Oggi la Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma ospiterà un incontro con Maria Elena Boschi, Ministro per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento, dal titolo “Portando l’Italia nel futuro: la riforma delle istituzioni”.
L’intera università viene tirata a lucido ancora una volta per quegli eventi che fungono esclusivamente da passerella per politici e governanti (come è già accaduto negli anni precedenti con il Ministro Padoan, il Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, il Presidente dell’Inps Tito Boeri e Claudio De Vincenti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) e viene messa in bella mostra come una vetrina (sono esemplificativi i casi della concessione della città universitaria de La Sapienza per la manifestazione di tre giorni della Maker Faire e la giornata odierna “Per una nuova primavera delle Università” organizzata dalla Conferenza dei Rettori delle Università italiane in tantissimi atenei di tutto il paese).
Invece, noi studenti e studentesse assistiamo ogni giorno alla decadenza delle strutture e al peggioramento dei servizi all’interno dei nostri atenei, con i quali ormai siamo costretti a convivere e a fare quotidianamente i conti. Ecco perché non ci facciamo più ingannare dalle favole sul rilancio dell’economia paese e delle riforme strutturali che “ci vengono chieste dall’Europa”: il governo Renzi ci sta portando in un futuro fatto di precarietà e insicurezza economica e sociale.
Il mondo universitario, ancora non colpito direttamente da alcuna riforma firmata Renzi & Co, è stato messo a dura prova dalla crisi economica, ancora in corso. La contrazione del numero di nuovi iscritti e di studenti laureati dimostra non solo il declino della formazione culturale in atto, ma anche e soprattutto il gonfiarsi sempre più di quell’esercito industriale di riserva di forza lavoro giovane e senza prospettive, costretta dalle condizioni oggettive a piegarsi alla macchina di sfruttamento del lavoro (nero, precario e sottopagato). Gli studenti immatricolati sono crollati del 20% circa (65mila in meno) in un decennio, mentre la disoccupazione giovanile continua a crescere, nonostante la propaganda renziana dell’investimento nella formazione universitaria e nell’occupazione dei giovani. Il quadro è arricchito dalle considerazioni sul divario tra le università del Nord e del Sud del Paese, che vede le seconde perdere iscritti e fondi in maniera permanente. A fronte di tutto ciò, il titolo di studio accademico sta perdendo valore: non c’è bisogno di studenti laureati, ritenuti “overskilled” (più che qualificati), in un mercato del lavoro che richiede una maggior capacità di adattamento e di impiego piuttosto che competenze e conoscenze specifiche. Lo ha chiarito il Ministro del Lavoro Poletti, meglio laurearsi subito con un voto mediocre, meglio finire presto l’università per orientarsi subito al lavoro (meglio andare subito a lavorare senza neanche passare per l’università, ci verrebbe da dire). Senza voler semplificare troppo, ma il discorso è chiaro: se vuoi studiare, lo fai a tue spese (in tutti i sensi) e a queste condizioni.
L’alternativa (non risultato di una scelta) è l’emigrazione: la “fuga dei cervelli indotta” è frutto di fattori critici e problemi strutturali, riguardanti le condizioni oggettive degli ultimi anni di crisi economica e sociale che si intrecciano inevitabilmente con i continua attacchi al mondo del lavoro. Di conseguenza, numerosi giovani sono costretti a emigrare: non solo per progetti di ricerca che effettivamente riconosca un adeguato compenso per determinate qualità e conoscenze, ma anche per impieghi che garantiscano un minimo di tutele sociali. Ci vogliono far credere che la disoccupazione sia colpa nostra perché non incarniamo le aspettative del mercato del lavoro o siamo troppo “choosy”. In realtà, siamo di fronte a una ridefinizione del processo di accumulazione capitalistica e il ristrutturarsi di questo sistema passa anche per una modifica del sistema della formazione, sia come riserva di forza lavoro dalla quale attingere sempre a più basso costo che come occasione di investimento profittevole da parte di privati e imprese. Mentre assistiamo a una continua mercificazione delle conoscenze, spendibili su un mercato del lavoro internazionale, anche in Europa si delinea sempre più la contrapposizione tra le università del blocco centrale e quelle dei paesi periferici.
Nelle università italiane, si palesano in maniera netta e chiara quali sono i cardini sui quali il sistema di produzione capitalistico deve ricominciare a girare: concorrenza individuale tra studenti e ricercatori, accesso ristretto sia dal punto di vista fisico (con il numero chiuso) che economico (con l’innalzamento delle tasse universitarie), messa a valore delle capacità e dei prodotti della ricerca che sappiano garantire profitti più elevati nel breve periodo, rilancio degli stage e dei tirocini non retribuiti.
