di Chiara Cruciati
Entro la giornata di domani il premier iracheno al-Abadi dovrebbe presentarsi in parlamento con un
nuovo esecutivo. A dettare l’ultimatum erano stati gli stessi
parlamentari, lunedì: sabato voteranno contro la fiducia se domani il
primo ministro non metterà sul tavolo una proposta accettabile.
Al-Abadi è ormai da mesi sotto il fuoco incrociato dello spettro
politico iracheno, fatto di poteri paralleli a quelli statali e capaci
di destabilizzare istituzioni già indebolite da clientelismo e
corruzione. A monte sta la richiesta di sostituire gli attuali
ministri con dei tecnici, indipendenti e in grado di portare avanti quel
pacchetto di riforme che dallo scorso agosto il premier tenta di far
passare come strumento principe nella lotta alla corruzione. A
fare pressioni è in particolare il blocco politico del religioso sciita
Moqtada al-Sadr: tra marce verso la Zona Verde di Baghdad e sit-in di
protesta piuttosto partecipati, il leader del partito Ahrar sta
seriamente destabilizzando il governo centrale.
Domenica al-Sadr ha lanciato un sit-in dentro la Zona Verde e
il giorno successivo i suoi 34 parlamentari hanno rigettato la
richiesta del premier di posporre di due settimane la nomina del nuovo
esecutivo. Al di là del peso parlamentare (34 seggi su 328 non
sono decisivi) al-Sadr ha dalla sua la capacità di mobilitare migliaia e
migliaia di sostenitori, oltre ad avere a disposizione una vera e
propria milizia, le Brigate della Pace, nate dall’ex Esercito del Mahdi e
slegate dal controllo iraniano.
Dall’altro lato a punzecchiare un premier isolato c’è il blocco kurdo.
Domenica i leader dei cinque partiti kurdi rappresentati a Baghdad
hanno incontrato il presidente del parlamento, al-Jabouri, e consegnato
la propria precondizione: “I kurdi non accetteranno meno del 20% dei
posti ministeriali nel nuovo esecutivo – ha detto il parlamentare Ala
Talabi – I kurdi devono partecipare al processo politico. Questo governo
non dovrà ripetere gli errori del precedente”.
Una richiesta che mina alla base l’idea di un governo di
tecnici se ognuno tira la coperta – corta – dalla propria parte:
l’obiettivo del rimpasto di governo è proprio l’abolizione delle quote
settarie, ovvero dell’attribuzione di un numero determinato di dicasteri
ad ogni etnia e religione. Non tutti però condividono questa opzione:
è il caso del partito sciita Dawa, contrario al rimpasto perché
spaventato dall’idea di perdere il proprio potere istituzionale e di
conseguenza l’influenza esercitata sulla società.
Perché oltre agli sciiti di al-Sadr, che ha scelto di vestire i panni
del moderato riformista, e ai kurdi di Erbil, in parlamento sono
rappresentati anche poteri contrastanti e radicati, espressione delle
autorità che operano sul terreno, dei legami tribali e clientelari.
Ognuno vuole la sua fetta ed al-Abadi è costretto ad una mediazione che
intacca di per sé l’aspirazione ad un governo libero e indipendente.
Per emergere dal guado, il premier punta sul popolo iracheno
fiaccato da decenni di corruzione palese che ha mangiato miliardi e
miliardi di dollari destinati alla ricostruzione nel post-Saddam:
ieri al-Abadi è apparso in tv e ha promesso “di implementare le riforme
governative e di proseguire nelle inchieste contro coloro che hanno
servito solo i propri interessi personali”. Si è poi rivolto allo stesso
parlamento riottoso, chiedendo di indicare linee guida in merito alla
nomina di ministri tecnici: “Il consiglio dei rappresentanti dovrebbe
chiarire la propria posizione. Volete ministri da ogni blocco politico o
tecnici esterni a partiti e quote?”.
La debolezza del primo ministro e le divisioni interne si riflettono
immediatamente sulla tenuta del paese, alle prese con l’occupazione di
un terzo dei propri territori da parte dello Stato Islamico. L’Isis
mangia risorse umane ed economiche, svela i settarismi interni e li
amplia, denuda le contraddizioni di un paese mai pacificato dopo
l’invasione Usa cominciata nel 2003. Nel mirino c’è soprattutto
l’esercito nazionale, smantellato per ordine statunitense ed epurato
della componente sunnita e ancora incapace di ricostruirsi del tutto,
finendo preda degli ordini delle milizie sciite guidate dall’Iran.
Ma il momento è cruciale: in ballo c’è oggi l’operazione per
la liberazione di Mosul. La distanza con Palmira è abissale: lì a
combattere gli islamisti era un fronte unico, qui di fronti ce ne sono
molti, ognuno con interessi diversi. Ci sono i kurdi iracheni –
sostenuti dalla Turchia – che puntano all’indipendenza e si contendono
con Baghdad molti territori intorno Mosul; ci sono le tribù sunnite che
vogliono evitare una vittoria sciita che indebolisca ulteriormente la
propria comunità; ci sono le milizie sciite legate all’Iran e l’esercito
governativo gestito solo in parte da Baghdad. Una divisione a cui si
aggiunge la scarsa fiducia che i civili sunniti sotto occupazione Isis
ripongono nel governo centrale.
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