23/03/2016
La strage di Bruxelles e i buchi dell’intelligence belga
Dopo la strage, il rimpallo delle responsabilità. Dietro il frastuono del dibattito pubblico, la speculazione e lo sciacallaggio di alcuni, l’incredulità di altri, c’è tutto un fiorire di discussioni su cosa non abbia funzionato nell’apparato difensivo belga.
Sui giornali statunitensi se ne parla parecchio, con pareri che vanno dal paternalista al sinceramente scandalizzato per una situazione che presenta una varietà quasi infinita di piani di lettura. Per dire, Oltreoceano la vulgata corrente non riesce a considerare l’Isis come una minaccia militarmente credibile, ma al massimo come un’accozzaglia di lupi solitari. Non che la faccenda sia considerata meno pericolosa, chiaro, soltanto non si ritiene che sia possibile agire se non a colpi di intelligence.
E infatti è curioso notare come tutti i candidati in corsa per le primarie, democratici e repubblicani per una volta in coro, siano contrari a una nuova guerra in Medio Oriente. Questa volta niente «boots on the ground». Realismo politico e calcolo elettorale: dopo le devastanti (in ogni senso) operazioni dei Bush, infatti, gli elettori statunitensi sono piuttosto stanchi di veder partire i propri ragazzi e vederli tornare per lo più dentro a una bara coperta dalla bandiera nazionale. Al massimo si può pensare (e si sta già facendo, a ben guardare) a qualche bombardamento spot, magari con i droni, per far vedere che si sta facendo qualcosa.
In un articolo pubblicato sul Daily Beast a firma di Michael Weiss e Nancy A. Youssef troviamo un po’ di pareri attribuiti ad agenti americani antiterrorismo ed esperti di spionaggio. Per dire, un ufficiale americano si abbandona a definire «bimbi» le forze di sicurezza del Belgio, perché dopo aver individuato il centro degli affari terroristici nel quartiere di Molenbeek nessuno si sarebbe preoccupato davvero di smontarne le reti e reciderne i rami. Inoltre, le miopi politiche di integrazione messe in atto negli ultimi decenni hanno creato delle vere e proprie periferie ghetto in cui condizioni materiali miserrime, odio e radicalizzazione vanno pericolosamente a braccetto. «I jihadisti – ha dichiarato al Daily Beast l’esperto francese di terrorismo Gilles Kepel – pensano che l’Europa sia il punto debole dell’Occidente e che il Belgio sia il punto debole dell’Europa». Dal Belgio, però, si risponde che è soprattutto un problema di mezzi: per ogni sospetto pare ci siano in campo 20-25 agenti. Ogni terrorista può utilizzare anche 20 telefoni, per ognuno dei quali sono al lavoro altrettante persone. Il corpo di polizia cittadina di Bruxelles, stima Jean Charles Brisard, autore della biografia di al-Zarqawi, poi, è diviso in sei sezioni, distribuite in 19 zone diverse. Questo dovrebbe consentire una copertura capillare del territorio, ma la partita è molto più difficile, perché non siamo in presenza di un corpo militare organizzato da contrastare, ma di cellule che spesso agiscono in totale autonomia le une dalle altre.
Una sorta di spontaneismo armato che rende quasi imprevedibile ogni mossa. E infatti, ad ogni attentato, oltre ai morti, escono fuori tante storie di «colpi falliti», cioè di bombe non arrivate a destinazione, fucili inceppati, appuntamenti mancati e altre botte di fortuna che fermano almeno una parte del piano terrorista.
Sulla situazione italiana, infine, qualche indicazione l’ha messa nero su bianco Marco Lillo sul Fatto Quotidiano. Interpellando una fonte investigativa anonima, il giornalista arriva a concludere che «la proporzione del rischio [tra Italia e Belgio, nda] è settanta a uno». Perché? «Quello che ci rende diversi non è la nostra difesa ma la loro reale potenza offensiva». In altre parole, «I foreign fighters partiti dal Belgio per combattere in Siria e in Iraq sono 500. Di questi una settantina sono morti in guerra e più di cento sono tornati», mentre «un solo italiano è morto combattendo in Siria. Si chiamava Giuliano Delnevo. Punto. Poi ci sono gli immigrati che avevano risieduto per periodi più o meno lunghi da noi». E d’altra parte gli allarmi lanciati dai politici nostrani in maniera più o meno interessata sono sempre poco circostanziati. Il presidente del Copasir Felice Casson (Pd) ha parlato apertamente di allarmi per Roma, Milano e città d’arte. Ma, spiega la fonte interpellata dal Fatto Quotidiano, «era un allarme generico che a dire il vero poteva scrivere chiunque: Milano, Roma e città d’arte, non vuol dire molto».
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