Per questo motivo, non abbiamo bisogno che ci venga ribadito dal Ministro Boschi, né da qualunque altro esponente di questa classe dirigente, quale sia il percorso di riforme che il governo intende intraprendere per il futuro di questo paese, cercando per l’ennesima volta di ingannare o manipolare la realtà che tale sistema ci impone. Ancora una volta, la propaganda sul futuro, maschera di un “governo giovane”, cerca di offuscare e sviare l’attenzione dall’analisi delle misure politiche, economiche e sociali adottate e applicate nel presente. Conosciamo bene quale è il percorso già costruito e determinato (e che sta a noi rompere), soprattutto alla luce delle riforme già attuate, che sono sufficienti a delineare il quadro generale e a individuare gli obiettivi principali che questo governo intende portare avanti.
Quali sarebbero le misure per cui le giovani generazioni dovrebbero ringraziare questo governo?L’intera università viene tirata a lucido ancora una volta per quegli eventi che fungono esclusivamente da passerella per politici e governanti (come è già accaduto negli anni precedenti con il Ministro Padoan, il Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, il Presidente dell’Inps Tito Boeri e Claudio De Vincenti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio) e viene messa in bella mostra come una vetrina (sono esemplificativi i casi della concessione della città universitaria de La Sapienza per la manifestazione di tre giorni della Maker Faire e la giornata odierna “Per una nuova primavera delle Università” organizzata dalla Conferenza dei Rettori delle Università italiane in tantissimi atenei di tutto il paese).
Invece, noi studenti e studentesse assistiamo ogni giorno alla decadenza delle strutture e al peggioramento dei servizi all’interno dei nostri atenei, con i quali ormai siamo costretti a convivere e a fare quotidianamente i conti. Ecco perché non ci facciamo più ingannare dalle favole sul rilancio dell’economia paese e delle riforme strutturali che “ci vengono chieste dall’Europa”: il governo Renzi ci sta portando in un futuro fatto di precarietà e insicurezza economica e sociale.
Il mondo universitario, ancora non colpito direttamente da alcuna riforma firmata Renzi & Co, è stato messo a dura prova dalla crisi economica, ancora in corso. La contrazione del numero di nuovi iscritti e di studenti laureati dimostra non solo il declino della formazione culturale in atto, ma anche e soprattutto il gonfiarsi sempre più di quell’esercito industriale di riserva di forza lavoro giovane e senza prospettive, costretta dalle condizioni oggettive a piegarsi alla macchina di sfruttamento del lavoro (nero, precario e sottopagato). Gli studenti immatricolati sono crollati del 20% circa (65mila in meno) in un decennio, mentre la disoccupazione giovanile continua a crescere, nonostante la propaganda renziana dell’investimento nella formazione universitaria e nell’occupazione dei giovani. Il quadro è arricchito dalle considerazioni sul divario tra le università del Nord e del Sud del Paese, che vede le seconde perdere iscritti e fondi in maniera permanente. A fronte di tutto ciò, il titolo di studio accademico sta perdendo valore: non c’è bisogno di studenti laureati, ritenuti “overskilled” (più che qualificati), in un mercato del lavoro che richiede una maggior capacità di adattamento e di impiego piuttosto che competenze e conoscenze specifiche. Lo ha chiarito il Ministro del Lavoro Poletti, meglio laurearsi subito con un voto mediocre, meglio finire presto l’università per orientarsi subito al lavoro (meglio andare subito a lavorare senza neanche passare per l’università, ci verrebbe da dire). Senza voler semplificare troppo, ma il discorso è chiaro: se vuoi studiare, lo fai a tue spese (in tutti i sensi) e a queste condizioni.
L’alternativa (non risultato di una scelta) è l’emigrazione: la “fuga dei cervelli indotta” è frutto di fattori critici e problemi strutturali, riguardanti le condizioni oggettive degli ultimi anni di crisi economica e sociale che si intrecciano inevitabilmente con i continua attacchi al mondo del lavoro. Di conseguenza, numerosi giovani sono costretti a emigrare: non solo per progetti di ricerca che effettivamente riconosca un adeguato compenso per determinate qualità e conoscenze, ma anche per impieghi che garantiscano un minimo di tutele sociali. Ci vogliono far credere che la disoccupazione sia colpa nostra perché non incarniamo le aspettative del mercato del lavoro o siamo troppo “choosy”. In realtà, siamo di fronte a una ridefinizione del processo di accumulazione capitalistica e il ristrutturarsi di questo sistema passa anche per una modifica del sistema della formazione, sia come riserva di forza lavoro dalla quale attingere sempre a più basso costo che come occasione di investimento profittevole da parte di privati e imprese. Mentre assistiamo a una continua mercificazione delle conoscenze, spendibili su un mercato del lavoro internazionale, anche in Europa si delinea sempre più la contrapposizione tra le università del blocco centrale e quelle dei paesi periferici.
