di Michele Giorgio – Il Manifesto
Abdel Fattah al Sisi con il
raddoppio parziale del Canale di Suez aveva sognato di passare alla
storia, proprio come era avvenuto al suo illustre predecessore Gamal
Abdel Nasser che, nazionalizzando lo strategico passaggio tra Mar
Mediterraneo e Mar Rosso, costrinse alla resa le potenze coloniali.
Al Sisi lascerà la sua impronta, ma solo per aver instaurato un
regime brutale, persino più oppressivo di quello di guidato per 30 anni
da Hosni Mubarak. Non certo per aver dato una vita migliore e dignitosa
agli egiziani. Il raddoppio del canale di Suez (avvenuto l’anno scorso)
che, attraverso il passaggio giornaliero di quasi cento navi, doveva
moltiplicare gli introiti, si è rivelato molto deludente rispetto alle
ambizioni del rais egiziano.
Gli ultimi dati disponibili dicono nelle casse egiziane è entrato il 3% in meno rispetto all’anno precedente. Il
costo elevato del pedaggio a Suez, l’instabilità del Sinai in parte
controllato da “Wilayat Sina” (Isis) e, più di tutto, il crollo del
prezzo del petrolio, spingono tante compagnie marittime ad ordinare ai
comandanti di mercantili e portacontainer di circumnavigare l’Africa
lungo la rotta del capo di Buona Speranza. Un salto all’indietro nel tempo, a come si era fatto fino all’apertura del canale nel 1869.
SeaIntel Maritime Analysis, che segue i flussi commerciali via mare,
riferisce che nell’ultimo trimestre del 2015 decine di mercantili di
grosso tonnellaggio che dall’Asia navigavano verso l’Europa hanno scelto
di non passare per Suez approfittando del calo del prezzo del petrolio
del 70%. Tenendo presente che le navi commerciali di grandi dimensioni
quasi sempre hanno bisogno di pagare anche un pilota ad hoc per
attraversare il canale e che devono versare un pedaggio all’Egitto che
varia dai 250.000 a 465.000 dollari, il costo totale di un
viaggio, carburante incluso, supera i 700.000 dollari. Passare per il
capo di Buona Speranza comporta un viaggio più lungo di almeno 10 giorni
e un consumo extra di carburante di 328.000 dollari ma, tirate le
somme, alla fine del viaggio le compagnie registrano un risparmio di
oltre 300.000 dollari.
Il canale resta il passaggio preferito per l’8% del traffico
commerciale mondiale e l’Egitto, comunque sia, nel 2015 ha incassato da
Suez 5.36 miliardi di dollari. Eppure il sogno di al Sisi è già
svanito. Il raddoppio del canale, costato ben otto miliardi di dollari
(pagati tutti dal popolo egiziano) potrà rivelarsi una miniera d’oro
solo se il prezzo del petrolio tornerà oltre i 70 dollari al barile.
Una possibilità lontana di fronte all’abbondanza di greggio sul
mercato mondiale causata dall’eccesso di produzione e dalla recessione
economica.
Per il presidente egiziano è un colpo duro che rallenta piani di
sviluppo, anche edilizio, che dovrebbero alleggerire la disoccupazione
(nel 2015 era intorno al 14-15%), la conseguenza più grave della crisi
dell’economia egiziana che non cresce quanto dovrebbe per creare un
numero sufficiente di posti di lavoro in un Paese che presto avrà cento
milioni di abitanti.
A tenere in affanno al Sisi e il suo entourage è anche la
sofferenza del turismo, tra le voci principali per le casse statali,
figlia della instabilità e della violenza. Già prima del
sanguinoso colpo di stato che ha deposto il presidente Mohammed Morsi
nel 2013 e della feroce repressione della Fratellanza Islamica, il
“Washington Institute” aveva calcolato in 2,5 miliardi di dollari le
perdite del turismo. Poi è giunto il colpo durissimo dell’attentato
dell’Isis, lo scorso novembre, a un aereo della Metrojet decollato da
Sharm el Sheikh in cui hanno perduto la vita oltre 200 turisti russi. In
questo clima è utopistico pensare che possa avere successo il piano
quinquennale che punta ad raggiungere venti milioni di presenze
turistiche e 26 miliardi di dollari entro il 2020.
Certo al Sisi punta anche allo sfruttamento, assieme alla italiana
Eni, dell’enorme giacimento di gas scoperto davanti alle sue coste.
Tuttavia che questa risorsa finirà per rivelarsi un tesoro per l’Egitto è
ancora da dimostrare. Per ora mancano i fondi per dare una risposta a
decine di milioni di egiziani che non hanno un lavoro o sono sottopagati
e riescono a malapena a sopravvivere.
L’aiuto esterno è fondamentale per tenere a galla il regime
ma i i sauditi, generosi finanziatori di al Sisi, che hanno puntellato
l’economia egiziana dopo il colpo di stato del 2013 (Riyadh da sempre
guarda con sospetto ai Fratelli Musulmani), non appaiono più disposti a
regalare o a investire i loro miliardi di dollari senza una sicura
contropartita politica. Il Cairo pur aderendo alle alleanze e
alle iniziative proposte dalla monarchia sunnita contro l’Iran e i suoi
alleati, negli ultimi tempi ha migliorato i rapporti con Damasco nemica
di Riyadh. I sauditi perciò hanno fatto sapere che la promessa di
investimenti per otto miliardi di dollari e di forniture di petrolio a
costo stracciato, sarà mantenuta solo se l’Egitto seguirà senza esitare
la linea dettata da re Salman.
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