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28/07/2013

Siria, i piani di guerra USA

di Michele Paris

In una lettera indirizzata al presidente della commissione per le Forze Armate del Senato, il capo di stato maggiore americano, generale Martin Dempsey, ha elencato questa settimana le opzioni militari preparate dal Pentagono per un possibile catastrofico intervento diretto degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Se l’ufficiale più altro in grado degli USA ha allo stesso tempo manifestato molte perplessità nei confronti di una nuova guerra in Medio Oriente, l’amministrazione Obama sta indubbiamente valutando questa ipotesi per rimuovere con la forza il regime di Assad, come chiedono da tempo alcune potenti sezioni dell’apparato politico-militare d’oltreoceano.

Il ventaglio di opzioni proposto dal Dipartimento della Difesa va dall’addestramento di “ribelli” sul territorio di paesi confinanti con la Siria all’implementazione di una no-fly zone con massicci bombardamenti sugli obiettivi situati nelle aree del paese controllate da Damasco. Tutte le possibili scelte sono corredate dei relativi esorbitanti costi per il governo americano, nonché dalla portata dello sforzo logistico che ognuna di esse comporterebbe.

La diffusione della notizia dei preparativi per una vera e propria guerra in Siria è giunta in seguito ad una serie di dichiarazioni di vari esponenti dei vertici militari e del governo che nei giorni scorsi avevano espresso il timore per la prospettiva concreta che, in assenza di interventi esterni, Assad riesca a rimanere alla guida del paese mediorientale ancora a lungo. Lo stesso generale Dempsey, nel corso di un’audizione al Senato sul prolungamento del suo incarico, la settimana scorsa aveva affermato che Assad sarà con ogni probabilità ancora al suo posto anche tra un anno.

Nella lettera recapitata al senatore democratico Carl Levin, in risposta alle perplessità del falco repubblicano John McCain sulla presunta passività dell’amministrazione Obama riguardo la Siria, Dempsey ha spiegato che le forze armate USA, nel caso venisse ordinato dalla Casa Bianca, sono pronte ad addestrare e “consigliare” l’opposizione anti-Assad, ma anche a lanciare attacchi missilistici, imporre una no-fly zone, creare zone-cuscinetto oltre i confini di Giordania e Turchia e prendere il controllo dell’arsenale di armi chimiche a disposizione del regime.

Per mettere bene in chiaro ciò che ognuna di queste opzioni comporta, Dempsey ha ricordato che, “una volta presa un’iniziativa, dovremo preparaci a qualsiasi evenienza”, così che “un coinvolgimento più profondo sarà difficile da evitare”, visto che “la decisione di utilizzare la forza rappresenta né più né meno un atto di guerra”. Allo stesso tempo, un’azione di questo genere da parte degli Stati Uniti “potrebbe inavvertitamente rafforzare i gruppi estremisti e provocare l’uso di quelle stesse armi chimiche sulle quali cerchiamo di prendere il controllo”.

Sul fronte dei costi per le casse federali in un periodo di pesantissimi tagli alla spesa pubblica, il solo programma di addestramento di alcune migliaia di truppe “ribelli” richiederebbe circa 500 milioni di dollari all’anno. Un’offensiva con missili a lungo raggio diretti contro obiettivi militari in Siria comporterebbe invece il dispiegamento di centinaia di aerei e navi da guerra, facendo salire il costo a non meno di un miliardo di dollari per ogni mese di operazioni.

Quest’ultimo importo, infine, è stato indicato dallo stesso Dempsey anche nel caso venisse decisa una campagna di terra, condotta da “migliaia di uomini appartenenti alle Forze Speciali”, per “mettere al sicuro” le armi chimiche di Assad.

Ciò che il capo di stato maggiore americano ha mancato di elencare, così come i politici di Washington che chiedono un intervento diretto degli Stati Uniti in Siria, è il costo di simili operazioni in termini di vite umane. L’utilizzo della forza per rovesciare il regime di Damasco, infatti, è una soluzione che, per mettere teoricamente fine al conflitto in corso, finirebbe per provocare un bagno di sangue ancora maggiore di quello in corso.