Nelle università italiane, si palesano in maniera netta e chiara quali sono i cardini sui quali il sistema di produzione capitalistico deve ricominciare a girare: concorrenza individuale tra studenti e ricercatori, accesso ristretto sia dal punto di vista fisico (con il numero chiuso) che economico (con l’innalzamento delle tasse universitarie), messa a valore delle capacità e dei prodotti della ricerca che sappiano garantire profitti più elevati nel breve periodo, rilancio degli stage e dei tirocini non retribuiti.
Per questo motivo, non abbiamo bisogno che ci venga ribadito dal Ministro Boschi, né da qualunque altro esponente di questa classe dirigente, quale sia il percorso di riforme che il governo intende intraprendere per il futuro di questo paese, cercando per l’ennesima volta di ingannare o manipolare la realtà che tale sistema ci impone. Ancora una volta, la propaganda sul futuro, maschera di un “governo giovane”, cerca di offuscare e sviare l’attenzione dall’analisi delle misure politiche, economiche e sociali adottate e applicate nel presente. Conosciamo bene quale è il percorso già costruito e determinato (e che sta a noi rompere), soprattutto alla luce delle riforme già attuate, che sono sufficienti a delineare il quadro generale e a individuare gli obiettivi principali che questo governo intende portare avanti.
* Il Jobs Act, cavallo di battaglia del pacchetto-riforme del Governo Renzi e della sua demagogia propagandistica del rilancio dell’occupazione, che non ha fatto altro che indebolire ancora di più i diritti dei lavoratori a vantaggio delle imprese, le quali sfruttano nuove forme contrattuali per licenziare in maniera più facile e per poi fare finte neo-assunzioni con il nuovo “contratto a tutele crescenti”, ottenendo ingenti sgravi fiscali sulla pelle dei lavoratori, come accaduto ai 70 lavoratori del settore della logistica dei magazzini della catena di supermercati Prix a Grisignano, caso recente e non isolato. Mentre il governo continua a riproporre statistiche sull’aumentato numero di occupati, la molla del Jobs Act è già arrivata al massimo della sua estensione: come dimostrano i dati l’Osservatorio sul precariato dell’Inps, adesso che la fase di incentivi e sgravi fiscali è giunta al termine il numero dei contratti a tempo indeterminato è crollato nuovamente.
* Le richieste incessanti di maggior flessibilità del lavoro e dei lavoratori, che hanno portato all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevedeva il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giustificato motivo, mentre adesso il datore di lavoro potrà semplicemente versare al lavoratore dipendente un indennizzo lasciandolo in mezzo alla strada.
* Le false speranze di “Garanzia giovani”, il progetto lanciato con i fondi europei per favorire l’occupazione dei giovani, tra i 15 e i 29 anni, disoccupati o non inseriti in un percorso di studio universitario o formativo, i cosiddetti Not in Education, Employment or Training, che non ha fatto altro che consegnare alle aziende e alle imprese un enorme bacino di forza lavoro praticamente a costo zero, attraverso stage, tirocini, apprendistati e altre forme di impiego a brevissimo termine. Come se non bastasse alimentare un futuro fatto di precarietà e sfruttamento, in cui il lavoro sarà basato sempre sull’utilizzo e la diffusione di voucher (di cui si fa già ampio uso nei settori del lavoro non dipendente e che negli ultimi mesi sono cresciuti in modo esponenziale), numerosi giovani iscritti al programma e arrivati a scadenza del contratto non hanno visto neanche un centesimo di retribuzione né tantomeno un minimo di rimborso spese. L’obiettivo è l’occupabilità, non l’occupazione; queste false politiche attive del lavoro si sostanziano in un processo di “precarizzazione sin dalla nascita”, necessaria per indurre i giovani ad abituarsi a guadagnare poco, a non avere diritti, a non poter scioperare, rendendoli inadeguati e ricattabili. Buona parte dei fondi europei messi a disposizione si sono dispersi in formazioni inutili e nelle pratiche amministrative e burocratiche dei centri per l’impiego e delle agenzie per il lavoro private, arricchendone i gestori e non i beneficiari effettivi.
