di Michele Paris
In una lettera indirizzata al presidente della commissione per le
Forze Armate del Senato, il capo di stato maggiore americano, generale
Martin Dempsey, ha elencato questa settimana le opzioni militari
preparate dal Pentagono per un possibile catastrofico intervento diretto
degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Se l’ufficiale più altro in
grado degli USA ha allo stesso tempo manifestato molte perplessità nei
confronti di una nuova guerra in Medio Oriente, l’amministrazione Obama
sta indubbiamente valutando questa ipotesi per rimuovere con la forza il
regime di Assad, come chiedono da tempo alcune potenti sezioni
dell’apparato politico-militare d’oltreoceano.
Il ventaglio di
opzioni proposto dal Dipartimento della Difesa va dall’addestramento di
“ribelli” sul territorio di paesi confinanti con la Siria
all’implementazione di una no-fly zone con massicci
bombardamenti sugli obiettivi situati nelle aree del paese controllate
da Damasco. Tutte le possibili scelte sono corredate dei relativi
esorbitanti costi per il governo americano, nonché dalla portata dello
sforzo logistico che ognuna di esse comporterebbe.
La diffusione
della notizia dei preparativi per una vera e propria guerra in Siria è
giunta in seguito ad una serie di dichiarazioni di vari esponenti dei
vertici militari e del governo che nei giorni scorsi avevano espresso il
timore per la prospettiva concreta che, in assenza di interventi
esterni, Assad riesca a rimanere alla guida del paese mediorientale
ancora a lungo. Lo stesso generale Dempsey, nel corso di un’audizione al
Senato sul prolungamento del suo incarico, la settimana scorsa aveva
affermato che Assad sarà con ogni probabilità ancora al suo posto anche
tra un anno.
Nella lettera recapitata al senatore democratico
Carl Levin, in risposta alle perplessità del falco repubblicano John
McCain sulla presunta passività dell’amministrazione Obama riguardo la
Siria, Dempsey ha spiegato che le forze armate USA, nel caso venisse
ordinato dalla Casa Bianca, sono pronte ad addestrare e “consigliare”
l’opposizione anti-Assad, ma anche a lanciare attacchi missilistici,
imporre una no-fly zone, creare zone-cuscinetto oltre i confini di
Giordania e Turchia e prendere il controllo dell’arsenale di armi
chimiche a disposizione del regime.
Per
mettere bene in chiaro ciò che ognuna di queste opzioni comporta,
Dempsey ha ricordato che, “una volta presa un’iniziativa, dovremo
preparaci a qualsiasi evenienza”, così che “un coinvolgimento più
profondo sarà difficile da evitare”, visto che “la decisione di
utilizzare la forza rappresenta né più né meno un atto di guerra”. Allo
stesso tempo, un’azione di questo genere da parte degli Stati Uniti
“potrebbe inavvertitamente rafforzare i gruppi estremisti e provocare
l’uso di quelle stesse armi chimiche sulle quali cerchiamo di prendere
il controllo”.
Sul fronte dei costi per le casse federali in un
periodo di pesantissimi tagli alla spesa pubblica, il solo programma di
addestramento di alcune migliaia di truppe “ribelli” richiederebbe circa
500 milioni di dollari all’anno. Un’offensiva con missili a lungo
raggio diretti contro obiettivi militari in Siria comporterebbe invece
il dispiegamento di centinaia di aerei e navi da guerra, facendo salire
il costo a non meno di un miliardo di dollari per ogni mese di
operazioni.
Quest’ultimo importo, infine, è stato indicato dallo
stesso Dempsey anche nel caso venisse decisa una campagna di terra,
condotta da “migliaia di uomini appartenenti alle Forze Speciali”, per
“mettere al sicuro” le armi chimiche di Assad.
Ciò che il capo di
stato maggiore americano ha mancato di elencare, così come i politici
di Washington che chiedono un intervento diretto degli Stati Uniti in
Siria, è il costo di simili operazioni in termini di vite umane.
L’utilizzo della forza per rovesciare il regime di Damasco, infatti, è
una soluzione che, per mettere teoricamente fine al conflitto in corso,
finirebbe per provocare un bagno di sangue ancora maggiore di quello in
corso.
Una prospettiva di questo genere è facilmente prevedibile,
soprattutto alla luce della lezione della crisi in Libia, dove nel 2011
i bombardamenti delle forze NATO fecero molti più danni e vittime
civili dello scontro tra le forze di sicurezza di Gheddafi e i
“ribelli”. In Siria, oltretutto, la posta in gioco dal punto di vista
geo-politico è decisamente superiore rispetto al paese nordafricano,
così che il rischio di una conflagrazione su vasta scala risulta essere
molto alto, come dimostra l’evoluzione già in corso della crisi in un
conflitto regionale con il coinvolgimento diretto o indiretto non solo
delle principali potenze mediorientali ma anche di quelle planetarie.
