Gli analisti della difesa americana seguono con preoccupazione l’escalation delle manovre dissuasive nucleari in Cina e i balzi in avanti compiuti di pari passo dall’Esercito popolare di liberazione nel settore delle ricerche spaziali. Sfruttando la dualità di questi due ambiti, tra loro connessi, i cinesi rafforzano l’importanza, la portata e l’efficienza del loro arsenale, col rischio di mettere a repentaglio gli equilibri nucleari che sono prevalsi finora.
di Olivier Zajec*
Pechino non possiede una statua del senatore americano anticomunista Joseph McCarthy. Vi è una certa ingratitudine in tutto questo, se si pensa che McCarthy fu il padre naturale del programma nucleare cinese. Si tratta di una storia per lo meno sorprendente: nell’immediato dopoguerra, un giovane ingegnere emigrato da Hangzhu, Qian Xuesen, lavora a contratto con il Pentagono al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena. Le sue intuizioni pionieristriche nel campo spaziale e balistico piacciono molto all’US Air Force. L’Army si fida di lui al punto di mandarlo in Germania per incontrare Werner von Braun, il cervello del programma balistico tedesco. Ma il maccartismo avrebbe fatto fallire questa brillante carriera: accusato di comunismo nel 1949, con obbligo di residenza, Qian è brutalmente espulso e rispedito nella Cina maoista nel 1955. Nonostante le dichiarazioni del vicesegretario alla marina, Daniel Kimball, il quale afferma che questo «genio» diplomato del Massachusetts Institute of Technology (Mit) vale «da solo da tre a cinque divisioni», e che «preferirebbe saperlo morto piuttosto che esiliato» (1), non c’è nulla da fare. Al culmine della caccia alle streghe che imperversa all’epoca, queste proteste non cambiano nulla. Il resto va da sé: ricevuto da Mao Zedong, Qian presta fedeltà al regime e inventa, dal nulla, il primo programma di missili balistici cinesi. Nel 1966, a due anni dalla prima esplosione atomica del 1964, l’ingegnere prodigio dirige il primo lancio di un missile nucleare nel deserto dello Xinjiang. Ed è di nuovo a lui che si dovrà il lancio riuscito, il 24 aprile 1970, del primo satellite cinese, il Cong Fang Hong (Dfh-1) – che trasmetterà senza sosta l’inno patriottico L’Oriente è rosso durante i ventisei giorni della messa in orbita. Mandato in pensione nel 1991, deceduto nel 2009, carico di riconoscimenti, Qian da solo simboleggia il fitto intreccio, fin dalle origini, del programma nucleare e di quello spaziale della Repubblica popolare cinese. Dalla prima deflagrazione nucleare dell’ottobre 1964 alla giornata gloriosa del 14 ottobre 2003 – quando il luogotenente colonnello Yang Liwei, a bordo della navicella Shenzhu, fece della Cina la terza nazione della storia che riuscì a effettuare con successo un volo spaziale con uomini a bordo –, Pechino ha moltiplicato i collegamenti tra questi due settori nei quali individua una promessa costante di ottimizzazione tecnologica, di bilancio, e strategica. Nonostante la creazione, negli anni novanta, dell’Agenzia nazionale di amministrazione spaziale (Anas), e la definizione di progetti di commercializzazione delle messe in orbita, i militari dell’Esercito popolare di liberazione (Apl) conservano più che mai un loro ruolo nei grandi assi spaziali della nazione. Questo effetto di leva del triangolo nucleare-spaziale-balistico non è una specificità cinese: è ben noto, per lo meno tra gli ingegneri del ramo, in particolare negli Stati uniti e in Francia. Tuttavia la Cina detiene la particolarità di aver assai presto proposto la sua dottrina nucleare del «non utilizzo per primi», associando a questa posizione di principio l’impegno solenne di non ricorrere mai al suo arsenale militare contro una nazione non nucleare. Così come, nel campo spaziale, la Cina si è prestissimo opposta a qualsiasi militarizzazione. A tale opzione difensiva integrale si aggiungono le sue scarse possibilità difensive e la modernità rimasta a lungo incerta dei suoi vettori (bombardieri, missili e sottomarini potenzialmente portatori di testate