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19/03/2016

Nuovo attentato ad Istanbul. Si stringe l’alleanza tra Pkk ed estrema sinistra turca


Ultim’ora. Secondo diversi media locali, il kamikaze sarebbe un militante turco dell’Isis, identificato come Savas Yildiz di 33 anni, originario di Adana nel sud del Paese, che faceva parte della lista dei sospetti potenziali attentatori suicidi. (fonte: Ansa)

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E’ di cinque morti e venti feriti, finora, il bilancio dell’attentato kamikaze realizzato stamattina in Istiqlal Caddesi, la lunga via pedonale dello shopping che attraversa il cuore di Istanbul. Secondo le notizie diffuse dal governatore della città, Vasip Sahin, e da fonti giornalistiche, l’attentatore suicida si sarebbe fatto esplodere in via Balo, nei pressi del centro commerciale Demirören. Secondo alcune testimonianze l’attentatore non sarebbe in realtà riuscito a raggiungere l’obiettivo dell’attacco – forse una caserma della polizia – perché per qualche motivo l’esplosione è avvenuta davanti a una rosticceria in una delle zone più frequentate dai turisti oltre che dai locali.

In attesa di una rivendicazione dell’ennesimo attentato, continua la campagna di arresti da parte delle autorità contro militanti e attivisti curdi, intellettuali, giornalisti, sindacalisti, studenti e avvocati, tutti accusati di aver partecipato alla preparazione dell’attacco kamikaze che domenica scorsa ha provocato la morte di 37 persone alla stazione degli autobus di Kizilay, nel centro di Ankara. Alcuni giorni fa la rivendicazione della strage da parte del TAK – Falconi per la Liberazione del Kurdistan – un gruppo armato curdo separatosi dal PKK nel 2005, lo stesso che a febbraio aveva fatto esplodere un autobus, sempre nel centro di Ankara, uccidendo però in quel caso solo militari e dipendenti del Ministero della Difesa.

“La sera del 13 marzo è stato portato un attacco suicida alle 18:45 nelle strade della capitale della Repubblica turca fascista. Noi rivendichiamo questo attentato”, ha scritto il gruppo in una dichiarazione pubblicata su internet sottolineando che si tratta di una risposta alle operazioni militari indiscriminate condotte delle forze di sicurezza turche nelle città curde del sud-est del Paese. Secondo il Tak anche il 13 marzo l’obiettivo dell’azione dovevano essere i militari ma alla fine ad andarci di mezzo sono state centinaia di persone che affollavano la trafficatissima piazza nel centro della capitale curda.

Nei giorni scorsi l’ambasciata degli Stati Uniti ad Ankara ha allertato i propri cittadini presenti nel paese invitandoli a tenersi lontani dagli assembramenti e a evitare i viaggi in Anatolia in occasione dei festeggiamenti per il capodanno curdo – il Newroz – che come sempre saranno occasione di enormi manifestazioni popolari attraverso le quali la comunità curda di Turchia rivendica tradizionalmente le proprie aspirazioni all’autogoverno e chiede il rispetto della proprie identità culturale e linguistica. “L’Ambasciata Usa ad Ankara informa i suoi cittadini che alla luce dei recenti eventi e delle vacanze per il Newroz, dovranno prendere precauzioni per la loro sicurezza. Le celebrazioni del Newroz sono state anticipate in varie località della Turchia tra il 17 e il 21 marzo. Le autorità locali hanno vietato grandi assembramenti in questo periodo per problemi di sicurezza” – si legge nella nota sul sito dell’ambasciata di Washington.

Giovedì inoltre le rappresentanze della Germania in Turchia – l’ambasciata tedesca ad Ankara, il consolato generale tedesco e la scuola tedesca di Istanbul – erano rimaste chiuse “per ragioni di sicurezza”.

Ieri il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva per l’ennesima volta esortato i Paesi europei a “non sostenere il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk)”, che il leader islamista ha citato come autore dell’attentato di Ankara nonostante la rivendicazione di un’altra organizzazione. Erdogan ha sottolineato che “non esiste alcuna ragione per cui la bomba scoppiata ad Ankara non possa esplodere in un’altra città in Europa. Ma nonostante questa evidente realtà, i Paesi europei non stanno prestando alcuna attenzione, come se danzassero in un campo minato”. Nelle stesse ore Erdogan ha chiesto con enfasi ad una apposita commissione istituita dal Parlamento di Ankara di revocare “rapidamente” l’immunità di cui ancora godono la maggior parte dei parlamentari eletti nelle liste del Partito Democratico dei Popoli (Hdp), compresi i due portavoce Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag – accusati ora di ‘incitamento al terrorismo’. “Dobbiamo risolvere rapidamente la questione dell’immunità. Il Parlamento deve compiere dei passi su questa questione rapidamente” ha insistito Erdogan durante un discorso ad Ankara.

Se per alcuni analisti e leader politici dell’opposizione (alcuni anche vicini all’Hdp) la recrudescenza degli attacchi da parte del Pkk e delle organizzazioni affini non fanno altro che fornire un pretesto al governo di Ankara per fomentare un nuovo giro di vite, sembra ormai chiaro che il regime islamista turco è pronto a una stretta radicale che tenta di accompagnare con la mobilitazione di un movimento reazionario di massa scagliato contro tutti coloro – curdi e turchi, di sinistra e non – che opponendosi alla sua politica vengono ora additati esplicitamente come ‘nemici della patria’ e ‘complici del terrorismo’. Erdogan ha apertamente lanciato un “aut aut” a quanti criticano la sua politica, affermando che ognuno deve oramai scegliere da che parte stare. Un “O con noi o contro di noi” attraverso il quale il regime spera di aggregare alcuni settori politici, imprenditoriali e intellettuali, ma anche sociali, che negli ultimi anni si sono allontanati dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo dopo il dilagare della corruzione, il sostegno indiscriminato concesso ai jihadisti in Siria, la sempre più brutale violazione dei diritti umani, civili e politici da parte del regime.

