Parlare dei dati del governo Renzi risulta sempre difficile quando numeri e commenti vengono sempre anticipati da un tweet della presidenza del consiglio. Si tratta del solito tentativo di anticipare l’interpretazione dei dati, spesso concordato con le redazioni di tv e giornali, per arrivare velocemente all’opinione pubblica. L’effetto ottenuto, spesso, non è solo quello d'orientare l’opinione pubblica favorevole ma anche quella sfavorevole. Quest’ultima si pone spesso come un semplice controcanto della propaganda del governo e sbaglia. Perché si caratterizza solo in negativo o perchè si lascia condizionare dal problema di colpire i bersagli offerti dalla propaganda di Renzi. Per cui la linea comunicativa del variegato fronte che si oppone a Renzi finisce per farla il governo: basta un tweet di Renzi e tutti ne discutono, bene o male.
Eppure non bisogna lasciarsi condizionare dal problema di dover definire solo come “falsi” i dati del governo. E’ importante, soprattutto, orientarsi in quelli veri, forniti dallo stesso esecutivo. E’ il ministro Poletti, per quando in modo piuttosto goffo, ad aver ammesso che i dati sulle assunzioni legate al Jobs Act erano sovradimensionati addirittura del doppio. Non è un dato da poco visto che Istat ha fornito i dati del secondo trimestre 2015. Dati che marcano un aumento dell’occupazione senza un trionfo, a parte i tweet del governo, del Jobs Act. Come sappiamo il provvedimento renziano, un mostro di propaganda che trasforma i posti di lavoro stabili in precari ma viene definito “di stabilizzazione”, definisce a tempo indeterminato contratti nei quali è molto più facile licenziare rispetto al recente passato. Facendo saltare molte distinzioni tra contratti a tempo indeterminato e a tempo determinato.
Nonostante questo, e non è poco, nell’ultimo trimestre i contratti a tempo determinato sono quelli cresciuti di più in un lieve, complessivo, aumento dell’occupazione. Non solo perché la crescita degli impiegati a tempo parziale è in maggioranza dovuta a contratti di part-time involontario: la maggioranza (64,6 per cento) delle persone assunte cercava sostanzialmente un impiego a tempo pieno, ma si è accontentata, oltre che dei tweet di Renzi, di un part-time. E qui qualche considerazione sul Jobs act come strumento magico di creazione di posti di lavoro andrebbe fatta. Ma si guardi all’aumento degli occupati: riguarda solo i lavoratori dipendenti (più 1,1 per cento). Nel frattempo il numero di contratti a tempo indeterminato promossi con il Jobs Act è cresciuto (0,7 per cento) meno di quelli a tempo determinato (3,3 per cento), mentre si sono ridotti non di poco (-11,4 per cento) i contratti di collaborazione (la cui stipulazione è stata sospesa con uno dei decreti applicativi del Jobs Act fino a gennaio 2016). Insomma, mentre i contratti a tempo indeterminato sono, per le garanzie offerte, indistinguibili da quelli a tempo determinato si continua, quando l’occupazione aumenta, a scegliere questi ultimi.
Sull’aumento di forza lavoro si potrebbero dire molte cose. Di sicuro gli sgravi alle assunzioni il loro effetto l’hanno fatto, visto che cresce il dato occupazionale ma non gli indici di produttività. Questo significa che il governo Renzi dovrà insistere sugli sgravi fiscali, e sugli incentivi occupazionali, se vuole mantenersi almeno su questi dati. Che non sono eccezionali, salvo per la fantasia di qualcuno, che non sono confrontati con il potere di acquisto dei salari (che ci mostrerebbero una forza lavoro impoverita rispetto anche a 5-6 anni fa) ma che marcano un segno più che è reale e proprio per questo da indicazioni importanti.
Ad esempio, è chiaro che questi provvedimenti non c’azzeccano con le misure del governo Renzi, nè Jobs Act, nè 80 euro (i cui studi sui “benefici effetti” di cosa fece vincere le elezioni del 2014 semplicemente non ci sono), ma su altri fattori. Ne contiamo principalmente tre: export, beni durevoli familiari, beni durevoli delle imprese. E nel primo fattore l’euro conta più del prezzo del petrolio, visto l’alto prezzo della tassazione della benzina in Italia.
