22/09/2014
Renzi-Cgil: sempre i soliti, sempre più noiosi, sempre più pericolosi
Per chi è abituato a seguire la politica sindacale è difficile trattenere lo sbadiglio, anche nella consapevolezza della gravità della situazione, di fronte alle esternazioni del Presidente del Consiglio sull’articolo 18. Le frasi, sul presunto desiderio di tutela dei non garantiti da parte del governo, sono le stesse di D’Alema, segretario del Pds prima, Presidente del Consiglio poi, di un quindicennio fa. Di qui si capisce che tra il rottamatore e il rottamato, la differenza sta solo nel ruolo.
Poi c’è il comportamento della Cgil che, come al solito, fa capire che il problema non è smantellare i diritti ma il ruolo del sindacato, e dei suoi vertici, nello smantellamento. Quindici anni fa D’Alema aveva di fronte un principe della svendita dei diritti: Sergio Cofferati. Non seppe dirgli le parole giuste per convogliare a smantellamento. Eppure Cofferati, appena 5 anni prima aveva portato a compimento quella disgraziata riforma delle pensioni che, prima o poi, sarà ben maledetta dagli italiani. Oggi è diverso. Renzi ha di fronte Susanna Camusso, la regina delle svendite, non del mercatone ma dei diritti sindacali, ma sembra tornargli inutile. La segretaria della Cgil ha persino accorciato il rito della disponibilità sindacale alla trattativa che prelude allo smantellamento.
In passato la fase del confronto, anche serrato, doveva maturare, anche in piazza, prima di mettere governo e sindacati al tavolo della restrizione del salario e dei diritti. Oggi la Camusso, dopo un soporifero scambio di battute con Renzi, si è già detta disposta a discutere. La fase del conflitto che prelude all’accordo, antico rito sindacale che serviva per canalizzare e domare forze sociali realmente effervescenti, sembra oggi essersi ristretta ad uno scambio di tweet tra Presidenza del Consiglio e Cgil.
Gli scioperi, se avverranno, saranno così senza pathos, nella comune consapevolezza tra governo e Cgil, che si dovrà massacrare i lavoratori in nome di “impegni con l’Europa” di cui persino i massacratori hanno perso il senso. Eppure si ha l’impressione che alla fine entrambe le parti rimarranno insoddisfatte. Nonostante la rinnovata stagione di svendita dei diritti magari celebrata da Bonanni, consueto banchettatore sulle spoglie del reddito altrui, rimarrà comunque insoddisfatta la controparte sindacale. La stagione dell’estinzione del sindacalismo confederale, di questo passo, non sembra infatti lontana. Tra deroghe, eccezioni e blocchi, i contratti di categoria, pubblico impiego compreso, sembrano oggi solo racconti di un tempo lontano piuttosto che strumenti di garanzia per i diritti dei lavoratori.
Si intravede poi la crisi di un importante strumento di autoriproduzione del sindacalismo confederale, le dichiarazioni dei redditi low cost, grazie alla possibile riforma dei Caf. Siccome il lavoro precarizzato rappresenta l’80 per cento delle nuove assunzioni, e persino il consenso dei pensionati latita, non si capisce ormai su quali basi sociali e materiali (vedi deleghe) possa continuare a reggere il sindacato. Per tacere dell’assenza di Cgil-Cisl-Uil dalla miriade di nuovi lavori dove il sindacato non solo non c’è, ma neanche si sa che esiste. La stagione delle svendite autunno-inverno 2014-2015 sembra quindi essere, se non l’ultima, una delle ultime per incipiente esaurimento del materiale da vendere in magazzino. Questo è un problema per la Cgil: è infatti sempre più difficile svendere diritti per tenere in vita l’alto funzionariato sindacale come si è abitualmente fatto. Ma ci saranno difficoltà anche per il governo nonostante Renzi occupi i media (sembra troppo fine dire che è un problema di democrazia ma è così). Sarà un problema comunque vada, in ogni caso, infatti, proprio la famosa base elettorale del 41 per cento è destinata a restringersi. Si parla proprio del lavoro dipendente, quello che surrealmente si aspettava una rivalutazione del salario e dei diritti dal renzismo, il vero portatore di voti a seguito dei famosi e simbolici ottanta euro. Quel lavoro dipendente che sarà colpito in modo chirurgico dal gelataio lisergico-liberista di Palazzo Chigi.