* La riforma del nuovo Isee, che, come tutti noi abbiamo potuto notare, ci ha resi più ricchi senza saperlo, solo attraverso la modifica di alcuni coefficienti di calcolo; così ci siamo trovati a pagare tasse universitarie più elevate a fronte di una riduzione e un peggioramento dei servizi. L’innalzamento fittizio dell’Isee (indicatore situazione economica equivalente) ha avuto conseguenze reali devastanti per molti studenti, molti dei quali si sono trovati esclusi da borse di studio e dai bandi per gli alloggi, costringendo le famiglie, soprattutto degli studenti fuori sede, a sacrifici maggiori. Dalle borse di studio sono rimasti esclusi il 20% degli studenti che prima avevano diritto, a causa questa volta del nuovo metodo di calcolo dell’Ispe (indicatore situazione patrimoniale equivalente), per un totale di circa 28mila studenti e studentesse.
* Il decreto Buona Scuola e alternanza scuola-lavoro, che promuove stage e tirocini gratuiti per gli studenti delle scuole superiori, paventati come opportunità e occasione di formazione per gli studenti stessi ma che in realtà forzano i giovani a fare i conti con un mercato del lavoro sempre più interessato alla mercificazione delle nostre conoscenze e alla messa a valore delle nostre capacità.
* Sebbene il governo Renzi non abbia ancora varato una riforma dell’università, sta già preparando il terreno a una serie di interventi volti a distruggere il sistema di istruzione pubblica universitaria. Lo dimostra la sostanza contenuta dietro la patina di lucido con cui il PD ha impacchettato la cosiddetta “Carta di Udine” lo scorso ottobre. In piena linea con le dichiarazioni estemporanee rilasciate periodicamente dal loro segretario e primo ministro.
* Il continuo
definanziamento delle università pubbliche in corso da più di venti anni
e la crescente visione e diffusione del concetto
dell’università-azienda creano numerosi spazi di intervento per i
privati i quali mirano esclusivamente a trarre profitto dallo
sfruttamento delle risorse pubbliche, in particolare dal lavoro dei
ricercatori universitari.
* Lo dimostra l’accordo tra La Sapienza e la società K-Cube,
che sancisce la valorizzazione e commercializzazione dei prodotti della
ricerca universitaria da parte della società in questione attraverso la
svendita dell’intero portafoglio brevetti e dei progetti di ricerca,
soprattutto nel settore tecnologico, farmaceutico e biomedicale. In
poche parole, gli investimenti di risorse pubbliche e il lavoro di
numerosi ricercatori permetteranno di accrescere i profitti privati
della società, con un misero e scarso ritorno per l’università. Quella
che viene presentata come un’operazione senza costi per La Sapienza (si
vede che l’appropriazione da parte di privati del sapere comune pubblico
non conta, o almeno non è suscettibile di valorizzazione in una voce di
bilancio) viene inoltre presentata come convenienza per l’università
stessa, la quale potrà godere dei frutti (miseri, ripetiamo) derivanti
dalla valorizzazione e dalla commercializzazione dei suoi brevetti. “Se
mancano i soldi, allora ben vengano i privati intenzionati a
metterceli”, ci hanno più volte raccontato. Eppure sappiamo benissimo
che non si tratta di un problema di scarsità di fondi, quanto di loro
destinazione per altri impieghi (magari più redditizi): se
si vuole veramente investire nelle università, perché non rifinanziarla
cominciando con gli ingenti fondi che invece vengono destinati alle
spese militari e ai programma d’arma, che nel triennio
2015-2017 ammontano a circa 13 miliardi (senza contare gli aggiornamenti
alle poste relative all’acquisto degli F-35, fissate ai minimi ma di
cui si discute un aumento)?
Cara Ministro Boschi, il futuro nel quale il quale il vostro programma di riforme ci sta portando è quello della precarietà e dell’insicurezza, del lavoro con voucher giornalieri senza tutele e garanzie, della polarizzazione e dello sfruttamento di classe, dell’emigrazione forzata per i giovani disoccupati o laureati che non trovano lavoro, della povertà economica e dell’esclusione sociale, del conflitto interno contro il mondo del lavoro e dello scenario di guerra internazionale. Per non parlare degli spazi di rappresentanza democratica: i poteri forti legati al mondo dell’industria e dell’alta finanza, come la sua famiglia sa bene, stanno impedendo la democrazia sostanziale già da molto tempo. E oggi, con la sua riforma istituzionale, anche quella formale si incrina sempre di più.
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