L'amministrazione Usa che pretende di essere la più progressista e la
più vicina al mondo arabo, ha prodotto il piano di sicurezza più
filo-Israele che i palestinesi potessero immaginare e temere. Il
segretario di stato John Kerry è tornato a Gerusalemme e a Ramallah, nel
pieno della nevicata più abbondante degli ultimi decenni, non per
correggerlo ma per ribadirlo.
Non sorprende che il presidente
palestinese Abu Mazen lo abbia seccamente respinto alla fine dei
colloqui con Kerry di giovedì sera. Al segretario di stato ha anche
consegnato un documento con le «linee rosse» palestinesi: Israele ha le
sue e anche i palestinesi hanno il diritto di averne - ripetendo che non
accetterà mai la presenza di un solo soldato israeliano nel territorio
del futuro stato di Palestina e che non riconoscerà Israele quale stato
ebraico.
Kerry che ieri ha incontrato per ore il premier
israeliano Netanyahu in una Gerusalemme stretta nella morsa del gelo, ha
provato a sdrammatizzare e si è ancora una volta detto ottimista su uno
«storico accordo» entro aprile, ossia entro i nove mesi stabiliti lo
scorso luglio nelle intese per la ripresa delle trattative. Non si
capisce però come i palestinesi potranno accettare il piano Usa. L'amministrazione
Obama propone, in aperto accoglimento delle condizioni poste da
Netanyahu, che Israele continui a controllare la parte cisgiordana
(quindi all'interno del territorio palestinese) della Valle del Giordano
per dieci anni in attesa che le forze militari palestinesi siano
«pronte» al loro compito di sicurezza in quella fascia di terra.
Propone inoltre che lungo il confine tra Palestina e Giordania ci sia una «presenza invisibile» di
soldati israeliani per monitorare, in sostanza, chi entra e chi esce
dal territorio palestinese. Indiscrezioni di stampa dicono che Kerry
vedrebbe con favore anche la presenza «temporanea» di avamposti militari
israeliani nel resto della Cisgiordania. Di fatto gli Stati Uniti
accolgono nel loro piano di sicurezza gran parte della visione
israeliana, senza per altro prevedere alcun freno alla continua crescita
delle colonie israeliane nei Territori occupati, alla confisca di terre
e alla demolizione di case palestinesi, che pure nelle ultime ore è
stata condannata dall'Onu.
Come scrivono molti giornali arabi, gli Stati Uniti non hanno saputo proporre altro che una occupazione mascherata del popolo palestinese.
Washington nega di avere cambiato idea ma l'aver «suggerito» che i
soldati israeliani rimangano nella valle del Giordano per dieci anni e
lungo il confine con la Giordania, significa che non appoggia più una
soluzione definitiva del conflitto e che torna a sostenere quell'accordo
transitorio che tanto piace ad Israele per rimandare a tempo
indeterminato nodi centrali come il futuro dei profughi palestinesi
sparsi nel mondo arabo e la questione di Gerusalemme.
Il
segretario di stato ha rinunciato soltanto al rinvio a gennaio della
liberazione del terzo scaglione di prigionieri politici palestinesi che
Netanyahu si è impegnato a scarcerare.
È troppo anche per un presidente palestinese moderato e accomodante come Abu Mazen.
Accogliere il piano di sicurezza Usa, scrivono da giorni i commentatori
palestinesi, equivale ad un suicidio. Ed è impensabile che a gennaio si
possa arrivare a quel vertice a tre - Kerry, Netanyahu e Abu Mazen -
che per gli Stati Uniti deve essere la rampa di lancio verso la firma di
un accordo definitivo ad aprile. Intanto oltre al comprensibile rifiuto
palestinese, remano contro il compromesso territoriale non pochi
ministri del governo Netanyahu.
L'unico sviluppo positivo è la
notizia del congelamento del «Piano Prawer», il progetto di rimozione
con la forza di decine di migliaia di beduini del Neghev e la
distruzione di villaggi arabi «non riconosciuti». Sotto l'urto delle
proteste, Netanyahu presenterà un nuovo piano. Non è detto che sarà meno
traumatico di quello appena chiuso nel cassetto.
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