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21/01/2014

Fratellanza egiziana, l’anno logorante del potere

Errori, ingenuità, congiura e repressione. Tutti concetti che s’addicono ai mesi pericolosamente vissuti dalla Fratellanza Musulmana d’Egitto durante la guida d’un Paese che gli si è rivoltato contro. La vulgata diffusa sul governo dell’Islam politico dai media mainstream è ricca anche di notizie molto imprecise, non sempre in buona fede.

Economia allo sbando - Un’economia bloccata da trentasei mesi di rivolta e dall’uso che il capitalismo globale ha fatto della Primavera egiziana è una precondizione che nessuna analisi a posteriori può tralasciare. Nel 2011 la voce finanziaria della nazione contava 36 miliardi di dollari, crollati a 15 miliardi nel giugno 2013. Prendiamo alcuni dati dal lavoro documentario di Daniela Pioppi e Maria Cristina Paciello, rispettivamente ricercatrice de “La Sapienza” di Roma e docente alla Cà Foscari di Venezia. La volatilizzazione di capitali esteri ha contribuito all’aumento della disoccupazione, all’incremento dell’inflazione e alle manovre sul rialzo del prezzo delle derrate alimentari. L’antico surplace attorno al quale s’era retto il regime di Mubarak nel non introdurre né sostanziali riforme e neppure garanzie per un’equità sociale è stato ereditato sia dal governo provvisorio dello Scaf (Consiglio Supremo delle Forze Armate) sia dall’esecutivo Qandil. Quest’ultimo, dall’estate 2012, ha iniziato a porsi il problema dell’aggravio dei debiti energetici scaturito dall’impasse dei prestiti.

Aiuti interessati delle petromonarchie - La questione energetica è stata un pesante circolo vizioso su cui si è giocato un aspetto della partita politica interna. La monarchia saudita di concerto con gli Emirati Arabi Uniti e Kuwait, che dal golpe bianco del luglio 2013 stanno elargendo tranche dei 12 miliardi di dollari promessi, hanno a lungo usato la forza di tale prestito per direzionare la situazione interna egiziana. Che nel settembre-ottobre 2012 poneva problemi sul fronte energetico per continui black-out, carenze di benzina con estenuanti code ai distributori,  episodi d’imboscamento di carburante da parte di compagnìe di distribuzione. L’Egyptian General Petroleum Corporation, che registrava una flessione nelle esportazioni s’è infilata in una sorta di gara con le multinazionali del petrolio (Bp, Eni, Dana Gas) nell’acquisto di idrocarburi a prezzi di mercato aumentando ancor più il debito energetico nazionale (6,2 miliardi di dollari). La citata manovra di Qandil, volta a contenere questo buco nero tramite la sospensione dei sussidi per il carburante, è diventata altamente antipopolare, ma ha seguìto un percorso già avviato dagli ultimi giorni di governo della giunta Tantawi (luglio 2012) prima del passaggio di testimone.

Ingenuità amministrative - E’ stato, comunque, il premier islamico a tirarsi dietro l’ira della gente sino a giungere a ribellioni, come quella dei pescatori di Port Said e all’autogestione locale, nelle prime settimane del 2013. Nel suo ferreo credo burocratico Qandil procedeva guardando ai bilanci d’uscita presentati dal ministro tecnico delle finanze. Ne scaturì un ulteriore autogoal: la chiusura degli esercizi pubblici alle ore 22 per risparmiare energia elettrica che gli fece piovere addosso la rabbia di avventori e commercianti. Se a ciò si somma la linea d’una maggiore tassazione che dai generi voluttuari (sigarette, alcolici) si rivolse anche a prodotti agricoli (pesticidi, fertilizzanti), il rigetto della figura del premier nell’immaginario popolare raggiunge l’apice. Ben più inquietante era stata l’ingenuità che ha caratterizzato il procedere del braccio politico della Confraternita, il Partito della Libertà e Giustizia dalla sua nascita (21 febbraio 2011) ai mesi in cui, stravinte le elezioni col 37,5% dei consensi, rimise in discussione l’iniziale disimpegno per la presidenza della Repubblica. Una volta ottenuto anche quel prestigioso traguardo il Fjp si è barcamenato in tentativi di dialogo con gli avversari per restarne paradossalmente sequestrato.

