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14/02/2014

Siria, lo stallo di Ginevra

di Michele Paris

Il secondo round dei colloqui sulla Siria ha preso il via questa settimana a Ginevra in un clima di persistente freddezza tra le due parti che si affrontano da ormai quasi tre anni in un sanguinoso conflitto nel paese mediorientale. Mentre lo sforzo diplomatico continua a far segnare ben pochi progressi a causa soprattutto della rigidità della posizione occidentale e dei “ribelli”, da Washington l’amministrazione Obama è tornata a minacciare l’uso della forza, sia pure in maniera velata, per sbloccare la crisi e forzare il cambio di regime a Damasco.

Dopo avere speso inutilmente la giornata di martedì alla ricerca di un punto di incontro tra il regime, che insiste nel mettere al centro della discussione la lotta al terrorismo in Siria, e i membri della cosiddetta Coalizione Nazionale, intenzionati ad avviare trattative su un governo di transizione senza il presidente Assad, mercoledì il rappresentante delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha fatto un nuovo tentativo con una seconda sessione congiunta.

Inoltre, lo stesso diplomatico algerino ha annunciato di volere anticipare a giovedì un vertice inizialmente previsto per il giorno successivo tra i delegati di Russia e Stati Uniti, nella speranza che i due governi che appoggiano le parti in lotta siano disposti ad esercitare pressioni su queste ultime per individuare quanto meno un punto di partenza per intavolare un qualche dialogo.

I problemi incontrati in queste ore sono dunque sostanzialmente identici a quelli emersi nella prima fase dei negoziati di “Ginevra II”, falliti anche nel raggiungimento dell’obiettivo minimo iniziale prefissato, vale a dire l’attuazione di tregue localizzate per consentire operazioni umanitarie nelle aree del paese sotto assedio.

La successiva decisione del governo siriano di permettere l’ingresso degli aiuti nella città di Homs, invece, ha avuto finora un parziale successo, con qualche centinaia di civili evacuati e altri ancora intrappolati dopo alcuni episodi di violenza che nei giorni scorsi avevano ostacolato le operazioni.

Le difficoltà trovate a Homs hanno subito provocato le accuse dei governi occidentali nei confronti del regime siriano, attaccato per avere impedito l’accesso di cibo e medicine destinati alla popolazione civile. Da qui, alcuni paesi hanno fatto circolare una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, teoricamente volta a favorire l’ingresso degli aiuti nella città della Siria occidentale.

Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha però bocciato la proposta, bollata come “inaccettabile” poiché contiene “un ultimatum al governo [di Assad]” per risolvere la crisi umanitaria in due settimane. In caso contrario, verrebbero “applicate sanzioni automatiche”. Per Lavrov, l’attenzione posta unicamente sul caso di Homs rivelerebbe un atteggiamento “unilaterale”, visto che sono i “gruppi di militanti [dell’opposizione] a rappresentare il principale impedimento alle operazioni umanitarie”, non solo in questa città ma anche in altre località della Siria.

La posizione dei governi occidentali ha trovato come al solito riscontro nei media ufficiali, impegnati ad evidenziare la sorte dei residenti rimasti a Homs e tralasciando quasi sempre il disastro umanitario provocato altrove dalle formazioni “ribelli”, soprattutto di matrice integralista, nonché le stragi commesse da queste ultime, come quella registrata lunedì nel villaggio a maggioranza alauita di Maan, nella provincia di Hama, dove sono stati massacrati almeno 20 civili che condividono la fede del presidente Assad.

La resistenza di Mosca a considerare una risoluzione “umanitaria” è stata criticata, tra gli altri, anche dal presidente francese, François Hollande, durante una conferenza stampa a Washington a fianco di Obama. Hollande ha simulato stupore di fronte alla mancanza di disponibilità della Russia a valutare la creazione di “corridoi umanitari”, utilizzati tradizionalmente dall’Occidente per giustificare interventi militari destinati a rovesciare regimi poco graditi.

