Nell’edizione domenicale del Tirreno non possiamo non registrare uno sforzo, da parte di una testata che è comunque tra i principali agenti di impoverimento della politica sul territorio, di portare in primo piano la bella manifestazione cittadina del sabato. Insomma, nonostante il corteo non fosse organizzato dai loro riferimenti politici e sindacali, prima pagina e locandina sul corteo ci sono state. Registriamo il dato.
Anzi, per dimostrare che non siamo mai prevenuti affermiamo volentieri che l’ufficio stampa del potere, detto Tirreno, che trova oggi alla guida Omar Monastier, ha prodotto un servizio interessante. Si tratta dell’intervista fatta a chi ha partecipato al colloquio per l’assunzione a Burger King. Si trova uno spaccato della Livorno reale, con persone che oggi accetterebbero demansionamenti anche gravi per poter accedere di nuovo ad uno stipendio. Così come l’articolo sui redditi pensionistici in quanto vero perno del welfare livornese. Noi lo sosteniamo da anni ma il problema qui non è arrivare primi quanto far circolare consapevolezza.
Sicuramente il problema, quello del ritrarsi in modo quasi permanente, del lavoro dai nostri territori, non è di quelli che si liquidano facilmente e quindi bisogna scrivere per un pubblico che non ha ancora afferrato bene che la favola reaganiana non c’è. Ovvero quella favola che vuole, una volta liquidate le inefficienze del pubblico, innalzata la produttività e allargati i mercati, che ci sarà lavoro per tutti, assieme a opportunità di mobilità sociale. Ma per capire collettivamente che la favola reaganiana, oggi declinata nella subcultura renziana, non è a lieto fine bisogna che il problema comincino ad afferrarlo anche i giornalisti. E che comincino a smettere di fare gli uffici stampa di idee che vengono copiaincollate. Anche perché, non essendo previsto il lieto fine nella narrativa economica renziana (se non per il narratore e chi lo ha designato) persino i giornalisti più coperti potrebbero accorgersi di che razza di fenomeno stiamo parlando. Ed accorgersene dove fa più male: proprio là, dentro la carta di credito.
Veniamo quindi all’editoriale della domenica dedicato alla Toscana di Rossi. Monastier loda, tirando in ballo anche il Pci, la politica di Rossi sul modello dell’export toscano. Export più investimenti attirati dall’estero, più riconversione industriale con inserimento dei privati e, in barba ai gufi (come direbbe il presidente del consiglio), la regione riparte. L’attuale direttore del Tirreno viene da un’altra regione e, forse per questo, non si rende conto che non sta parlando della campagna elettorale di Rossi del 2015. Ma solo ripetendo gli slogan di quella del 2010. Anzi pure gli slogan di quella di Martini del 2005 e del 2000. Il modello export-oriented della Toscana, che prevede quindi un lento ma progressivo ribasso salariale perché l’euro non è il remimbi cinese, con conseguente contrazione del mercato interno (se ribassi i salari...) è infatti la stella polare delle amministrazioni regionali di centro-sinistra in Toscana da molti anni. Non solo, nelle relazioni ufficiali, da lustri è l’unico modello economico di riferimento, vero dogma religioso, attraverso il quale si filtrano dati, modelli, proiezioni.
Di proiezioni ce ne sono di fantastiche, una di un importante istituto, spesso punti di riferimento de Il Tirreno, che prevedeva la ripresa a Livorno nel 2014. Peccato che aveva completamente toppato, nelle previsioni, tre recessioni italiane consecutive e una grave crisi europea del debito sovrano. Ma quando si deve tenere in vita lo stesso mantra (esportazioni-liberalizzazioni-esternalizzazioni-privati) si fanno questi ed altri errori di previsione. Ad ogni modo lo stesso istituto non fa più previsioni macroeconomiche su Livorno così chi lo presiede, per conto di Rossi, non smentisce più né sé stesso nè il proprio mentore. Dovrebbe anche aiutare ad addentrarsi, in quel curioso mondo che si chiama realtà, il fatto che, secondo il modello Rossi-Piombino, gli acquirenti che si fanno vivi sono algerini e indiani. Ovvero aziende multinazionali di paesi che fanno margini di profitto sul dumping salariale e ambientale. Il modello centrosinistra toscano, oggi Rossi ieri Martini, è quindi basato su un doppio dumping salariale. Uno, delle aziende interne, per recuperare margini di produttività (accade anche e soprattutto nelle imprese ad alto tasso di tecnologia. Basta vedere quanti co.co.pro ci sono nelle start-up). L’altro, quelle dei mitici investitori esteri, che vengono in Toscana per fare dumping salariale. Comunque rispetto alla media dei salari toscani.
Questo modello si chiama neomercantilista perché riprende la concezione che vuole la ricchezza di un paese, o di una regione, come tale solo se le esportazioni superano le importazioni. Dovrebbe aiutare a capire il casino in cui ci ficcano certe pratiche economiche il fatto che uno dei primi teorici del mercantilismo, John Law, fu anche l’artefice dello scoppio della grande bolla immobiliare della Louisiana del 1720. E, per arrivare all’oggi, come i surplus generati dalle politiche neo-mercantiliste della Germania siano finiti nella bolla di Lehman Brothers. Certo, tutto questo aiuterebbe a capire magari che tra bolla MPS e modello export-oriented della Toscana i rapporti non sono affatto episodici e casuali, senza considerare che il modello Rossi-Renzi ha già avuto dimostrazione pratica nel pessimo piano regionale dei rifiuti e nel decreto Sblocca Italia.
Da un lustro Livorno attraversa non una crisi ma una sedimentazione di più crisi (economica, di sistema politico, del credito). L’informazione, pigra ed abituata a reiterare gli stessi schemi una volta individuate le fonti di potere a cui fa riferimento, deve fare un salto di qualità e parlare di sistemi e di modelli senza ripetere il mantra del leader di turno a cui deve tirare la volata. Questa volta sembra non esserci spazio per il giochino del posizionamento della stampa al servizio del primo potere forte che viene individuato. Sempre se si vuol superare la crisi. Se no il disastro sarà servito. E sarebbe di grandi proporzioni. Qualcosa di verde matematico, avrebbe detto l’antico Andrea Pazienza.
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