Eppure, senza alcuno sforzo, in regime capitalistico le due cose vanno a coincidere, con la massimizzazione del profitto che contribuisce a sfoltire la massa dei viventi facilitando i decessi.
Non è affatto un ragionamento “ideologico”, ma una semplice constatazione. Basta guardare a quel che avviene nel mondo incantato dei farmaci “salvavita”, giunto a una svolta sia tecnologica che commerciale: ce ne sono oggi molti di più, ma i loro prezzi sono proibitivi. Non solo per i singoli pazienti, ma addirittura per i sistemi sanitari pubblici (che comunque vengono nutriti con la fiscalità generale di un paese).
Per i dettagli vi rinviamo all’articolo che segue, ripreso da La Stampa di qualche giorno fa. Qui preferiamo individuare la logica che governa “la svolta” in campo farmacologico.
È noto che l’alto prezzo dei nuovi farmaci viene da sempre giustificato con il fatto che le industrie devono recuperare gli investimenti in ricerca fatti per arrivare a produrli, prima che i brevetti giungano a scadenza e che chiunque, quindi, possa produrli in proprio abbattendo i prezzi al consumo.
Un argomento debole ma universalmente accettato, anche se – almeno per i farmaci indicati per patologie di massa – i tempi di “rientro” dagli investimenti sono notevolmente inferiori a quelli di vigenza del brevetto.
Poi, poco più di un anno fa, Martin Shkreli, giovanissimo amministratore delegato di una startup biotech, la Turing Pharmaceuticals, ha deciso di innalzare il prezzo del Daraprim da 13,5 a 750 dollari a tavoletta nel giro di 24 ore. Più 5.000%. Il fatto più indicativo è però che il Daraprim – usato per trattare pazienti con toxoplasmosi, malaria e Aids o patologie derivanti da un sistema immunitario indebolito – è una molecola piuttosto vecchiotta, sintetizzata oltre 60 anni fa, ma che per qualche motivo è ancora protetta da brevetto. Questo avido imprenditore ha semplicemente rovesciato il vecchio argomento a favore del prezzo alto: i maggiori introiti – promette – andranno a finanziare altre ricerche, non a ripagare investimenti già effettuati.
Ora è in arrivo una valanga di farmaci nuovi, tutti dichiarati eccezionalmente efficaci, dai prezzi altrettanto strabilianti. Se si trattasse di terapie per malattie rare, effettivamente ci sarebbe un pessimo rapporto tra costi di ricerca e “mercato”. Ma scorrendo la lista delle possibili applicazioni si nota subito che, al contrario, la maggior parte di queste novità va a investire patologie che colpiscono un numero enorme di persone in tutto il mondo: tumori, colesterolo alto, problemi cardiovascolari, infezioni (dall’Aids in giù), Alzheimer, fino ai comunissimi antibiotici.
Il mercato potenziale è dunque sconfinato, tale da permettere economie di scala vantaggiosissime per i produttori e tempi di ammortamento degli investimenti assai brevi.
Dunque, perché?
L’ansia di profitto è certo, come sempre, al primo posto. Ma si scorge anche un’intenzione “politico-sociale” più articolata. Prezzi spaventosi come quelli riferiti più sotto, infatti, selezionano una clientela privata così ristretta da essere economicamente svantaggiosa. Ma possono concorrere a mandare in default quel che resta dei sistemi sanitari pubblici, e quindi a modificare drasticamente la scala dei valori su cui si misura ciò che è possibile, giusto, etico, doveroso fare.
Ovvio che, come già sta avvenendo per esempio con il farmaco più efficace contro l’epatite C – il Sofosbuvir – alcuni di questi farmaci saranno “mutuabili” solo in particolari condizioni, per restringere al massimo la platea degli aventi diritto. Altrettanto ovvio, come hanno spiegato i medici, che molti dei pazienti non arriveranno vivi alla soglia-limite oltre cui scatta la somministrazione del farmaco.
Ovvio infine che, trattandosi di patologie “di massa”, questo diventerà un buon metodo per ridurre il numero dei malati a carico del sistema. Lasciandoli morire. Lo logica del risparmio e quella del profitto, in fondo, sono la stessa cosa.