nuclei). Queste due caratteristiche fanno della Cina il membro più discreto del club internazionale degli Stati che sono ad un tempo potenze spaziali e detentori di armi nucleari (Edan): Francia, Stati Uniti, Regno Unito, Russia e Cina, cui si può oggi aggiungere l’India. Discrezione? Almeno finora: la volontà cinese di passare inosservata è ancora sostenibile nel momento in cui la crescita economica della Cina stimola il rafforzamento della sua forza politica e militare, come dimostra la pubblicazione del suo ultimo Libro bianco della difesa, il 16 aprile 2013? I parametri della sua equazione nucleare, rimasti a lungo bloccati, appaiono ormai modificati. Gli americani per primi hanno mostrato di esserne preoccupati. «Sappiamo veramente quanti sono i missili cinesi oggi?» Nel porre questa domanda, nel 2011, l’americano Richard Fischer, sentinella attenta e un po’ ossessionata dell’International Assessment and Strategy Center, sa perfettamente che farà centro al Pentagono e al Congresso (2). Vero è che la valutazione dell’arsenale cinese rimane generalmente nel vago, perché la Cina resta oggi l’unico paese del gruppo dei P5 (3) a non dichiarare il numero di armi nucleari in suo possesso. Per lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), il totale ammontava nel 2008 a 186 testate nucleari operative dispiegate. L’International Panel on Fissile Material (Ipfm) (4) parla di qualcosa come 240. Se si paragonano queste stime alle migliaia di unità in mano alla coppia Mosca-Washington, la preoccupazione febbrile degli americani sembra eccessiva. Nel maggio 2010, gli Stati uniti hanno ufficialmente dichiarato di detenere 5.000 testate nucleari, sia tattiche, strategiche o non dispiegate. Di questo totale, 1.700 sono posizionate sul territorio e operative su missili Icbm, sottomarini lanciatori di ordigni (Slbm) o bombardieri strategici (5). Tuttavia, nel 2009, un rapporto dell’università americana di Georgetown ha improvvisamente messo in crisi il piccolo mondo degli specialisti del nucleare cinese (6). Per tre anni sotto la direzione del professore Philip Karber, ex dipendente del Pentagono, un gruppo di studenti ha compilato nuovi dati, i cui esiti hanno lasciato esterrefatti gli esperti: in realtà, la Cina disporrebbe di… 3.000 testate nucleari! Il rapporto «svela» inoltre l’esistenza di una rete di gallerie lunga 5.000 chilometri che servirebbe al trasporto e al deposito di armi nucleari e unità specializzate. Misteriosa quanto segreta la «Grande Muraglia sotterranea» stimola l’immaginazione dei giornalisti e diventa immediatamente il pendant nucleare simbolico della «collana di perle» delle basi navali istallate da Pechino nelle acque asiatiche (7). Per reazione, i fautori americani del disarmo nucleare come Hans Kristensen, della Federation of American Scientists, accusano il Pentagono di aver teleguidato questo studio tramite Karber, il quale, alla stregua di Fischer o del cronista William Gertz, è una figura di primo piano tra i denunciatori ossessivi del «pericolo» cinese. I militari smentiscono (8). Il caso ritorna alla ribalta della scena politica. Il 14 ottobre 2011, il rappresentante repubblicano Michael Turner sventola davanti al Congresso l’esistenza di questo labirinto sotterrano «ignoto» e denuncia: «Nel momento stesso in cui ci sforziamo di essere trasparenti sul nucleare, la Cina rende ancora più opaco il suo sistema». «Scoprendo» il rapporto di Georgetown, la stampa europea presenta questa «allucinante rete di gallerie» come fosse una sorpresa (9). I giornali indiani approvano in coro. Nei primi giorni del gennaio 2013, sollecitato da ogni parte, alla fine Obama chiede al Pentagono un rapporto su tale argomento, per il prossimo 15 agosto. In contrasto con le dichiarazione estremistiche del dibattito politico americano, e con l’atteggiamento pedissequo dei giornali europei, sembra tuttavia che la «Grande Muraglia sotterranea» non sia più, da vari anni, un segreto per nessuno. Fin dall’11 dicembre 2009, un quotidiano di Hongkong, TaKung Pao, forniva dati