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26/12/2013

Iraq e Libia: dall'intervento al disastro umanitario

Le cronache parlano sempre meno di Libia e Iraq, e il motivo è evidente: l'intervento “umanitario” ha lasciato i due Paesi in preda alla violenza settaria e sul punto di disintegrarsi a causa della tribalizzazione. I loro governi fantoccio non sono in grado di assicurare i servizi essenziali. Prospera -paradossalmente- l'estremismo islamista. Una situazione talmente caotica che neanche il flusso di petrolio e gas naturale verso i Paesi ricchi, vera causa dell'intervento, è garantito. Un bel risultato, non c'è che dire.

A dieci dall'invasione Iraq in ginocchio

Dovevano liberare Baghdad da un tiranno crudele e corrotto. Oggi violenza e corruzione sono a livelli mai visti prima.

All'alba del 20 marzo 2003, dopo anni di embargo e di strategie di destabilizzazione, una pioggia di bombe e missili “intelligenti” si abbatteva su Baghdad. Iniziava così la seconda guerra del Golfo, voluta dagli USA e dai loro alleati per destituire il presidente Saddam Hussein, un tiranno crudele e corrotto, in possesso di terribili armi di distruzione di massa e complice dei terroristi di Al Qaeda.

Il Paese fu rapidamente occupato (l'immediato saccheggio del Museo Nazionale fu l'anteprima della “nuova era”) ma la resistenza all'invasione, sotto forma di una guerriglia continua e indomabile, ha dimostrato che una schiacciante supremazia militare in campo aperto non è sufficiente per garantirsi il controllo di un territorio. Il ritiro delle truppe USA ha sancito questa bruciante verità.

La retorica dell'”intervento umanitario” parlava di prosperità e democrazia. A dieci anni di distanza è difficile perfino quantificare il numero delle vittime civili irachene: secondo uno studio realizzato da 12 ricercatori di USA, Canada e Iraq tra il 2003 e il 2011 avrebbero perso la vita 460.800 persone sia per fatti violenti che per il collasso dell'infrastruttura sanitaria. Quest'ultimo era iniziato già con l'embargo negli anni tra la prima e la seconda guerra del Golfo, quando la carenza di farmaci ed altri beni di prima necessità aveva mietuto molte vittime, soprattutto bambini. Poi va aggiunto un numero imprecisato di feriti, mutilati e torturati e più di 4 milioni di profughi interni e di rifugiati all'estero.

Le armi di distruzione di massa erano una bufala, ma anche la “guerra al terrorismo” ha fatto flop: l'estremismo islamico, che prima in Iraq era praticamente inesistente, vi ha trovato in questi anni un eccellente brodo di coltura.

Gli occupanti hanno attuato la classica strategia del divide et impera, fomentando l'odio settario che già era molto profondo. Negli anni '80 il sunnita Saddam aveva attaccato l'Iran sciita degli ayatollah, e oltre agli sciiti anche i curdi, accusati di simpatizzare per l'Iran, erano stati duramente repressi. Quella guerra provocò più di un milione e mezzo di morti su entrambi i fronti.

Il 30 dicembre 2006 Saddam veniva impiccato e nel video dell'esecuzione, diffuso in rete, si vedeva l'ex presidente oltraggiato dai boia inneggianti al leader sciita Moqtada Al Sadr. Era la pietra tombale per qualsiasi ipotesi di riconciliazione tra la maggioranza sciita (che oggi governa) e la minoranza sunnita. Attentati e omicidi a sfondo settario continuano a insanguinare l'Iraq: tra luglio e settembre di quest'anno ci sono stati quasi 3.000 morti e 9.000 feriti.

La corruzione e la violenza politica si alimentano a vicenda e si può dire che non sia più stata ricostruita un'organizzazione statale. Ogni settimana circa 800 milioni di dollari vengono esportati illegalmente, mentre gli indici di mortalità e malattia sono schizzati alle stelle per l'assenza dei servizi fondamentali. Girano report impressionanti sui tumori e le malformazioni causate dall'uranio impoverito e dalle altre armi chimiche usate da chi voleva impedire l'uso delle armi di distruzione di massa.

L'opposizione subisce arresti arbitrari, torture ed esecuzioni, e molti dissidenti si rifugiano all'estero. Nel mese di ottobre sono stati uccisi tre giornalisti a colpi di arma da fuoco.

Secondo Amnesty International nel 2013 sarebbero state eseguite almeno 132 condanne a morte. Si tratta del più alto numero di esecuzioni dal 2004, l'anno in cui fu reintrodotta la pena capitale.
"Le esecuzioni in Iraq hanno spesso luogo al termine di processi irregolari preceduti da torture e durante i quali gli imputati non hanno pieno accesso alla difesa" ha dichiarato Philip Luther di Amnesty International.

All'inizio di questo mese sono state giustiziate 42 persone tra cui una donna, un atto che l'Alto Commissario ONU Navi Pillay ha definito “osceno e inumano”.

