di Chiara Cruciati il Manifesto
I soldati siriani giocano
con un pallone, sullo sfondo il castello di Qala’at Ibn Maan, simbolo
dell’antica città di Palmira. Le prime immagini che giungono dal sito
archeologico più famoso in Siria raccontano tanto: la vittoria
dell’esercito governativo del presidente Assad, i danni di un anno di
occupazione islamista che ha violentato venti secoli di storia, la fuga
dei civili.
Domenica l’annuncio atteso da giorni è arrivato: Palmira è libera. Con il sostegno dei raid russi,
ha detto il commando generale, la città è tornata in mano a Damasco,
aprendo la strada verso il deserto orientale, Deir Ezzor e Raqqa. «Il
trampolino di lancio per espandere le operazioni militari», così
l’esercito definisce la fondamentale vittoria. L’Isis – che
conta ben 400 miliziani uccisi nella battaglia – è in fuga, seppure
sporadici scontri interessino ancora le zone orientali, intorno alla
prigione e all’aeroporto. La ritirata degli uomini del
“califfato” è un dato di fatto, la comunità è una città fantasma dopo
che gli islamisti hanno costretto all’evacuazione le famiglie residenti
nei quartieri periferici. Per ora nessuno è in grado di dire cosa ne sia
stato di loro, dove siano fuggiti o costretti ad andare.
Assad non sta più nella pelle, consapevole del significato che
quest’operazione rappresenta per il suo futuro: «La liberazione della
storica città di Palmira è un altro esempio del successo della strategia
portata avanti dall’esercito siriano e dai suoi alleati nella guerra al
terrorismo».
Ma le parole probabilmente più azzeccate le pronuncia in un’editoriale
sul The Independent il giornalista Robert Fisk, convinto che a Palmira
non abbia perso solo l’Isis ma anche gli Stati Uniti. Prova ne è il
silenzio dei leader occidentali: «La più grande sconfitta
militare che l’Isis ha subito in più di due anni – scrive Fisk – e noi
siamo in silenzio. Sì, gente, i ragazzi cattivi hanno vinto. Altrimenti
non staremmo celebrando? Quando Palmira cadde lo scorso anno, predimmo
la caduta di Assad. Abbiamo ignorato la grande domanda: perché, se gli
americani odiano l’Isis così tanto, non hanno bombardato i convogli
suicidi che colpivano le linee dell’esercito siriano?»
Sul piano militare e strategico lo Stato Islamico colleziona
un’altra sconfitta significativa, dopo Tikrit, Ramadi e Sinjar in Iraq e
dopo Kobane in Siria. Il territorio sotto il controllo del
“califfo” non è più contiguo come prima, rendendo più difficile
l’approvigionamento di armi e uomini e anche l’amministrazione delle
città occupate: le forze vengono concentrate sulle operazioni militari,
limitando ulteriormente le già scarse risorse riservate alla popolazione
civile sotto occupazione, ridotte dalle minori entrate dovute alle
maggiori difficoltà nell’esportare greggio di contrabbando.
Dopo Palmira che allontana il “califfato” dal centro del paese e in
qualche modo lo isola a nord-est, interrompendo le linee di rifornimento
da ovest, l’operazione (più o meno) lanciata dall’esercito iracheno su
Mosul lascerebbe Raqqa come unico vero bastione islamista, separato dal
resto del progetto territoriale del leader al-Baghdadi.
Ma è troppo presto per cantare vittoria. L’Isis non è sconfitto e lo dimostra ogni settimana con attentati brutali in ogni angolo dell’Iraq e in molte aree della Siria,
dove mancano ancora istituzioni statali capaci di reagire sia sul piano
militare che su quello socio-economico e politico. L’attrazione
esercitata dalla propaganda islamista, inoltre, non si è spenta, ma ha
finito per ampliarsi a macchia d’olio in buona parte del Medio Oriente e
dell’Africa del nord e centrale.
Lo Stato Islamico vince dove c’è disgregazione politica,
settarismi da sfruttare, assenza di fiducia verso le istituzioni
statali. Ne è modello l’Iraq e la quasi totale assenza di unità
respirata dalle diverse comunità etniche e religiose. La stessa
operazione su Mosul è lenta, gestita da più autorità in apparenza
coordinate tra loro ma mosse da interessi parzialmente diversi (su
tutti, la rivalità tra la regione autonoma del Kurdistan iracheno e
governo centrale di Baghdad). Per ora sono una manciata i villaggi
riconquistati nella provincia di Ninewe, tutti a 50 km dal capoluogo.
Il primo effetto però già si vede: la fuga di massa della popolazione
civile, terrorizzata dalla possibilità di restare schiacciata dal fuoco
reciproco dei due fronti. Sarebbero almeno tremila i civili in fuga,
accolti per ora dai peshmerga nello stadio della città di Makhmour,
senza servizi.
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