di Mario Lombardo
Anche se il
giorno di Natale il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha lanciato un
appello di pace e unità nel neonato paese centro-africano, i
combattimenti sono proseguiti senza sosta soprattutto negli stati
settentrionali dove si concentra la maggior parte della produzione di
petrolio. La disponibilità di Kiir a trattare senza condizioni con le
forze ribelli guidate dall’ex vice-presidente, Riek Machar, è stata
manifestata dopo il suo incontro con l’inviato speciale di Washington,
Donald Booth, ed in concomitanza con la riconquista da parte delle forze
regolari della importante città di Bor, a un centinaio di chilometri a
nord della capitale, Juba.
Parlando da una chiesa cattolica al
termine di una funzione natalizia, Kiir ha anche condannato le violenze
commesse in suo nome. Nei giorni scorsi, infatti, si era diffusa la
notizia che le forze armate fedeli al presidente erano state
protagoniste di svariate atrocità ai danni di civili appartenenti
all’etnia Nuer, facendo addirittura migliaia di morti.
Con
l’aggravarsi dello scontro, in ogni caso, le Nazioni Unite hanno
approvato questa settimana un consistente aumento del contingente di
caschi blu in Sud Sudan, mentre giovedì a Juba è arrivata una
delegazione dell’Unione Africana per cercare di favorire il dialogo tra
le due parti in lotta e fermare un conflitto che ha già creato quasi
centomila profughi. Sempre giovedì, anche il primo ministro etiope,
Hailemariam Desalegn, e il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, sono
giunti in Sud Sudan per incontrare Salva Kiir.
Gli Stati Uniti,
da parte loro, già settimana scorsa avevano inviato 45 soldati nella
capitale per difendere la propria ambasciata ed evacuare i cittadini
americani nel paese. Altri 150 Marines sono stati inoltre trasferiti
dalla Spagna alla base di Camp Lemonnier, a Gibuti, da dove verranno
inviati in Sud Sudan in caso di necessità.
Come è noto, la
situazione nel Sudan del Sud era precipitata il 15 dicembre scorso in
seguito ad alcuni scontri a fuoco nei pressi di Juba tra le forze
governative e quelle fedeli a Machar, rimosso dalla carica di
vice-presidente nel mese di luglio dopo aver dichiarato di volere
sfidare Kiir nelle elezioni previste per il 2015. Machar aveva chiesto
al presidente di farsi da parte dopo averlo accusato di avere violato
ripetutamente la Costituzione, mentre Kiir, a sua volta, aveva subito
accusato Machar di volere tentare un colpo di stato ai suoi danni.
Le
ragioni politiche del conflitto si sono ben presto intrecciate alle
tensioni settarie, con l’etnia Dinca - la più numerosa in Sud Sudan e
alla quale appartiene il presidente - opposta a quella Nuer dell’ex
vice-presidente Machar.
L’appoggio dell’Occidente (e degli Stati
Uniti in particolare) continua ad essere garantito al governo di Salva
Kiir, il cui Movimento Sudanese di Liberazione Nazionale al potere fin
dall’indipendenza dal Sudan nel 2011 ha fatto però ben poco per
alleviare la povertà e porre un freno alla corruzione dilagante nel
paese.
Le
divisioni tra Kiir e Machar risalgono a ben prima dell’indipendenza e
la minaccia di quest’ultimo alla leadership del presidente aveva spinto
il primo non solo a sollevare il suo vice dall’incarico ma anche a
constringere al ritiro un centinaio di alti ufficiali per installare
forze più fedeli ai vertici dell’esercito.
Le tendenze sempre più autoritarie di Kiir hanno poi contribuito alla
formazione di un esercito parallelo vicino a Machar che negli ultimi
giorni ha fatto segnare qualche importante successo militare, come la
cacciata delle forze regolari in molte località negli stati
nord-orientali di Jonglei, Unità e Alto Nilo.
Al di là dei
proclami umanitari di questi giorni e degli scrupoli democratici
ufficiali, l’interesse dei governi occidentali nel Sudan del Sud ha a
che fare con importanti questioni strategiche legate a questo paese e,
più in generale, all’intero continente africano.
Gli Stati Uniti
sono stati i principali promotori degli accordi di pace che misero fine
al conflitto sudanese, nel quale morirono più di due milioni di persone,
portando nel 2011 all’indipendenza delle regioni meridionali da
Khartoum. Alla base dell’appoggio di Washington all’indipendenza del Sud
Sudan c’era soprattutto il desiderio di creare una nuova entità statale
ricca di risorse del sottosuolo meglio disposta verso l’Occidente
rispetto al regime del presidente Omar al-Bashir.
Il petrolio
sudanese è infatti localizzato in gran parte nel sud e, prima della
separazione, più della metà del greggio estratto era destinato alla
Cina, il cui governo aveva instaurato legami politici ed economici
estremamente solidi con Khartoum.
Fino ad ora, tuttavia, la
penetrazione occidentale in Sud Sudan è stata inferiore alle
aspettative. La nuova classe dirigente - e, in particolare, proprio le
fazioni facenti capo al vice-presidente Machar - è tornata a rivolgersi a
Pechino per investimenti e aiuti finanziari destinati a creare
infrastrutture estremamente carenti. Inoltre, in assenza di rotte
alternative, il petrolio estratto nel Sud Sudan continua a passare
attraverso oleodotti situati nel Sudan per essere esportato.
La
nuova crisi in Africa, dunque, potrebbe essere sfruttata ancora una
volta dai governi occidentali per giustificare l’ennesimo intervento
“umanitario” in questo continente, dopo quelli degli ultimi anni che
hanno riguardato almeno Libia, Costa d’Avorio, Mali e Repubblica
Centrafricana.
Tutti questi interventi hanno seguito la creazione
nel 2007 del Comando militare Africano statunitense (AFRICOM), vero e
proprio strumento di Washington nella corsa alle risorse del continente e
alla lotta contro la crescente influenza cinese nell’ultimo decennio.
Nel
caso del Sud Sudan, infine, la crisi a cui il mondo sta assistendo in
questi giorni conferma quali siano le conseguenze disastrose delle
macchinazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati, ai quali va
attribuita gran parte della responsabilità per le sofferenze patite
dalla popolazione e per il sostanziale fallimento dell’esperimento di
indipendenza di questo poverissimo paese nel cuore dell’Africa.
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