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17/12/2013

Siria, Al-queda dirige i ribelli

di Mario Lombardo

I punti di riferimento degli Stati Uniti e degli altri governi occidentali nel conflitto in Siria continuano a crollare di fronte alla sempre più evidente avanzata delle formazioni di matrice integralista sunnita tra le fila dell’opposizione anti-Assad, nonostante l’impegno diplomatico in atto per mettere in piedi una conferenza di pace nelle prossime settimane.

Questa tendenza nel paese mediorientale nel caos ormai da quasi tre anni è apparsa chiara questa settimana in seguito alla decisione di Washington e Londra di sospendere la fornitura di aiuti “non letali” destinati da tempo ai “ribelli” moderati e organizzati nel cosiddetto Libero Esercito della Siria.

L’iniziativa americana e britannica è stata annunciata mercoledì ed è la conseguenza di un episodio accaduto lo scorso venerdì, quando un altro gruppo “ribelle”, il Fronte Islamico, si è impossessato di un deposito contenente materiale arrivato dagli Stati Uniti nell’ambito della politica di sostegno mirato a beneficio dell’opposizione secolare siriana.

Gli eventi che hanno portato alla decisione degli USA e della Gran Bretagna non appaiono del tutto chiari e la ricostruzione ufficiale conferma il groviglio di rivalità e alleanze che caratterizza la galassia dell’opposizione armata in Siria.

Secondo fonti americane e dell’opposizione, in ogni caso, i fatti sarebbero avvenuti nella località settentrionale di Atmeh, dove la diffusione della notizia che gli integralisti dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, una formazione affiliata ad al-Qaeda, stavano pianificando un attacco, per prendere il controllo del quartier generale del Consiglio Militare Supremo - l’organo di comando nominale del Libero Esercito della Siria - e di un deposito da esso controllato, ha spinto i militanti del Fronte Islamico a precipitarsi in quest’area per proteggere le strutture minacciate.

Un volta giunti sul posto, sono stati però questi ultimi ad occupare gli edifici, impadronendosi del materiale distribuito dagli americani, così come del valico di frontiera con la Turchia di Bab al-Hawa. Secondo svariati membri del Libero Esercito della Siria, la notizia dell’imminente operazione dello Stato Islamico era soltanto una voce senza fondamento diffusa per favorire l’intervento del Fronte Islamico.

La vicenda si è poi conclusa con un’autentica umiliazione per i ribelli sostenuti dall’Occidente, dal momento che l’azione del Fronte Islamico ha costretto il comandante del Consiglio Militare Supremo, generale Salim Idriss, a fuggire in Turchia.
L’ex alto ufficiale dell’esercito regolare di Damasco si sarebbe successivamente recato in Qatar per poi tornare in Turchia, dove è stato raggiunto dagli inviti americani di rientrare al più presto in Siria. Per i “ribelli”, invece, Idriss non sarebbe fuggito ma si troverebbe al confine meridionale turco trattando proprio con il Fronte Islamico.

Il Fronte Islamico Siriano è uno dei vari gruppi che si battono per rovesciare il regime di Assad e raccoglie alcune formazioni islamiste che hanno rotto con l’opposizione armata moderata filo-occidentale ma, allo stesso tempo, si oppone anche allo Stato Islamico e al Fonte al-Nusra, entrambi legati ad al-Qaeda.

Il materiale “non letale” di cui il Fronte Islamico è entrato in possesso nei giorni scorsi viene fornito regolarmente alle fazioni ritenute più moderate dal Dipartimento di Stato americano - mentre la CIA provvede alle armi e all’addestramento dei “ribelli” - e consiste in cibo, medicinali, strumentazioni elettroniche, veicoli ed equipaggiamenti vari. Gli aiuti umanitari diretti in Siria, ha fatto sapere il governo di Washington, non saranno invece interessati dall’annunciata sospensione.

Lo stop a queste forniture da parte degli Stati Uniti non dovrebbe avere un particolare impatto sulle vicende siriane ma è altamente significativo della situazione creatasi nel paese mediorientale, dove l’opposizione coltivata dall’Occidente appare sempre più debole e priva sia di un’efficace struttura militare che di un qualche seguito tra la popolazione. Per il Wall Street Journal, addirittura, il Libero Esercito della Siria starebbe letteralmente “collassando sotto la pressione degli islamisti che dominano tra i ribelli”.

