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04/02/2014

Cosa vuol dire occupare una casa

Una pratica che ha decenni di vita ma che è esplosa a livello mediatico dopo il 19 ottobre, e che ha davanti grosse sfide.
Un cambio di analisi e strategia

I movimenti di lotta per la casa in questi ultimi anni stanno facendo un salto di qualità politico. Dalla specifica battaglia sulla casa si è passati ad una riflessione più generale sull’abitare, intuendo che la questione della casa non è slegata dalla precarietà e che si può riassumere nell’assunto che chi affitta una casa mette quasi l’intero salario nell’alloggio mentre chi ha un lavoro precario non riesce ad affittarne una. Senza contare chi ha perso il lavoro e non riesce più a pagare il mutuo e vede la propria casa finire nelle mani delle banche dopo averla pagata per anni.

Questo tipo di ragionamento non riguarda più solo quella parte di popolazione che nell’immaginario popolare “non ce l’ha fatta”, “ha sbagliato”, “ha avuto sfortuna” o “se l’è cercata”. Oggi questa situazione è strutturale e colpisce quotidianamente persone che vedono le proprie vite crollare come in un domino composto da lavoro, reddito e casa.

Per dirla in termini più politici, la questione abitativa oggi non colpisce solo quelle persone considerate “marginali”, ma una larghissima fascia di persone, per lo più monoreddito, che una volta perso il lavoro si ritrovano in una situazione di morosità incolpevole. Di fronte a questa emergenza nazionale i movimenti di lotta per la casa italiani, che in alcune città hanno una storia quasi trentennale, hanno dovuto cambiare analisi e strategie.

Se a Roma, ad esempio, negli anni ‘90 venivano occupate principalmente scuole, svuotate per effetto del calo delle natalità, a partire dagli anni 2000 i movimenti sono tornati ad occupare stabili privati, anche perché venivano assegnate sempre meno case popolari facendo esplodere la questione abitativa. Proprio in funzione di questa pressoché totale assenza di politiche di edilizia residenziale pubblica, non è difficile, anche in sedi istituzionali, sentir ripetere il refrain che negli ultimi 10 anni i movimenti di lotta per la casa hanno assegnato più alloggi delle amministrazioni.

Occupare non è una scelta facile

Dopo questa introduzione qualcuno potrebbe credere che i movimenti di lotta per la casa siano come agenzie immobiliari a costo zero e che tutto sia rose e fiori. Non è così. Occupare non è mai una scelta facile perché porta con sé un ulteriore senso di precarietà. Chi occupa è spesso soggetto a sgombero e a denuncia, deve passare settimane a rendere agibili e abitabili gli spazi occupati, deve affrontare, spesso, problemi legati alla convivenza con altre famiglie. Insomma, occupare è una scelta difficile, spesso nemmeno mossa da convinzione ma dalla disperazione di ritrovarsi in mezzo a una strada. Il grande lavoro che fanno i movimenti di lotta per la casa non è solo quello di individuare i luoghi da occupare, conoscerne stato di abbandono, progetti e destinazioni o denunciarne speculazioni, ma è anche quello di sostenere gli occupanti nella fase assembleare e di gestione umana e politica delle occupazioni stesse.

I problemi, però, sono anche di tipo strutturale. I movimenti si sono sempre più dovuti interrogare sulla qualità dei posti occupati e quindi sul recupero. È una delle sfide più importanti del futuro e un esempio viene da Firenze. Nel luglio del 1990, con i mondiali di calcio, ci fu un’ondata repressiva e venne sgomberata l’occupazione simbolo di Via del Giglio, la prima sede del Movimento. La risposta allo sgombero fu un’altra occupazione: l’ex ospedale psichiatrico di Via Aldini. Lo stabile è ancora oggi in occupazione e dal 2002 la Regione Toscana ha finanziato, in collaborazione con gli abitanti, un progetto di autorecupero a fini abitativi. È solo un esempio di come si possa superare le difficoltà strutturali di un perenne regime di occupazione con edifici che spesso portano con sé una serie di pericoli, anche per la salute.

