Se si dovesse fare una statistica delle parole più usate dai media per descrivere la situazione libica troveremmo sicuramente in testa il “caos” (libico) e “avanza” (l’ISIS). Poco spazio viene invece dato a due altre parole che aiuterebbero a spiegare il presunto caos libico: “petrolio” e “gas”.
La Libia possiede le maggiori riserve di petrolio dell’Africa, le none nel mondo. Si tratta di un quantitativo imponente, circa 48 miliardi di barili (il 3% circa dell’intero ammontare delle riserve mondiali, dato al 2009).
Se si da uno sguardo alla cartina della Libia si vede che i pozzi petroliferi (leggi interessi francesi, inglesi e americani ma anche cinesi, russi e brasiliani) sono concentrati nell’area fra Bengasi e Sirte, dove ci sono l’80% delle riserve conosciute di petrolio del paese. Il gas (leggi interessi italiani) si trova invece soprattutto nel mare ad est di Tripoli e nella regione di Gadames anch’essa ad est della vecchia capitale.
Prima della guerra del 2011, il maggior produttore estero di petrolio era l’italiana ENI con 244.000 barili/giorno (b/g) estratti nel 2010, ma c’erano anche compagnie americane (Chevron, Exxon Mobil, Occidental petroleum, Phillips), 124.000 b/g, tedesche (BASF), 100.000 b/g, cinesi (CNPC), spagnole (Repsol), francesi (Total), inglesi (BP) e russe (Gazprom). Tutte queste compagnie avevano un contratto di collaborazione con la compagnia nazionale libica, NOC, che da parte sua produceva circa 1 milione di b/g. In pratica una parte dei proventi delle multinazionali estere venivano versati alla NOC, cioè allo stato libico. Questa collaborazione con la NOC prosegue anche oggi, esattamente come durante il regime di Gheddafi, solo che oggi la NOC versa le quote della rendita petrolifera sia al governo di Tobruk (“internazionalmente riconosciuto” come ci viene detto) sia a quello di Tripoli (“Islamico moderato” come ci avvertono spesso i media).
Gheddafi era uso dire che agli occidentali della Libia interessava solo il petrolio. Aveva ragione. La guerra del 2011, come sappiamo bene, fu voluta dai francesi e gli inglesi si affrettarono ad affiancarli con la speranza neppure tanto segreta di rientrare in Libia dalla quale erano stati scacciati nel 1969 dal golpe dei giovani colonnelli.
Nell’autunno 2011 i media francesi non completamente allineati erano pieni di articoli che denunciavano il ruolo guerrafondaio della Total, che fino a quel punto aveva avuto un ruolo marginale fra le compagnia straniere (appena 55.000 b/g estratti nel 2010). “Fra gli agenti francesi infiltrati tra i ribelli di Bengasi c’erano anche rappresentanti della Total”, denunciò il quotidiano Liberation che rivelò anche i termini dell’accordo concluso: i francesi avrebbero appoggiato la ribellione in cambio della promessa di affidare alla Total il 35% delle concessioni petrolifere.
L’obiettivo era certamente togliere di mezzo l’ingombrante figura di Gheddafi (che nel 2009 aveva annunciato il progetto di nazionalizzare completamente il settore petrolifero) ma il fine ultimo era anche togliere all’ENI una fetta delle sue concessioni petrolifere. L’Italia, molto riluttante, si accodò, diversamente dalla Germania che si tenne alla larga dai bombardamenti NATO. Gli stessi americani si tirarono ben presto indietro; una volta liquidato Gheddafi a loro della Libia non interessava niente. Esattamente come adesso.
Ma torniamo all’attualità. Fallito il comico tentativo di costituire/imporre un governo di “unità nazionale” (si potrebbe ironizzare dicendo che si erano dimenticati di avvisare i libici), i nuovi colonialisti stanno portando avanti ognuno la propria strategia, spesso in contrasto con le altre.
Si è così “scoperto” che in Libia ci sono le forze “speciali” francesi e inglesi che addestrerebbero i combattenti del generale Haftar i primi, le milizie di Misurata i secondi. Ci sono anche gli americani, naturalmente, anche loro dalla parte di Tobruk. Gli italiani, ci viene detto, sono pochi ma fra qualche giorno arriveranno una cinquantina di incursori del Col Moschin (detti le “fiamme nere”, un appellativo parecchio inquietante ma trattandosi di paracadutisti non ci si meraviglia di niente). Gli italiani dovrebbero posizionarsi nella regione di Tripoli (dove l’ENI ha il controllo del terminale gasiero di Mellita). Insomma gli italiani vanno in Libia per proteggere gli interessi dell’ENI da... francesi e inglesi!
Il rischio concreto è che si arrivi ad un contrasto forte fra le potenze europee: i francesi addestrano le truppe di Haftar che sta riconquistando Bengasi. Il passo successivo sarà quello di mettere in sicurezza l’area petrolifera, ora in mano a milizie indipendenti sia dal governo di Tobruk sia da quello di Tripoli ma che rispondono alla NOC e alle compagnie petrolifere straniere, fra cui la Total. L’ambizione di Haftar, sostenuto da francesi e americani (oltre che da Emirati arabi uniti ed Egitto) è quella di riconquistare Tripoli – dove ci saranno gli italiani – il cui governo è alleato con la città-stato di Misurata – dove ci sono gli inglesi. Notoriamente Tripoli è sostenuta da Qatar e dalla Turchia. C’è da ritenere che questi ultimi sostengano di fatto anche l’ISIS libico, come hanno fatto con quello siroirakeno.
E poi, naturalmente c’è l’ISIS o Daesh o califfato che, a sentire i media di regime dovrebbe essere la causa dell’intervento. Assestatosi a Sirte e nei suoi dintorni effettua le sue incursioni soprattutto nella vicina zona petrolifera cercando di fare più danni possibile e di avere quindi una grande visibilità che i media occidentali sono ben contenti di dargli. A Sirte, ultima roccaforte di Gheddafi, l’ISIS ha occupato un vuoto lasciato dall’incapacità libica di dare un futuro a questa città. L’occupazione di Sirte non è avvenuta pacificamente: ad ottobre l’ISIS ha represso nel sangue una rivolta. Non è detto che il controllo della città sia così ferreo come la propaganda ISIS vorrebbe farci credere. Comunque è certo che l’ISIS non “avanza” come cercano di farci credere i media.
In realtà come ha dimostrato la vicenda siriana, le potenze occidentali non hanno alcuna intenzione di eliminare l’ISIS, che è servito e serve ancora come pretesto per compiere missioni militari finalizzate a ridistribuire le zone di influenza ed il controllo delle aree petrolifere. La politica estera la fanno l’ENI, la Total, la BP, la Exxon e le altre multinazionali e durerà – ci viene detto – almeno trent’anni: cioè fino a quando ci sarà petrolio e gas da rapinare.
Alle guerre “umanitarie” si sostituiscono oggi le operazioni militari di “stabilizzazione”, modo raffinato per definire i nuovi colonialismi. A piccoli passi stanno entrando in guerra. Una guerra per il petrolio. L’ennesima guerra per il petrolio.
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