Difesa, Itsunori Onodera, in un’intervista rilasciata martedì al Wall Street Journal,
nella quale sono state ricordate le questioni più delicate che i paesi
dell’Estremo Oriente devono fronteggiare, senza peraltro notare come
esse siano in gran parte aggravate proprio dall’atteggiamento sempre più
aggressivo mostrato da Tokyo - così come da Washington - in questi
ultimi mesi.
In ogni caso, le modifiche allo status delle forze
armate giapponesi sono in gran parte rimaste fuori dal dibattito
elettorale di questi giorni pur essendo allo studio di una speciale task
force nominata dal premier Abe poco dopo il suo ritorno al potere nel
dicembre scorso. Il nuovo approccio del governo liberal democratico ai
temi della sicurezza nazionale verrà reso noto in maniera ufficiale
entro la fine dell’anno, per poi concretizzarsi in un disegno di legge
che, secondo la stampa locale, verrà discusso in parlamento nel 2014.
Le
politiche messe in atto finora dal governo Abe sia in ambito economico
che militare, insomma, subiranno un’accelerata dopo il voto di domenica,
con il rischio tuttavia di vedere svanire in fretta il consenso
attualmente goduto dal partito di maggioranza, così come di andare
incontro ad un’esplosione del conflitto sociale sul fronte interno e di
provocare la dura reazione dei paesi percepiti come rivali da un
Giappone con rinnovate e pericolose ambizioni da grande potenza.
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