Anche per queste ragioni, l’amministrazione Obama aveva recentemente approcciato proprio le formazioni che fanno parte del Fronte Islamico, così da convincere anche i suoi leader a partecipare al dialogo con il regime, da tenersi a Ginevra verosimilmente a fine gennaio, dopo avere incassato l’OK sia pure non troppo convinto del Consiglio Militare Supremo del generale Idriss.

Questa strategia era stata adottata sostanzialmente per dare qualche legittimità alla delegazione che dovrebbe prendere parte al summit battezzato “Ginevra II” di cui si parla fin dal maggio scorso e, parallelamente, rendere quanto meno ipotizzabile una qualche implementazione sul campo di un eventuale accordo di pace.

Dopo i fatti di venerdì, tuttavia, appaiono sempre più scarse le possibilità per gli Stati Uniti di includere alcune formazioni islamiste nel dialogo ancora da avviare con il regime. Tanto più che, secondo alcuni esponenti dell’opposizione filo-occidentale, l’obiettivo del Fronte Islamico nel nord della Siria sarebbe precisamente quello di ridurre ulteriormente l’influenza dei gruppi moderati. Il Fronte, d’altra parte, pur avendo collaborato in alcune occasioni con il Libero Esercito della Siria, mira apertamente alla creazione di uno stato islamico dopo la rimozione di Assad.

Come ha affermato al New York Times Andrew Tabler del Washington Institute for Near East Policy, l’amministrazione Obama si trova in definitiva a “dover scegliere tra il sostegno ai gruppi [dell’opposizione] moderati e quelli efficaci”. Mentre i primi garantiscono almeno apparentemente un’immagine secolare e democratica pur essendo sostanzialmente impotenti sul campo, le formazioni jihadiste sono le uniche a combattere con una qualche efficacia le forze del regime, anche se un loro successo finale nel conflitto finirebbe per creare più di un grattacapo all’Occidente.

Simili considerazioni sono con ogni probabilità all’esame del governo americano, da dove la retorica anti-Assad negli ultimi tempi sembra avere lasciato spazio ad una certa revisione della strategia relativa alla Siria e all’intero Medio Oriente.

Ciò risulta evidente anche dallo spazio relativamente inferiore dato nelle ultime settimane dai media “mainstream” americani alla crisi siriana, in concomitanza con la distensione dei rapporti tra USA e Iran, nonché forse con il prevalere di quelle sezioni all’interno dell’establishment governativo di Washington che ritengono fallimentare se non dannosa la politica finora perseguita nei confronti di Damasco.

L’appoggio garantito ai “ribelli” in oltre tre anni anche tramite le armi e il denaro fornito dalle monarchie del Golfo Persico ha infatti creato uno scenario a dir poco esplosivo in Siria, dove sono giunte migliaia o decine di migliaia di estremisti islamici con un’agenda prettamente settaria del tutto estranea alle aspirazioni della popolazione e minacciosa anche per gli interessi occidentali.

La resistenza inaspettata del regime anche grazie all’appoggio di Iran e Hezbollah ha fatto così scemare le speranze di quanti in Occidente auspicavano una caduta repentina di Assad, per poi concentrarsi sulla liquidazione di gruppi integralisti relativamente marginali attraverso la promozione a Damasco di una nuova classe dirigente docile e ben disposta verso Washington.

Il perdurare del conflitto si è invece risolto in un rafforzamento del regime e in un inevitabile indebolimento dell’opposizione armata, all’interno della quale però le fazioni più estreme hanno preso il sopravvento sui moderati, lasciando gli sponsor di questi ultimi senza interlocutori accettabili o presentabili all’opinione pubblica internazionale.

La soluzione ultima per evitare lo scivolamento definitivo della Siria in un baratro che farebbe impallidire i conflitti di Somalia o Afghanistan, perciò, secondo alcuni osservatori potrebbe per assurdo materializzarsi in un clamoroso voltafaccia, i cui contorni hanno preso forma nelle parole - finora senza molto seguito a livello ufficiale - pronunciate in un’intervista rilasciata al New York Times il 3 dicembre scorso dal diplomatico americano Ryan Crocker.

Secondo l’ex ambasciatore USA a Kabul e a Baghdad, ma anche a Damasco tra il 1998 e il 2001, “è necessario iniziare a discutere nuovamente con il regime di Assad… e ciò dovrà essere fatto in maniera molto molto sommessa”. D’altra parte, ha aggiunto Crocker, “per quanto sgradevole possa essere Assad non lo sarà mai quanto i jihadisti che minacciano di prendere il potere in caso di una sua caduta”.

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