La
strategia degli Stati Uniti, per il momento, prevede il via libera alla
fornitura di armi ai “ribelli”, come promesso dal presidente Obama lo
scorso mese di giugno dopo l’annuncio, basato su prove a dir poco
incerte, che il regime avrebbe fatto uso di armi chimiche. Oltre a far
fronte alle divisioni all’interno della propria amministrazione, il
presidente democratico ha dovuto attendere anche il parziale
scioglimento delle riserve al Congresso, dove molti parlamentari di
entrambi gli schieramenti nutrono seri dubbi sulle conseguenze che
comporterà anche solo il trasferimento di armi ad un’opposizione
dominata da formazioni integraliste.
Così, nella giornata di
lunedì la commissione sui servizi segreti della Camera dei
Rappresentanti ha dato il via libera al dirottamento di fondi già
stanziati per la CIA da destinare alla fornitura di armi alle forze
anti-Assad in Siria. Vista la palese illegalità di un’operazione
unilaterale che implica la partecipazione ad una guerra civile a fianco
di una delle due parti in conflitto, l’amministrazione Obama ha infatti
deciso di non incaricare il Dipartimento della Difesa del trasferimento
di armi ma di assegnare la responsabilità di un’operazione ufficialmente
clandestina alla CIA.
Al di là della propaganda di Washington,
la fornitura di armi ai “ribelli” in Siria, oltre ad essere una mossa in
contravvenzione del diritto internazionale, non farà altro che
aggravare la situazione sul campo. A sottolinearlo, tra gli altri, è
stato anche l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, il
diplomatico algerino Lakhdar Brahimi, il quale ha affermato che “le armi
non portano la pace” e che preferirebbe “veder cessare le spedizioni di
armi da tutte le parti coinvolte”.
Il
coinvolgimento degli USA nel finanziamento e nel trasferimento di armi
alle milizie anti-Assad, comprese quelle legate ad Al-Qaeda, non
inizierà comunque dopo il voto del Congresso, poiché la CIA svolge da
tempo un ruolo di facilitazione e coordinamento delle spedizioni di
materiale bellico proveniente da paesi come Arabia Saudita, Emirati
Arabi Uniti, Qatar e Turchia.
La pretesa sostenuta dal governo americano di avere tenuto finora un
approccio cauto alla crisi siriana è soltanto di facciata e serve ad
evitare di alimentare l’ostilità ampiamente diffusa tra l’opinione
pubblica domestica e internazionale nei confronti di una nuova e
rovinosa avventura bellica in Medio Oriente.
I rovesci patiti
dalle forze dell’opposizione in questi ultimi mesi hanno però spinto i
loro sponsor occidentali a moltiplicare gli sforzi con nuove iniziative,
come appunto la decisione presa da Obama nel mese di giugno.
L’importanza del via libera agli armamenti diretti in Siria, come primo
passo verso un intervento militare degli USA, è apparso chiaro anche
dall’impegno di personalità come, ad esempio, il segretario di Stato
John Kerry, il vice-presidente Joe Biden e il direttore della CIA John
Brennan, i quali nei giorni scorsi hanno cercato di convincere i membri
più riluttanti della commissione della Camera per i servizi segreti a
votare a favore dello sblocco dei fondi dell’agenzia di Langley.
Senza
alcuno scrupolo per le possibili conseguenze in tutto il Medio Oriente
causate da una sempre più probabile escalation del conflitto in Siria,
alla luce dei loro “investimenti” in questo paese da oltre due anni, gli
Stati Uniti e i loro alleati ritengono che la situazione abbia ormai
raggiunto il punto di non ritorno.
Per questa ragione, il rischio
di provocare altre decine di migliaia di vittime con un intervento
militare, l’intensificarsi dello scontro settario già in corso o
l’ulteriore rafforzamento di organizzazioni fondamentaliste legate al
terrorismo internazionale sono il prezzo da pagare per evitare lo
scenario peggiore per i loro interessi strategici, vale a dire una
vittoria di Assad con il conseguente ristabilimento del controllo da
parte del regime su tutta la Siria, ma anche il consolidamento della
posizione di Hezbollah in Libano e l’espansione dell’influenza dell’Iran
nel Golfo Persico e nell’intera regione mediorientale.
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