di Mario Lombardo
Dopo più di due mesi di scontro politico e proteste di piazza, la
crisi che sta avvolgendo la Thailandia sembra destinata ad aggravarsi
ulteriormente nelle prossime settimane che dovrebbero portare al voto
anticipato. Nel fine settimana, infatti, la decisione del principale
partito di opposizione di boicottare le elezioni è stata seguita dalla
più imponente manifestazione finora tenuta contro il governo per forzare
le dimissioni immediate della premier, Yingluck Shinawatra, e spianare
di fatto la strada ad un nuovo colpo di stato.
Una folla di
centinaia di migliaia di persone si è riversata per le strade di Bangkok
nella giornata di domenica, finendo per accerchiare l’abitazione
privata della premier che si trovava però nel nord del paese dove ha
invece ricevuto un’accoglienza trionfale.
Successivamente, i
manifestanti organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma
Democratica (PDRC) hanno cercato di impedire ai membri di svariati
partiti di registrare le loro candidature per il voto che la stessa
Yingluck aveva indetto per il 2 febbraio prossimo. La decisione di
sciogliere la camera bassa era giunta in seguito alle dimissioni di
massa dei parlamentari del Partito Democratico di opposizione.
Alcuni
esponenti del partito Pheu Thai di governo e di altri partiti sono però
riusciti a raggiungere gli uffici della commissione elettorale e una
stazione di polizia nella capitale, registrandosi con successo per
apparire sulle schede elettorali. Secondo il Bangkok Post, al
termine del primo giorno utile per la registrazione, solo 9 dei 34
partiti che parteciperanno al voto hanno potuto registrare alcuni dei
loro candidati. Lunedì, poi, i vertici del Pheu Thai hanno come previsto
ribadito la fiducia nell’attuale primo ministro, confermando la sua
candidatura anche per la guida del prossimo governo.
Il Partito
Democratico, nonostante le divisioni interne circa la strategia da
seguire, ha deciso invece di non prendere parte al voto e di continuare
ad appoggiare le proteste contro il governo, rischiando però di
infiammare ancora di più la situazione e di finire isolato politicamente
dopo che il suo ultimo successo elettorale risale a oltre due decenni
fa.
Uno dei principali leader della protesta, l’ex deputato del
Partito Democratico e già vice-premier Suthep Thaugsuban, ha inoltre
anch’egli gettato benzina sul fuoco nel fine settimana, promettendo di
bloccare l’intero paese per impedire il voto e di “dare la caccia a
Yingluck” finché non si dimetterà o, se non dovesse farlo, “fino alla
sua morte”.
Suthep e il PDRC chiedono da tempo, oltre alle
dimissioni immediate del gabinetto Yingluck, la creazione di un
“consiglio del popolo” non eletto che nomini un nuovo governo e proceda
con una serie di “riforme” per eliminare l’influenza del clan Shinawatra
in Thailandia. L’attuale premier, come è noto, è la sorella dell’ex
primo ministro Thaksin Shinawatra, da anni in esilio volontario dopo una
condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, a suo dire
motivata politicamente.
L’opposizione
del Partito Democratico, gli ambienti reali e militari vedono con
estremo sospetto la macchina politica costruita attorno a Thaksin, in
grado da oltre un decennio di mettere in discussione i tradizionali
centri di potere thailandesi grazie alla creazione di una base
elettorale nelle aree rurali più povere ed emarginate nel nord del paese
attraverso modeste politiche di riforma sociale.
L’impossibilità
di combattere all’interno delle regole elettorali la famiglia
Shinawatra e i suoi sostenitori organizzati nel Fronte Unito per la
Democrazia contro la Dittatura ha così spinto l’opposizione politica e
di piazza a promuovere una soluzione autoritaria che rimetterebbe le
sorti del paese nelle mani dei militari e della monarchia. Ciò è d’altra
parte già accaduto svariate volte negli ultimi decenni e, più
recentemente, nel 2006 e nel 2008, quando due golpe, rispettivamente
condotto dai militari e dal potere giudiziario, rimossero il governo di
Thaksin e un altro guidato dai suoi sostenitori.
Dopo i fatti del
2010, quando manifestazioni di protesta a Bangkok animate questa volta
dalle “camicie rosse” pro-Thaksin vennero represse nel sangue dal
governo del Partito Democratico insediatosi grazie al golpe del 2008,
c’è oggi molta apprensione per le conseguenze di un nuovo colpo di stato
in Thailandia. Tanto più che gli stessi sostenitori del governo
continuano a dirsi pronti ad intervenire per impedire un colpo di mano
dei militari e degli ambienti monarchici.
Lo stesso governo
sembra temere che la situazione possa sfuggire di mano nel caso
l’opposizione dovesse forzare la mano ai militari, tanto che la premier
nei giorni scorsi ha risposto al boicottaggio del Partito Democratico
con una propria proposta per risolvere la crisi. Yingluck ha cioè
ipotizzato la creazione di un “consiglio per la riforma” dopo le
elezioni di febbraio. Anche questo organo sarebbe non elettivo e
dovrebbe però comprendere esponenti di tutte le parti politiche e della
società civile.
Il successo dei manifestanti anti-Thaksin, in
ogni caso, dipenderà quasi certamente dalla posizione che decideranno di
assumere le forze armate thailandesi. I vertici di queste ultime negano
di avere chiesto alla premier Yingluck di fare un passo indietro e, per
il momento, continuano ad appoggiare ufficialmente la soluzione
elettorale che, tuttavia, difficilmente riuscirà a risolvere le profonde
divisioni che attraversano il paese del sud-est asiatico.
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