precisi su questo gigantesco cantiere che avrebbe mobilitato per dieci anni decine di migliaia di soldati cinesi. Il grande pubblico asiatico veniva a sapere che la seconda divisione di artiglieria dell’Apl, che segue le forze nucleari strategiche, ha deciso nel 1995 di sotterrare più profondamente i suoi vettori balistici nucleari, in modo da renderli meno vulnerabili in caso di un attacco a sorpresa di distruzione «per primi». Una rete di gallerie modernizzate correrebbe ormai sotto i contrafforti dei monti nella regione di Hebei, al nord del paese, a diverse centinaia di metri di profondità (10), in un paesaggio di canyon e di scogliere a picco, particolarmente appropriate per l’istallazione di un sistema di risposta nucleare reso sicuro dal contesto geologico. Si rileva soprattutto che, originariamente, la «rivelazione» si deve alla stessa televisione cinese di Stato Cctv, la quale, con un documentario messo in onda il 24 marzo 2008, ha sobriamente commentato la definizione di questo programma di gallerie. Se si tiene conto del rigido controllo esercitato dallo Stato sui media, questo annuncio, correttamente registrato dalle amministrazioni militari indiana, americana ed europea, costituisce un segnale alquanto ufficiale. Di più, per l’Apl, il fatto di scavare gallerie non è di per sé un fine bensì una delle modalità di tutela della sua «forza d’urto per secondo». Parallelamente, Pechino passa dai grossi missili fissi a propulsione liquida, vulnerabili a un primo urto di neutralizzazione, ai missili a propulsione solida, velocemente spostabili su postazioni di lancio mobili, come il DF-31A, con una portata di 11.000 chilometri. Mobili o sotterrati, i missili suolo-suolo restano l’unica componente della «triade nucleare» cinese (missilistica suolo-suolo, bombardieri aerei, sottomarini) veramente attendibile, almeno per ora. Ma la Cina sa di non potersi limitare a tutelare le proprie capacità d’urto «in qualità di secondo» se intende conservare un potenziale nucleare militare rispettato, volente o nolente, dall’America. Deve inoltre combattere in modo pro-attivo i progressi della difesa antimissilistica americana, che potrebbero neutralizzare la propria capacità teorica di replica. Per allentare questa nuova morsa, l’Apl punta da tempo su un campo di battaglia alternativo: lo spazio extra-atmosferico. Anche sforzandosi, non si troverà mai più un veterano delle Guardie Rosse che scandisca convinto: «Più sale il satellite, più scende la bandiera rossa!», come ai tempi della Rivoluzione culturale. Secondo l’ex capo di Stato maggiore dell’esercito e dell’aeronautica e oggi vicepresidente della potente Commissione militare centrale, il generale Xu Qiliag, «gli interessi nazionali cinesi sono in espansione, e il paese è entrato nell’era spaziale (11)». Sebbene ufficialmente contrario alla militarizzazione dello spazio, Pechino mostra apertamente di volervi contestare l’egemonia americana. Compreso in caso di conflitto dove, tenuto conto dello spazio-dipendenza sempre più affermato degli eserciti moderni, il fatto di chiudere all’avversario l’accesso allo spazio, costituirà un obiettivo prioritario. La Cina, che punta sul fatto che solo tra pari è possibile trattare, si è convinta, seguendo l’esempio della Russia, che soltanto progressi significativi e indipendenti le avrebbero consentito di frenare le ambizioni di «space superiority» del Pentagono. Essi potrebbero costringere gli Stati Uniti a sottoscrivere un impegno di neutralizzazione militare dello spazio che verrebbe a colmare le lacune del Trattato sullo spazio extra-atmosferico del 1967. Nel 2001, un rapporto americano pubblicato dalla Space Commission (o Commissione Rumsfeld) sfruttava i molti difetti di questo trattato per concludere che nulla vietava «di posizionare o di utilizzare armi nello spazio», né di «far uso della forza dallo spazio verso la Terra», o di «condurre operazioni militari all’interno e attraverso lo spazio» (12). Esclusi dalla stazione spaziale internazionale dalla National Aeronautics and