La composizione sociale delle occupazioni

Fino agli anni ’80 gli occupanti erano soprattutto senza casa locali, sfrattati o persone con situazioni personali particolari oppure, nelle grandi metropoli, immigrati meridionali. Oggi questa situazione è cambiata e si è allargata in termini etnici agli immigrati comunitari ed extracomunitari ed in termini sociali ad una fascia di cosiddetti “morosi incolpevoli”, cioè nuclei familiari o singoli monoreddito colpiti dalla perdita del lavoro o disoccupati e precari di lungo corso. Nelle grandi città come Roma la componente immigrata è quella dominante, anche se dopo la crisi del 2008 si sta bilanciando con altre tipologie di occupanti. Naturalmente sono moltissimi anche gli immigrati che hanno perso il lavoro e si trovano in situazione di morosità incolpevole, ma nelle grandi città c’è da gestire parallelamente anche tutta la questione riguardante rifugiati e richiedenti asilo. Diversa la situazione nelle città provinciali in fase di deindustrializzazione, Livorno ne è un esempio, in cui la composizione sociale delle occupazioni è legata soprattutto a nuclei familiari o singoli nati in città o in ogni caso residenti da anni sul territorio. Un chiaro esempio del domino che colpisce lavoro, reddito e casa. In tutta Italia, comunque, questo cambiamento di figure all’interno delle occupazioni ha prodotto comunità che si sono interrogate sulla convivenza e sulla multiculturalità. È accaduto che molti migranti si siano trovati a difendere dallo sfratto italiani, che fino ad allora pensavano che gli immigrati fossero coloro che sottraggono casa e lavoro agli stessi italiani. Spesso le pratiche e l’agire riescono a superare pregiudizi e leggende metropolitane e guardare ai veri colpevoli.

I responsabili
Ma come siamo arrivati a questo punto? Come è possibile che in uno Stato dove c’era una legge sull’equo canone, dove ci sono stati grandi piani di edilizia residenziale pubblica e dove ci sono decine di migliaia di case sfitte, ci si ritrovi con migliaia di persone (solo a Roma si parla di 10.000 persone in stato di occupazione) in mezzo ad una strada e costrette ad occupare? La prima risposta è che ciò è possibile solo laddove il pensiero unico del mercato ha conquistato tutti i gangli del potere e i cervelli di un popolo. Se un bene primario ed essenziale come la casa viene trattato come un qualunque bene di mercato, un paio di jeans o un paio di scarpe, è logico che il risultato sia questo. Anzi, proprio perché bene essenziale, il prezzo delle case è andato sempre più su, visto che ognuno è disposto a mettere in gioco una porzione sempre più grande del proprio reddito per acquistarlo. Ma ora l’equilibrio, anche quello di mercato, è saltato, e dove la soluzione non c’è, ognuno se la cerca. È l’istinto di sopravvivenza.

Ci sono, però, anche altri fattori che hanno contribuito a creare questa situazione. I movimenti hanno così cominciato ad occuparsi anche di questi altri aspetti, come quello della cementificazione. Ritengono che non bisogna usare altro cemento e consumare altro suolo, ma bisogna utilizzare ciò che esiste: appartamenti vuoti, una cifra che varia tra centocinquantamila e duecentosettantamila stanze solo a Roma, in un’ottica che vada a colpire la rendita. Sempre a Roma, ad esempio, con gli anni 2000 il gruppo Action ha aperto una partita rispetto alla grande proprietà privata. I Blocchi Precari Metropolitani invece, hanno cercato di focalizzarsi anche sugli appartamenti, provando a rompere il fatto che le occupazioni debbano essere eseguite solo in stabili vuoti, andando invece a confliggere con la rendita, quella rendita dei grandi gruppi immobiliari che fanno della speculazione un business. A Livorno la pratica dell’occupazione di alloggi è sempre esistita ma spesso in forma individuale e non rivendicativa. In passato il movimento antagonista cittadino aveva cercato di iniziare un percorso di lotta per la casa che però si è fermato ad alcune singole occupazioni che non hanno mai avuto una forma strutturata. Solo negli ultimi anni, con l’esplosione della crisi e il lavoro del Comitato Casa della Ex Caserma Occupata, la pratica delle occupazioni ha avuto un rilievo politico e un impatto sulla città. Le occupazioni riguardano al momento un’ottantina di nuclei familiari e immobili di proprietà comunale o della azienda sanitaria locale.

La questione repressiva

Quella della repressione è una questione da non sottovalutare. Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha ipotizzato che in tutta Italia si possa scatenare un’ondata repressiva contro i movimenti di lotta per la casa con tanto di reato associativo. Un primo assaggio si è avuto anche a Livorno, dove lo scorso 5 novembre 100 poliziotti e carabinieri hanno bloccato le vie limitrofe allo stabile della Ex Mutua Occupata ed hanno proceduto ad una perquisizione. Le famiglie occupanti sono state identificate ma a farne le spese in termini di denuncia sono stati coloro che, secondo la Procura, avrebbero aiutato le famiglie ad occupare. Lo stesso è accaduto qualche mese prima con l’occupazione della ex Circoscrizione 1. Questi compagni stanno accumulando denunce e rischiano di finire in galera per aver aiutato decine di famiglie a non finire in mezzo a una strada. E non vorremmo che questo fosse solo l’inizio. La città ha il dovere di rispondere, perché il diritto all’abitare ed a vivere in modo dignitoso è una questione che riguarda tutti.

Tratto da Senza Soste n. 87 (novembre-dicembre 2013)
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