Capita di imbatterci a volte nell’inserto culturale del Corriere della Sera
“La Lettura”, inserto che, come è facilmente intuibile, vorrebbe
rappresentare il corrispettivo culturale della narrazione
politico-economica raccontata nelle pagine del giornale. Una narrazione
molto spesso centrata sull’eternizzazione dei valori del mondo borghese
contemporaneo, sulla supposta naturalità delle sue categorie culturali
che tentano sempre più a fatica di dare un senso al mondo declinante in
cui viviamo, per contrastare il senso di alienazione e scissione della
vita moderna. Sono presenti sovente panegirici, con intenti raffinati ma
molto spesso astratti e contorti, sul valore supremo dell’individuo,
sulla fine delle ideologie che hanno ferocemente insanguinato il mondo
moderno, sulla società liquida in cui il centro non sono più le
contraddizioni di classe, gli steccati e i confini sociali alimentati
dall’epoca monopolistica del capitalismo, ma i desideri, i bisogni del
consumatore medio, votato a una politica della legalità, del decoro
urbano e morale e alla mentalità dell’ambientalismo illuminato.
Qualche settimana fa, nel numero 223 del 6 marzo, trovava spazio un
interessante articolo che ci induce a qualche riflessione aggiuntiva sul
modo anche insinuante in cui si legittima una pratica culturale che
rende sempre più normalizzante il tema della guerra. L’articolo dal
titolo “La guerra fa parte della natura dell’uomo” sembra fare
sua, in punta di piedi, la tesi secondo cui l’uso delle armi e quindi la
guerra siano all’origine dello sviluppo umano, che la cultura del
confine, del “Noi” e del “Loro”, della nemicità, non sono solo da far
risalire a delle dinamiche materiali e storicamente determinate, ma che
abbiano in realtà un fondamento originario. Insomma, che dietro questa
primitiva nemicità, lotta, violenza e tendenza alla guerra, ci sia una
matrice genetica. Il tema della nemicità quindi sarebbe un carattere
strutturale, naturale, permanente e quindi in ultima istanza
immodificabile, dell’uomo.
Ciò significa anche dire che l’uomo, come diceva Hobbes, è
strutturalmente antitetico, contrappositivo e soprattutto votato al
mondo della sopraffazione e della disuguaglianza. E’ naturale, verrebbe
da dire, che nel mondo vi sia una classe destinata a trionfare e
dominare sulle altre e quindi ogni trasformazione in senso emancipatore e
cooperativo delle relazioni sociali sarebbe destinato ontologicamente a
soccombere al Dna umano dell’Homo Homini Lupus, secondo la
nota definizione di Hobbes. Nell’articolo si riconosce anche
l’esistenza, nella storia dell’uomo, fin dalle origini, di un carattere
cooperativo e sociale, ma lo si pone come elemento di subalternità e
reso oggettivamente dipendente dalla nemicità come elemento primordiale
della storia umana. E’ necessario ribaltare una teoria che fa della
contrapposizione l’elemento centrale della dialettica storica e la
guerra come un fatto genetico della natura umana. Questa è la lettura
antropologico reazionaria del passato, del presente e del futuro umano.
Anche perché se fosse veramente così, come dicono anche gli autori
dell’articolo, “non basterebbe invocare una Rivoluzione culturale, per salvarci; avremmo bisogno di una provvidenziale “mutazione”. Ci
affidiamo quindi alla provvidenziale mutazione, alla discesa in terra
di un cambiamento radicale che in realtà non potrà esserci? In realtà
dietro il velo scientista di queste tesi si nasconde una visione
asettica, da laboratorio, della storia sociale umana, che considera
accessoria la natura dei rapporti sociali, dalle sue originarie forme
tribali fino alle varie fasi della lotta delle classi della – e nella –
storia.
La storia dell’uomo è storia sociale, in cui l’elemento della
cooperazione, del processo contradditorio del suo svelamento è dato
dalla costruzione sociale umana stessa, in cui anche il carattere
antagonista, contrappositivo della lotta di classe non è mai un
carattere unilateralmente egemone, in cui non esiste solo una dialettica
della lotta ma anche una logica dell’innovazione, della costruzione
sociale, che assume nel capitalismo la sua forma più contradditoria
perché produce un enorme energia sociale, di natura cooperativa ma che è
negata dal carattere privato delle forme di produzione e di proprietà.
Ci viene da dire, ritornando al pensiero marxiano, che nell’origine
dell’uomo c’è la natura sociale, questa sì strutturale. Quando sentiamo
parlare di genetica applicata alla storia sociale umana c’è sempre da
pensare male; quando ne parla un giornale come il Corriere di
Panebianco, in prima fila da mesi nell’opera di convincimento della
giustezza della difesa militare della civiltà occidentale e della sua
missione civilizzatrice nella Libia in mano ai barbari, ne siamo ancora
più certi.
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