Apro il Corriere di martedì 29 marzo e trasecolo: “Salviamo la legge contro le lobby”, titola un lungo articolo firmato da Francesco Giavazzi. Ma come, mi chiedo, sono talmente prevenuto contro questo governo che mi è sfuggita una sua lodevole iniziativa per porre freno allo spadroneggiare dei poteri forti? Di più: a sostenere il provvedimento è un ultras del liberismo come Giavazzi, il principe dei Bocconi Boys, come lui e i suoi colleghi sono stati ironicamente battezzati dal neokeynesiano Paul Krugman (il quale ha inteso così evocare la parentela fra le loro idee e quelle dei famigerati Chicago Boys, autori delle teorie che hanno ispirato tutte le nefandezze perpetrate dalle destre economiche negli ultimi decenni).
Poi leggo e mi rassicuro: il provvedimento in questione è la legge sulla concorrenza che dovrebbe essere presto votata dal Parlamento, un testo che non mira a colpire i grandi monopoli ma bersagli ben più facili: farmacisti, albergatori, tassisti e analoghe categorie, accusate di lucrare cospicue rendite grazie ai privilegi acquisiti attraverso consolidate pratiche corporative. Tantomeno Giavazzi si è convertito ai principi di una rigorosa politica antitrust: la sua sollecitudine è dettata dal timore che la legge venga annacquata per non irritare le suddette categorie (e dunque per non perderne il consenso elettorale).
Mi si potrebbe obiettare che colpire le rendite dei pesci piccoli è meglio di niente, visto che porterebbe più soldi nelle tasche dei consumatori. Peccato che le cose non stiano esattamente così: le idee dei Bocconi Boys alla Giavazzi, quando vengono tradotte in legge, non aprono la strada a una “sana” concorrenza foriera di vantaggi per tutti: posti di lavoro per i giovani, servizi a prezzi più accessibili, innovazione tecnologica, sociale e culturale, ecc. Servono piuttosto a favorire l’ascesa di imprese come Uber, che usano l’innovazione tecnologica per costruire nuovi monopoli fondati sul controllo delle interfacce fra prestatori d’opera e clienti, vale a dire su inedite forme di intermediazione che garantiscono rendite ancora più ricche (e ancora meno giustificate) di quelle percepite dalle corporazioni che ambiscono a fare fuori. Per tacere del fatto che le “opportunità di lavoro” che si vantano di offrire sono in realtà quanto mai scarse, tanto sul piano quantitativo, quanto sul piano qualitativo (precarietà, redditi modesti, super sfruttamento, ecc.).
In precedenti interventi ho spiegato come la cosiddetta “uberizzazione del lavoro” rappresenti un tentativo di sdoganare/legittimare le nuove forme di lavoro precario travestendole da lavoro autonomo (mentre del lavoro autonomo hanno solo i rischi, essendo a tutti gli effetti lavoro dipendente ma senza averne i vantaggi). In questo caso, preferisco sottolineare la funzione “educativa” che Giavazzi attribuisce a queste “innovazioni”. Parlando del caso Uber, prima cita le parole di un giovane autista parigino intervistato dal Financial Times: “Mi piace guidare per le strade di Parigi, mi impegno perché voglio che i clienti, alla fine del viaggio, mi diano sempre il massimo dei voti”. Poi spiega che questa sollecitudine è dettata dal fatto che, se un autista di Uber riceve per un paio di volte voti scadenti, viene immediatamente licenziato (altro che i nostri tassisti, gongola!). Infine, cita un’affermazione di Alan Krueger (un noto consulente economico di Obama): “Il sistema di valutazione introdotto da Uber aiuta la crescita professionale dei ragazzi perché li abitua al fatto che la loro reputazione sia di dominio pubblico” (leggi: rigate dritto perché vi teniamo d’occhio...).
A parte il fatto che da alcune ricerche risulta che, almeno negli Stati Uniti, la maggior parte degli autisti di Uber non sono ragazzi, ma pensionati o lavoratori adulti che svolgono altre attività a basso reddito, cioè gente costretta a svolgere due o più lavori per campare, a colpire è il carattere esplicitamente e smaccatamente reazionario della “visione” di Giavazzi, che aspira a far regredire le relazioni fra imprese e lavoratori all’800. Altro che innovazione: qui la morale è quella di certi fumetti nostalgici del primo dopoguerra, sintetizzata dalla battuta: “alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai”.
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