Il paradosso è che l'Iraq e l'Iran -il “nemico pubblico numero uno” dell'Occidente- non sono mai stati così vicini. Ed entrambi in nome della comune appartenenza all'islamismo sciita sostengono un altro governante “wanted”, cioè il siriano Bashar Assad.

E se la ragione principale della guerra erano le risorse naturali irachene, neanche questo obiettivo sembra del tutto raggiunto: il 2 giugno sul New York Times si leggeva che le importazioni di greggio iracheno degli Stati Uniti non hanno guadagnato dalla caduta di Saddam Hussein: chi ha tratto vantaggio è stata la Cina, che è diventata il primo compratore del petrolio dell’Iraq.

La ragione principale è che l'insicurezza tiene lontane le compagnie americane, mentre i cinesi accettano rischi più elevati.

La Libia importa petrolio ed esporta combattenti islamisti

Secondo lo storico Angelo Del Boca “I Paesi della Nato e gli stessi Stati Uniti con la guerra del 2011 hanno trasformato la Libia nella nuova Somalia del 1993-1994”

Nel marzo 2011 iniziavano i bombardamenti “umanitari” della NATO per proteggere i civili dalle angherie di Gheddafi. Le notizie sulla Libia dominavano le prime pagine e i telegiornali di tutte le reti occidentali e arabe. Eliminato Gheddafi venne celebrata la grande vittoria ottenuta dalla NATO e dalle forze di opposizione. Ora è rarissimo trovare in Libia un giornalista occidentale e ancor più raro leggere un reportage decente sulla Libia.

Gli affaristi, soprattutto britannici e francesi, erano in brodo di giuggiole: pensavano a quanto avrebbero guadagnato con la ricostruzione della Libia.

Che gli oppositori di Gheddafi fossero una masnada impresentabile di capibanda tribali, estremisti islamici, disertori del vecchio regime e criminali comuni era noto a tutti, ma in Occidente si pensava che dollari ed euro avrebbero fatto il miracolo di renderli mansueti. L’assassinio dell’ambasciatore statunitense (settembre 2012) e gli attacchi a varie ambasciate e consolati stranieri hanno dissolto ogni illusione.

Oggi in Libia ci sono molti meno uomini d'affari e anche le forniture di petrolio e gas naturale -il vero motivo dell'intervento- non sono più scontate come sembrava. La Libia anziché esportare petrolio è costretto ad importarlo. Il 31 ottobre scorso sul Sole 24 ore si leggeva: “Per un Paese che dalle vendite di petrolio e gas ricava il 96% delle entrate governative e il 97% dell'export, non ci poteva essere notizia peggiore. L'ennesimo crollo delle esportazioni dalla Libia rappresenta non solo un danno ingente per il fragile Governo di Tripoli, ma anche un fattore destabilizzante -e potenzialmente rialzista- per i mercati petroliferi mondiali”.

L'intermittenza delle esportazioni impedisce al governo di pagare le importazioni di grano e la Libia rischia la fame. La capitale Tripoli è rimasta una settimana intera senz’acqua o elettricità ed è teatro di scontri tra fazioni contrapposte.

I pozzi sono controllati dalle milizie: secondo lo storico Del Boca in Libia ce ne sarebbero 500, con 30mila uomini, cannoni e carri armati, che si contendono il potere mentre il governo ufficiale non riesce neanche a mettere il naso fuori dall'aeroporto di Bengasi.

Il 10 ottobre il premier libico Ali Zeidan è stato addirittura rapito da un gruppo di ribelli e rilasciato qualche ora dopo.

Tra le milizie è fortissimo il peso dei jihadisti. Secondo fonti di intelligence, si trova nel sud della Libia la principale base di Al Qaeda per il Maghreb islamico.

La Libia è alla vigilia di una probabile scissione tra Cirenaica, Tripolitania e Fezzan. Il 26 settembre scorso la regione sudoccidentale del Fezzan si è dichiarata “autonoma” e così qualche giorno fa la Cirenaica. Una scissione fomentata dall’Occidente per dividere il Paese e giocare sulla concorrenza tra le varie regioni petrolifere per abbassare i prezzi.

Quanto ai diritti umani, Amnesty International scrive che intere comunità che erano state sfollate con la forza durante la guerra e accusate di sostenere Gheddafi continuano a subire rappresaglie. Sono migliaia le persone che vengono detenute senza processo e torturate. Ma la sorte peggiore dopo la caduta di Gheddafi è toccata agli immigrati dall'Africa subsahariana che sono stati massacrati o costretti a fuggire. Solo in Niger ne sono rientrati 200-250mila, e milioni di persone hanno perso la propria fonte di sostentamento. Molti, spinti dalla disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l'Europa. Ma con le “autorità libiche” il governo italiano ha firmato un patto per il pattugliamento dei porti rendendosi in questo modo complice di torture, stupri, detenzioni arbitrarie che notoriamente i migranti subiscono in Libia.

Pagina a cura di Nello Gradirà

tratto da Senza Soste n.87 (novembre-dicembre 2013)


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