Space Administration (Nasa), i cinesi costruiscono una loro stazione che, battezzata Tiangong e aperta agli scienziati di tutte le nazioni, sarà pronta nel 2020. Essi studiano un lanciatore di centotrenta tonnellate e annunciano una missione sulla luna per il 2025, mentre sognano di sorpassare gli americani mandando una navicella abitata su Marte dopo il 2030. La seconda generazione della loro rete satellitare Beidu-Compass («Bussola») conterà tra breve trentacinque unità e offrirà gli stessi servizi di geolocalizzazione del Gps, ivi compresa una modalità militare. Ma gli effetti collaterali di tale strategia forse sono andati oltre le intenzioni dei suoi promotori. Distruggendo un vecchio satellite meteo Fy-1C, nel gennaio 2007, con l’aiuto di un test antisatellite Sc.19, per dimostrare la propria capacità di colpire nello spazio, la Cina si è esposta alle critiche. Gli Stati Uniti, appoggiati da numerose nazioni, hanno immediatamente fustigato il suo comportamento definendolo da «delinquente spaziale», denunciando il pericolo dovuto ai frammenti del tiro prodottosi nell’intervento e la contraddizione con la sua virtuosa posizione in ambito politico-spaziale. Nel gennaio 2011, nella più recente versione della Strategia nazionale di sicurezza spaziale, Washington avverte: «Gli Stati Uniti conservano il diritto e le capacità di rispondere in legittima difesa nello spazio nel caso dovesse fallire la dissuasione» (13). Sul piano della teoria strategica, l’American Everett Dolman afferma che «la futura guerra con la Cina riguarderà la battaglia per il controllo dello spazio extra-atmosferico» (14). Dietro le quinte, la questione nucleare: i satelliti americani di allarme precoce, usati nel quadro della individuazione di lanci di missili balistici, diventano ormai un eventuale bersaglio delle capacità cinesi. Ma, senza questi satelliti, l’organizzazione delle forze e del commando nucleare strategico americano è globalmente messo in difficoltà. A tali angosce si aggiunge, per gli americani, l’acutissima impressione di un futuro declassamento tecnologico. Chi si ricorda ancora che i razzi comunisti «Lunga Marcia» hanno lanciato una ventina di satelliti commerciali prima che, negli anni novanta, Washington imponesse l’embargo sulle vendite di componenti satellitari a Pechino? La Nasa lasciava fare, continuando a guardare la Cina dall’alto. L’orologio atomico è andato avanti. Sebbene rimanga enorme il divario potenziale con gli Stati Uniti, un recupero esponenziale è stato avviato. Preoccupato, un ingegnere americano del Mit ha studiato un modello che riproduce le condizioni di una guerra spaziale tra i due paesi… fino a concludere, ormai tranquillizzato, che i cinesi la perderebbero sicuramente (15). Ciononostante, mentre il Libro bianco cinese sullo spazio del 2011 cita soltanto cinque «assi maggiori», tutti civili (sviluppo scientifico e pacifico, innovazione, autonomia e apertura all’internazionale), è giocoforza constatare che, quello stesso anno, su diciannove lanci cinesi, diciotto sono stati fatti a vantaggio della difesa. Nel 2012, una trentina di satelliti di tutti i tipi sono stati messi in orbita, tra cui alcuni miniaturizzati: telecomunicazioni (Zhongxin 10), navigazione, sorveglianza, riconoscimento, data relay satellite (Tianlian 1). È allo studio un programma di satelliti di allerta mentre un nuovo centro di lancio spaziale nasce a Wenchang, nell’isola Hainan. Nel frattempo, il programma lunare americano Constellation è stato cancellato da Obama nel febbraio 2010. Secondo Gregory Kulacki, dell’Union of Concerned Scientist, gli americani dovrebbero rinunciare «alla vecchia idea che [in materia spaziale], i cinesi avrebbero bisogno di noi più di quanto noi abbiamo bisogno di loro» (16). L’agitazione febbrile e antica di alcuni giornalisti americani di fronte alla eventualità dell’accresciuta potenza di un «competitore alla pari» di classe mondiale, non deve nascondere che i progressi spazio-nucleari cinesi sollevano oggettivamente un certo numero di interrogativi. Tutti