L’export, nonostante l’euro sia passato da 1,30 alla quasi parità in primavera, per risalire nelle ultime settimane, ha fatto il suo lavoro. Ma, come abbiamo visto, non lascia traccia di creazione di posti di lavoro a tempo indeterminato (se il Jobs act è definito come tale) né sulla produttività. Non è cosa da poco visto che il modello italiano, ed europeo, è export-oriented come da dogma neomercantilista. Insistere su questo punto, nelle nuove turbolente acque dell’economia mondiale, significherà dover toccare di nuovo il costo del lavoro per rendere competitive le merci nazionali. Secondo una divisione ormai chiara nell’area euro: con una moneta così, che sembra si stia apprezzando come bene rifugio di fronte a nuove crisi, i paesi forti dell’eurozona potranno competere grazie a innovazioni produttive e tecnologiche, quelli poveri svalutando il costo del lavoro. Non ci vuole molto a capire in che parte sta della speciale classifica il governo Renzi, vista la stagnazione (eufemismo) degli investimenti.
Gli altri due fattori, beni durevoli per famiglie e imprese, si leggono sostanzialmente con una voce: aumento degli acquisti per auto. Insomma, sia le famiglie (o quel conglomerato sociale definibile come tale con una certa approssimazione) che le imprese hanno investito sul rinnovo del parco macchine. Il punto è che le imprese non hanno investito in macchinari e attrezzature (che decrescono del 0,2 per cento) e che le costruzioni arretrano di due punti percentuali. Segno che le famiglie e le imprese hanno alimentato una crescita congiunturale, per non restare a piedi in senso proprio letterale, e che fattori più strutturali (macchinari per le imprese e case per le famiglie) mostrano ancora il fiato corto.
Come si vede, le difficoltà strutturali del governo, sul Jobs act e sulla contingenza di quella che viene chiamata “crescita”, emergono dagli stessi dati licenziati come positivi dalla stessa propaganda renziana. Non entriamo in temi reali, quanto respinti da tutti gli attori in campo, come la crisi di questo modello di sviluppo, dello stesso sistema finanziario globale e il tema della fine del lavoro come tale. Quest’ultimo ci ricorda che viviamo in una società dove le tecnologie rimpiazzano più posti di lavoro di quanti ne creino. Come accaduto in quest’ultimo periodo in Spagna dove il Pil è aumentato, grazie all’immissione di innovazione tecnologica, ma non l’occupazione. Ci limitiamo qui alla radiografia economica dell’esistente.
Nel complesso la variazione trimestale positiva di Pil, più 0,7, pur in linea con le previsioni del governo (e di questo ne va dato atto, altri DEF sono stati di pura fantasia) ricorda il dato del primo trimestre del 2008 (più 0,6). Quello prima dell’inizio della grande crisi apertasi con Lehman. Insomma nessun dato, nessuna accumulazione di ricchezza alle viste di fronte alla nuova stagione dura apertasi nell’economia globale. Ma lasciamo per una volta gli scenari globali, quelli che contano sul serio, da parte e guardiamo le previsioni sul debito pubblico, quelle che metabolizzano i dati di segno più che abbiamo commentato. L’indice sul debito pubblico parla da solo. Il capitalismo renziano, quello con una crescita debole e previsioni del debito pubblico, con un trend che arriva fino al 2019, in netta crescita (qui nonostante il DEF).
L’autunno tenderà ad accentuare i problemi di una economia a crescita zero, con un debito pubblico enorme, di fronte ad uno scenario globale non sereno. Renzi di fronte a questa (evidente) impasse ha deciso di provare, in una logica che sembra più legata al consenso che all’economia, a mantenere il favore dell’un per cento della società. L’eventuale abolizione della Tasi, che potrebbe essere la vera “riforma” dello stato liquidando la capacità di erogare servizi per molti comuni italiani, non è infatti una misura che incide sull’economia ma sul patrimonio. Quello del terzo dei contribuenti più ricchi che pagano quasi due miliardi di Tasi in confronto al terzo di quelli più poveri che pagano poco più di trecento milioni.
Questi due miliardi, eventualmente, verranno investiti? Ovviamente no e comunque non c’è certo obbligo, in un mondo globale, di investire nel proprio paese, e in attività produttive, i propri soldi da parte dei ceti più ricchi. Ma in compenso il rischio forte è per le economie territoriali le quali sarebbero colpite dal taglio della Tasi in modo significativo. Basta leggere i bilanci dei comuni il cui taglio degli investimenti è stato brutale secondo i dettami del patto di stabilità. E quanto tutto questo abbia inciso nelle difficoltà della “crescita” italiana e quanto inciderà nel futuro è un bel tema da analizzare.
Ma intanto guardiamo al presente, alla differenza di vedute tra governo e Bruxelles (cioè Berlino) sul taglio delle tasse. Berlino per l’Italia vuole aumento dell’Iva e detrazioni alle imprese sul lavoro. In pieno stile export-oriented che, come abbiamo visto, non genera fiumi di posti di lavoro. Il governo Renzi vuole, per motivi di consenso ma anche di concezione dell’economia, la svolta reaganiana. E così, tra Scilla e Cariddi, si posiziona questo paese.
Redazione, 2 settembre 2015
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