Dilettantismo, ambiguità, bugie mediatiche - All’avvio della sua presidenza Mursi non si mostrava come un accaparratore di cariche. In più occasioni, durante la controversa formazione dell’Assemblea degli esperti che doveva riformulare la Carta Costituzionale ha invitato i nomi noti della politica laica (El-Baradei, Moussa, Sabbahi e i loro entourage) a contribuire a un percorso unificante, ottenendone il rifiuto. Mursi ha ricalcato l’ambiguità con cui movimento e partito islamici s’erano posizionati verso i feloul dell’antico regime durante tutti i mesi del 2011, rafforzando questa tattica in base al prevalere delle posizioni conservatrici di Al-Shater e Badie sui riformisti Habibi e Abol Fotouh poi espulso. Per tenere fede a tali aperture l’esecutivo Qandil affidava un ristretto numero di dicasteri (cinque e oggettivamente minori) a politici della Fratellanza, tutti gli altri erano occupati da tecnocrati. I rimpasti di gennaio e maggio 2013 portarono a 10 su 35 i ministri della Confraternita, come sempre 10 su 27 furono i governatori inseriti nell'ammistrazione locale. Né risulta essersi verificato un significativo accaparramento di posti di comando nella burocrazia e tantomeno nella giustizia, anzi. Lo spoil-system pro Fratellanza è una delle notizie senza fondamento.

Balbettante gestione politica - Certamente è risultato controproducente avere lasciato in mano ai tecnocrati (di cui occorre non dimenticare una preponderante formazione in epoca mubarakiana) uno dei poteri forti dell’Egitto in divisa: il ministero dell’Interno e la gestione dell’Intelligence. Il cambio dei vertici di quest’ultimo apparato, avvenuto per decreto presidenziale il 12 agosto 2012 (e definito dagli avversari il primo colpo di mano di Mursi per distinguerlo dal decreto costituzionale di novembre 2012) è stata una conseguenza al “pensionamento” di Tantawi. Da lì seguiva l’accordo coi generali “possibilisti” di cui Al-Sisi è l’esponente di punta. Per quell’apertura il generale fu bollato dai tradizionalisti vecchio stampo come islamista. Quest’abbraccio fatale, e quello dei prestiti promessi dalle monarchie islamiche del Golfo, risultano  due errori chiave del presidente. Il quale se avesse potuto orientare altrove la scelta, non poteva certo intervenire sull’essenza del pensiero di soldati e poliziotti, né di chi opera in borghese come agente segreto. Tutti da tre generazioni fedeli a quel tipo di Egitto che non ammette trasformazioni, per non rischiare di perdere salario e privilegi soggetti e di rango.

Regime securitario mai scomparso - La longa manus para poliziesca, raccolta nell’ex Partito Nazionale Democratico di Mubarak, sciolto di fatto ma presente trasversalmente con gli uomini e la filiera di finanziatori (i tycoon securitari come il filo occidentale Shafiq, i magnati amici del “figliol prodigo” Gamal per l’acciaio Ezz, i trasporti Mansour, il turismo Garraneh) costituisce il fantasma del palcoscenico politico egiziano. La sua linea è stata per decenni la diffusione del terrore sino agli ultimi passi della coppia Mubarak-Al-Hadly, che pure non aveva fermato la “rivoluzione del 25 gennaio”. Il programma ha proseguito la corsa coi massacri anti copti del Maspero nell’ottobre 2011, quelli punitivi della tifoseria cairota allo Stadio di Port Said nel febbraio 2012, sino ai giorni della mancata difesa delle sedi della Brotherhood assalite da avversari e provocatori prezzolati e addirittura del Palazzo presidenziale di Itthiadeyah nel dicembre 2012. Quindi gli spargimenti di sangue sono stati direzionati sui militanti della Fratellanza nel luglio-agosto del 2013 e sui manifestanti del movimento Rabaa, fra cui ci sono anche oppositori laici allo stato di polizia. Gli uomini in nero e degli apparati del Mukhabarat hanno proseguito ad agire indisturbati rispondendo a un potere interno che era tutto fuorché islamico.

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