gli osservatori concordano sul fatto che la Cina è l’unico membro del P5 ad aumentare oggi il numero delle sue testate. Ma, con esattezza, in quali proporzioni? La battaglia delle cifre infuria e alcuni esperti parlano di un massimo di 1.800 testate nucleari operative. Come ammettono persino i militanti dell’Arms Control, quello che conta non è tanto chiedersi se la Cina stia modernizzando il suo arsenale – ciò che sta facendo – quanto non disinformare circa il ritmo di questa modernizzazione. Resta il fatto che, di fronte alle ambizioni nucleari cinesi, cambierà l’equilibrio strategico all’interno del P5. Il Regno Unito dichiara di detenere ormai meno di centosessanta testate operative (17). La Francia, che dopo la guerra fredda ha diminuito del 50% le sue testate, in vent’anni ha dimezzato il budget riservato alla dissuasione nucleare e detiene ora qualcosa come un centinaio di testate operative (18). In appena dieci anni, basandosi su quello che si potrebbe chiamare la «simbiosi spazio-nucleare», Pechino ha saltato la tappa della parità tecnologica con le due potenze nucleari europee – che poteva sembrare il suo obiettivo di medio termine – per collocarsi immediatamente in una posizione di dialogo asimmetrico con le potenzialità americane.
Alla fine, se si pensa alla perversa dialettica della guerra fredda, non si può scartare del tutto la possibilità che Washington e Pechino si trovino coinvolti in una corsa che ricorda quella che, a dispetto di ogni razionalità, spinse l’Urss e gli Stati Uniti ad accatastare testate nei silos per mantenere l’«equilibrio del terrore». Negli anni sessanta, Washington aveva conservato fino a 31.000 testate operative… Questa visione massimalista della dissuasione nucleare contrasta con il principio francese di stretta sufficienza (in fatto di nucleare, «si muore una volta sola»), un dogma di «insensatezza razionale» che alla fine ci si era convinti la Cina avesse implicitamente adottato dal 1964. Infatti, nel 2009, il presidente Hu Jintao dichiarava all’Onu che la Cina «reiterava solennemente il suo rigoroso impegno di una strategia nucleare difensiva» (19). Il 12 febbraio 2013, Obama ha annunciato una ulteriore riduzione dell’arsenale nucleare americano, che potrebbe passare da 1.700 testate operative a meno di 1.000 entro il 2020. Ma ci si chiede se questa linea minimale dell’assicurazione-vita strategica possa resistere se si affermassero i progressi cinesi. Forse vedremo apparire di nuovo gli sviluppi visionari dello stratega Hermann Kahn, fondatore nel 1961 dello Hudson Institute, che proclamava che lo stoccaggio di testate non era poi così sciocco, visto che una guerra nucleare poteva avere un «vincitore» (20)? Le reazioni preoccupate dei vicini della Cina avranno anch’esse un peso in questo gioco incrociato di impressioni. Dopo un breve preavviso, i giapponesi possono teoricamente trasformare il loro nuovo vettore spaziale a propulsione solida Epsilon, che deve fare il suo primo volo quest’anno, in missile balistico a lunga gittata. Il Vietnam non fa mistero delle proprie ambizioni spaziali. L’India va avanti con il suo programma sull’antisatellite (la distruzione di satelliti). La soluzione non può essere altro che politica. Riproporre lo scudo del Trattato sulla limitazione dei sistemi di missili antimissile (Trattato Abm) del 1972, denunciato unilateralmente dall’amministrazione Bush nel 2002? Questa scelta sarebbe ancora possibile, includendo la Cina nei colloqui. I negoziati sarebbero sicuramente difficili, ma il potere cinese sarebbe costretto a prendere in considerazione una proposta di questo tipo, a giudicare dalle sue molteplici dichiarazioni ufficiali sulle condizioni sine qua non di un disarmo nucleare mondiale (21). Nel frattempo, sulla carta, dai monti di Heibei alla cintura geostazionaria, una qualche logica di modernizzazione parallela degli arsenali nucleari e spaziali sembra tesa a sconvolgere stabilmente gli equilibri strategici nell’Asia orientale.
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