Ma ciò che rende disperato il governo Renzi, ancora più delle mummie sindacali oggi a corto di ossigeno per le bende, è il "conto della serva" della situazione economico-finanziaria. La gabbia Bce-Fmi-Ue, che cerca di regolare le esigenze di un capitalismo europeo a moneta forte e salari deboli, non lascia scampo all’Italia. Forte avanzo primario di bilancio, quindi tagli alla spesa sociale, in caso di crisi di liquidità sui mercati (già le vendite Bot-Btp non sono andate benissimo e l’unione bancaria comporterà problemi al paese); attenzione al rischio bolla finanziaria e quindi massimo rispetto del fiscal compact sul debito pubblico; deflazione salariale per vendere merci italiane all’estero nonostante una moneta forte (l’Euro). Questi sono i dikat, in fondo quelli di sempre, che la governance economico-finanziaria dell’Europa, e non solo visto che c’è il Fmi di mezzo, ha dato al governo Renzi. Non solo le dichiarazioni di Draghi, o le raccomandazioni di Bruxelles a Padoan, ma anche il recente report del Fmi parlano chiaro. Quindi Renzi sta provando l’affondo all’articolo 18 per non farsi commissariare come se fosse un premier greco. Perché è vero che le raccomandazioni della governance sono sempre le solite, ma è anche vero, come è accaduto per Monti, che, visto il rallentamento dell'economia globale e il rischio bolle finanziarie, questa è stagione di pedanteria nell’esecuzione delle direttive non di libera interpretazione. Se poi questo avverrà tramite l’accordo con la Cgil, come è accaduto sostanzialmente con Monti (che si è ritrovato contro, non a caso, un pugno di scioperi indetti blandamente) lo si capirà nelle prossime settimane. Se avverrà sacrificando il rapporto Pd-sindacato, probabilmente nell’indifferenza dei molti e con il gossip dei media bisognosi di gonfiare le “imprese” di Renzi, si capirà abbastanza presto.
Quando cominciarono le grandi stagioni di svendite dei diritti sindacali, 30 anni fa con il decreto che raffreddava la scala mobile, la natura della sinistra istituzionale e sindacale era evidente. Presidiava la lenta dismissione dei diritti in attesa di una “ripresa” che non sarebbe mai arrivata. Oltre ad essere, dopo gli anni ‘70, una nuova destra che parla un linguaggio politicamente corretto, la sinistra istituzionale e sindacale manca infatti di comprensione dei processi di evoluzione del capitalismo globale dall’inizio degli anni ’80. Contribuendo così non solo al declino di una classe, ma di un intero paese. Come compenso però, per le fasi di dismissione, poteva progredire la carriera politica e sindacale di tutti i protagonisti di quelle dismissioni stesse. Dopo il raffreddamento della scala mobile si è quindi arrivati, negli anni ’90, alla sua abolizione. Poi si è finito di ingabbiare la struttura del salario, si sono tagliate le pensioni, si è introdotto il precariato di massa. E tutti i protagonisti di queste stagioni hanno esteso, fino all’inverosimile, i propri benefici di carriera. Quando si dice crescita delle reti di potere a detrimento della popolazione: qui un Robert Michels del XXI secolo ci scriverebbe fior di testi. Basti pensare a gente come Cesare Damiano, liquidatore della scala mobile nel ’92 e dei diritti dei lavoratori immolati nell’accordo di luglio ’93 come segretario Fiom, che secondo Repubblica o Sky sarebbe un "falco". Di quelli tesi a difendere un mondo di diritti, insomma. Damiano è invece diventato ministro proprio in virtù della sua fedeltà alla politica dei tagli di stipendio e di diritti. Ministro del Lavoro di un governo, il Prodi 2 o "governo di tutte le sinistre", che imboccò ciecamente la strada indicata dal Fmi, quella del disastro, giusto quando stava lievitando la crisi poi scoppiata coi subprime. Ecco chi è tutta quella generazione di “riformisti”. O lo stesso Bersani, responsabile del saccheggio liberista del paese tramite il governo Monti e l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione (un assurdo economico che ha liquefatto la Costituzione del ’48).
Lo scontro Renzi vs. Bersani o Damiano (o Cuperlo che li rappresenta) sull’articolo 18 non è quindi quello tra presunti innovatori e improvvisati garantisti come quello di 30 anni fa sul raffreddamento della scala mobile. Scontro che, per il futuro dell’allora sinistra istituzionale, un senso, seppure di destra, ce l’aveva. Oggi lo scontro reale è tra chi interpreta meglio le feroci direttive della governance continentale. O sul fatto se il sindacato possa essere giudicato o meno interprete di queste direttive (di destra, antisociali ed impoverenti). Per cui se i media in questi giorni appaiono ancora più surreali, riproducendo in modo soporifero gli stessi schemi di scontro simulato di 30 anni fa (riformisti vs. massimalisti, innovatori vs. conservatori) non ci si rende conto che la posta in gioco rende il tutto molto più pericoloso. Infatti la posta in gioco è assegnare il titolo di chi potrà arrogarsi il diritto di continuare ad infierire su questo paese. Sempre che, come dicono gli storici, Cleopatra non ci metta il naso. Ovvero che il paese si rivolti mettendo spalle al muro le destre di questo paese: Renzi e Cgil prima di tutte.
Redazione - 22 settembre 2014
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