Il presidente turco – per molti semplicemente ‘il Sultano’vista la sua retorica e la sua agenda politica neo-ottomana – ha affermato che una nuova definizione di terrorismo deve essere inclusa nel codice penale turco, e che questa “deve essere estesa anche a quegli accademici, giornalisti e dirigenti delle organizzazioni non governative che mettono il proprio titolo o la propria voce a servizio dei terroristi per permettere che questi raggiungano i loro obiettivi”. Proprio nei giorni scorsi tre docenti universitari di Istanbul, tra i promotori della petizione degli accademici turchi e di tutto il mondo contro la selvaggia campagna militare condotta nel paese contro i movimenti curdi e la violazione delle libertà politiche e di stampa, sono stati arrestati in attesa di essere processati. Una sorte simile toccata precedentemente ad altre decine di ricercatori e docenti, mentre centinaia di loro colleghi sono stati denunciati per reati di opinione molto gravi e in attesa del processo sono stati sospesi dall’insegnamento o licenziati in tronco.

Una sorte simile tocca sempre più spesso ai giornalisti che osano mettere in dubbio i diktat dell’esecutivo. Giovedì il governo ha chiesto 23 anni di prigione per il fondatore del gruppo editoriale Dogan (di cui hanno parte Cnn Turk, Hurriyet e Kanal D), con l’accusa di contrabbando di carburante e propaganda terroristica; qualche giorno prima il quotidiano Zaman – il più diffuso del paese, appartenente ad ambienti islamisti e conservatori in rotta con Erdogan – è stato occupato dalla polizia e la sua linea editoriale repentinamente trasformata a favore del governo, mentre il direttore e il caporedattore del quotidiano laico Cumhuriyet rischiano l’ergastolo dopo aver passato tre mesi in cella d’isolamento. Anche il settimanale tedesco Der Spiegel ha annunciato di essere stato costretto a richiamare in patria il suo corrispondente a Istanbul, Hasnain Kazim, dopo che le autorità da mesi si rifiutano di rinnovargli l’accredito stampa.

Altri arresti – cinque uomini accusati di ‘omicidio volontario’ e di ‘minaccia all’integrità dello Stato e del popolo turco” – fanno lievitare in queste ore il consistente bilancio delle persone finite in manette nel corso di una vasta retata ordinata del governo che ha preso di mira alcune organizzazioni curde e di sinistra, sedi politiche, militanti e dirigenti del partito Hdp, avvocati attivi nella difesa delle organizzazioni oggetto di una persecuzione governativa che non è certo iniziata nel luglio dell’anno scorso dopo che il Pkk ha ripreso le azioni armate contro le forze di sicurezza mettendo fine a una tregua durata due anni e più volte violata dalla Turchia.

Sfidando il divieto delle autorità e la militarizzazione del paese – nei giorni scorsi altri 20 mila tra soldati e poliziotti sono stati dispiegati dal regime nelle zone a maggioranza curda – il movimento popolare curdo ha annunciato che non rinuncerà a festeggiare il Newroz nelle piazze delle metropoli del paese e delle città – Cizre, Nusaybin, Diyarbakir, Sirnak – distrutte da mesi di bombardamenti indiscriminati. Una festa davvero mesta, quella di quest’anno, macchiata dal sangue di parecchie centinaia di vittime della repressione, militanti e guerriglieri ma anche civili, passanti, donne e bambini uccisi nelle loro case dai militari, bruciati vivi durante l’assedio dei quartieri da parte dei carri armati. Una strage coperta dal coprifuoco, oltre che dal disinteresse dei media e dei governi occidentali.

Da parte sua la guerriglia curda e le organizzazioni militanti tentano esplicitamente di esportare il conflitto dalle loro roccaforti, oggetto di una repressione selvaggia e indiscriminata, alle grandi città turche. “Fino a poco tempo fa la guerra con l’esercito turco si svolgeva solo nelle montagne. Poi si è spostata nelle città. Adesso ci saranno combattimenti in ogni luogo” ha annunciato alcuni giorni fa al quotidiano britannico Times, Cemil Bayik, tra i leader storici del Pkk. Una strategia obbligata, secondo il comandante del partito combattente curdo, visto che “I turchi hanno saccheggiato e bruciato tutto quello che potevano nelle città curde dove sono stati imposti dei coprifuoco” e che sarebbe finalizzata a “far cadere Erdogan e il suo partito”.

Esattamente una settimana fa, nel corso di una conferenza stampa organizzata sulle montagne controllate dalla guerriglia, alcuni comandanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan e i rappresentanti di nove gruppi marxisti turchi clandestini hanno annunciato la costituzione del ‘Movimento rivoluzionario unito dei popoli’, un coordinamento politico e militare che si prefigge l’abbattimento del regime turco e la cacciata degli islamisti di Erdogan dal potere. Di fatto la plateale formalizzazione di una relazione tra il movimento curdo e alcuni gruppi armati dell’estrema sinistra turca che si era già cementata di fatto negli ultimi anni e che viene però aspramente criticata da altre formazioni della sinistra di classe o nazionalista turca che accusano i maoisti e i gruppi marxisti-leninisti di subordinare la propria strategia al ‘separatismo etnico’ e al “terrorismo” del Pkk.

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