Tra le questioni al centro dell’attenzione della visita del presidente transalpino negli Stati Uniti c’è stata appunto la Siria, di cui ha parlato anche l’inquilino della Casa Bianca. Nell’apparizione pubblica con Hollande, infatti, Obama ha riconosciuto le difficoltà dei negoziati nel giungere ad una soluzione pacifica del conflitto, sottolineando “l’enorme frustrazione” che circola a Washington per gli sviluppi della vicenda.

“Ogni giorno che passa”, ha spiegato il presidente americano, “un numero sempre maggiore di persone in Siria è esposto a sofferenze. Lo stato sta crollando e ciò è negativo per… la regione [mediorientale] e per la sicurezza globale”, dal momento che “ci sono estremisti che hanno occupato il vuoto creatosi in alcune aree del paese”, ed essi “possono rappresentare una minaccia  nel lungo periodo”.

Dopo questa analisi, e senza aggiungere che la situazione drammatica della Siria è stata causata in gran parte da una guerra per il rovesciamento del regime alimentata precisamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati, Obama ha affermato che “nessuno pensa al momento ad una soluzione militare”. Tuttavia, la sua amministrazione continua a valutare “qualsiasi strada possibile” e il presidente ha detto di volersi “riservare il diritto di decidere un’azione militare a difesa della sicurezza nazionale americana”.

Le parole pronunciate martedì da Obama appaiono estremamente rivelatrici dell’impazienza degli USA, intenzionati a procedere con la deposizione di Assad in qualsiasi modo: diplomaticamente, attraverso la conferenza di Ginevra, o, se necessario, con le armi.

Il pessimismo di Obama è inoltre singolare, visto che il prevedibile stallo di Ginevra è la conseguenza diretta del comportamento tenuto fin dall’inizio dagli stessi Stati Uniti e dai “ribelli” da loro appoggiati. Questi ultimi, infatti, hanno da subito insistito sull’esclusione da qualsiasi futuro governo in Siria della loro controparte nei negoziati, nonostante il regime negli ultimi mesi abbia fatto segnare e continui a far segnare sensibili progressi sul campo ai danni invece di un’opposizione impopolare e allo sbando o, comunque, dominata da gruppi jihadisti violenti.

L’amministrazione Obama, da parte sua, aveva anch’essa escluso da subito per bocca del segretario di Stato, John Kerry, qualsiasi ruolo per Assad nella nuova Siria, mentre proprio durante il primo round di discussioni Washington aveva provocatoriamente deciso la ripresa degli aiuti destinati ai “ribelli” dopo lo stop sul finire dello scorso anno a causa del prevalere delle formazioni estremiste.

Parallelamente alla motivazione “umanitaria”, gli USA e gli altri governi occidentali sono poi tornati ad utilizzare la carta delle armi chimiche, con la quale la scorsa estate si era sfiorata una nuova aggressione militare in Medio Oriente.

Dopo l’accordo mediato dalla Russia, Damasco aveva accettato di inviare all’estero e distruggere tutto il proprio arsenale in un periodo di tempo molto ristretto. Inizialmente, al regime di Assad era stata riconosciuta la propria totale collaborazione con l’agenzia deputata allo smantellamento delle armi chimiche - Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) - ma due scadenze non rispettate nelle scorse settimane hanno immediatamente scatenato una valanga di accuse.

Il governo siriano, il quale si è liberato di un terzo del proprio arsenale nella giornata di lunedì, ha comprensibilmente attribuito i ritardi alla situazione nel paese e al fatto che i convogli diretti verso la città portuale di Latakia devono attraversare aree controllate dai vari gruppi “ribelli” armati.

Dall’OPAC e dai governi occidentali, tuttavia, sono giunti solo avvertimenti a rispettare le scadenze, a conferma che la questione pressoché interamente fabbricata ad arte delle armi chimiche, assieme a quella “umanitaria”, continuerà a rappresentare il pretesto per un maggiore coinvolgimento nel conflitto a favore dell’opposizione se il regime non si piegherà in fretta alle richieste degli Stati Uniti e dei loro alleati.

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