Una prospettiva di questo genere è facilmente prevedibile, soprattutto alla luce della lezione della crisi in Libia, dove nel 2011 i bombardamenti delle forze NATO fecero molti più danni e vittime civili dello scontro tra le forze di sicurezza di Gheddafi e i “ribelli”. In Siria, oltretutto, la posta in gioco dal punto di vista geo-politico è decisamente superiore rispetto al paese nordafricano, così che il rischio di una conflagrazione su vasta scala risulta essere molto alto, come dimostra l’evoluzione già in corso della crisi in un conflitto regionale con il coinvolgimento diretto o indiretto non solo delle principali potenze mediorientali ma anche di quelle planetarie.

La strategia degli Stati Uniti, per il momento, prevede il via libera alla fornitura di armi ai “ribelli”, come promesso dal presidente Obama lo scorso mese di giugno dopo l’annuncio, basato su prove a dir poco incerte, che il regime avrebbe fatto uso di armi chimiche. Oltre a far fronte alle divisioni all’interno della propria amministrazione, il presidente democratico ha dovuto attendere anche il parziale scioglimento delle riserve al Congresso, dove molti parlamentari di entrambi gli schieramenti nutrono seri dubbi sulle conseguenze che comporterà anche solo il trasferimento di armi ad un’opposizione dominata da formazioni integraliste.

Così, nella giornata di lunedì la commissione sui servizi segreti della Camera dei Rappresentanti ha dato il via libera al dirottamento di fondi già stanziati per la CIA da destinare alla fornitura di armi alle forze anti-Assad in Siria. Vista la palese illegalità di un’operazione unilaterale che implica la partecipazione ad una guerra civile a fianco di una delle due parti in conflitto, l’amministrazione Obama ha infatti deciso di non incaricare il Dipartimento della Difesa del trasferimento di armi ma di assegnare la responsabilità di un’operazione ufficialmente clandestina alla CIA.

Al di là della propaganda di Washington, la fornitura di armi ai “ribelli” in Siria, oltre ad essere una mossa in contravvenzione del diritto internazionale, non farà altro che aggravare la situazione sul campo. A sottolinearlo, tra gli altri, è stato anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, il quale ha affermato che “le armi non portano la pace” e che preferirebbe “veder cessare le spedizioni di armi da tutte le parti coinvolte”.

Il coinvolgimento degli USA nel finanziamento e nel trasferimento di armi alle milizie anti-Assad, comprese quelle legate ad Al-Qaeda, non inizierà comunque dopo il voto del Congresso, poiché la CIA svolge da tempo un ruolo di facilitazione e coordinamento delle spedizioni di materiale bellico proveniente da paesi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Turchia.
La pretesa sostenuta dal governo americano di avere tenuto finora un approccio cauto alla crisi siriana è soltanto di facciata e serve ad evitare di alimentare l’ostilità ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica domestica e internazionale nei confronti di una nuova e rovinosa avventura bellica in Medio Oriente.

I rovesci patiti dalle forze dell’opposizione in questi ultimi mesi hanno però spinto i loro sponsor occidentali a moltiplicare gli sforzi con nuove iniziative, come appunto la decisione presa da Obama nel mese di giugno. L’importanza del via libera agli armamenti diretti in Siria, come primo passo verso un intervento militare degli USA, è apparso chiaro anche dall’impegno di personalità come, ad esempio, il segretario di Stato John Kerry, il vice-presidente Joe Biden e il direttore della CIA John Brennan, i quali nei giorni scorsi hanno cercato di convincere i membri più riluttanti della commissione della Camera per i servizi segreti a votare a favore dello sblocco dei fondi dell’agenzia di Langley.

Senza alcuno scrupolo per le possibili conseguenze in tutto il Medio Oriente causate da una sempre più probabile escalation del conflitto in Siria, alla luce dei loro “investimenti” in questo paese da oltre due anni, gli Stati Uniti e i loro alleati ritengono che la situazione abbia ormai raggiunto il punto di non ritorno.

Per questa ragione, il rischio di provocare altre decine di migliaia di vittime con un intervento militare, l’intensificarsi dello scontro settario già in corso o l’ulteriore rafforzamento di organizzazioni fondamentaliste legate al terrorismo internazionale sono il prezzo da pagare per evitare lo scenario peggiore per i loro interessi strategici, vale a dire una vittoria di Assad con il conseguente ristabilimento del controllo da parte del regime su tutta la Siria, ma anche il consolidamento della posizione di Hezbollah in Libano e l’espansione dell’influenza dell’Iran nel Golfo Persico e nell’intera regione mediorientale.

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