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In Italia arrivano le pillole d’oro e il welfare rischia il collasso
di Paolo Russo
Farmaci salvavita ma cari da morire. Promettono di sconfiggere i tumori, mettere la museruola all’Hiv, combattere demenza e Alzheimer ma con costi, spesso intorno ai 100 mila euro per un ciclo terapeutico, che minacciano di sbancare il nostro welfare o, come già accade per l’epatite C, di confinarne l’uso solo ai malati più gravi.
Big-pharma li chiama «blockbuster», come i film di cassetta. Ma qui parliamo di pillole d’oro, capaci di far volare da 3 a 150 miliardi di dollari il valore di un’azienda come l’americana Gilead, che ha acquistato il brevetto del «Sofosbuvir», il primo medicinale capace di eradicare il virus dell’epatite C. Lo Stato italiano lo paga in media 15mila euro a ciclo terapeutico di 24 settimane, grazie al braccio di ferro ingaggiato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) con la Gilead, che era partita da 42mila ogni 12 settimane. «Contiamo di poter trattare tutti i malati di epatite nell’arco di sei anni grazie ai nuovi farmaci in arrivo, che costeranno meno, eradicheranno il virus in 4 anziché 12 settimane e con minori effetti collaterali. È per questo che non ha senso dilapidare ora risorse preziose per le persone infette ma senza malattia conclamata», spiega Luca Pani, direttore dell’Aifa.
Il bello o il problema è che di farmaci capaci di curare quel che prima non lo era ne sono in arrivo una valanga. L’Fda, l’agenzia del farmaco americana, ne ha autorizzati lo scorso anno 43, in attesa di sbarcare anche da noi con prezzi anche più alti di quelli della super pillola anti-epatite. Quasi la metà di questi medicinali è per la cura delle malattie rare. Gli altri sono contro vari tipi di tumore, l’insufficienza cardiaca, infezioni urinarie e intra-addominali gravi.
Tanti sono anche i farmaci in stato avanzato di sperimentazione. «Presto – assicura Pani – arriveranno nuovi medicinali capaci di “congelare” il virus dell’Hiv e di colpirlo appena tenta di uscire dalle riserve in cui si annida». Come dire che non ci saranno più nuove infezioni, che oggi marciano al ritmo del più 4% l’anno.
Pochi giorni fa sono intanto sbarcate sui banconi delle nostre farmacie le nuove iniezioni d’oro anticolesterolo. Alirocumab ed evolocumab sono i nomi impronunciabili dei due principi attivi. In attesa che l’Aifa ne contratti il prezzo per iscriverli nella lista dei mutuabili, sono disponibili, per chi può permetterseli, alla modica cifra di 1200 euro per un mese di terapia. «Anticorpi monoclonali capaci di ridurre il colesterolo del 75-85%, molto più delle vecchie statine, poco efficaci su quello di origine familiare» spiega Marcello Arca, specialista delle malattie del metabolismo lipidico del Policlinico Umberto I di Roma. Pur abbattendo i costi della metà, probabilmente i farmaci saranno mutuabili solo per chi ha alle spalle ischemie o infarti.
E sempre a caro prezzo sono in arrivo nuovi antibiotici. In attesa che si concludano le sperimentazioni già avanzate sugli anticorpi monoclonali contro l’Alzheimer e sindromi iniziali di demenza, informa l’Aifa.
È però sul fronte dei farmaci oncologici che si profila una vera rivoluzione. «Si è aperta una nuova era della medicina, da un lato con le genomica che consente di trovare la chiave per colpire le singole cellule tumorali e, dall’altro, con l’immunoterapia capace di generare reazioni dell’organismo in grado di sconfiggere il tumore», spiega il professor Maurizio Tomirotti, presidente del Cipomo, il Collegio dei primari oncologi. «La vera novità è che se fino a ora questi farmaci intelligenti si sono rilevati efficaci per tumori più rari, i nuovi risultano in grado di attaccare quelli a più alta diffusione, come i melanomi o i tumori alla mammella e al polmone». La speranza si affievolisce però parlando di costi. «Per una delle terapie in avanzato stato di sperimentazione si parla già di un milione di dollari per un anno di cura e la spirale dei prezzi sembra inarrestabile», ammette Tomirotti. «Per questo prima di tutto serve l’appropriatezza, ossia i soldi vanno investiti nei farmaci che hanno un reale alto valore terapeutico aggiunto». E tra le nuove pillole d’oro «non sempre è così», afferma citando uno studio Usa. Dove il tema delle pillole super costose è entrato con forza nella campagna elettorale.
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