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24/03/2016

Johan Cruijff, morte di un poeta

Johan Cruijff è morto all’età di 68 anni, a Barcellona, dopo che lo scorso ottobre gli era stato diagnosticato un tumore ai polmoni. Poeta, calciatore, allenatore: in quest’ordine. Il suo nome è legato all’Ajax, al Barcellona, alla Catalogna e, soprattutto, alla grande Olanda del mondiale del 1974: secondo posto e invenzione del calcio totale, cioè di quella particolare variante del gioco del pallone in cui tutti fanno tutto, e lo fanno molto bene. Un’orchestra jazz in cui ognuno è un solista che suona da dio, ma che solo insieme agli altri compone la perfezione. L’Arancia Meccanica, il soprannome giornalistico coniato all’epoca sull’onda del successo del film di Kubrick.

Affrontare l’Olanda era come andare incontro a un incubo, per gli avversari. Per la cronaca, nel 1974 in Germania Ovest, i tulipani si arresero solo ai padroni di casa, rimontati dopo che il gol del vantaggio era arrivato in appena 120 secondi dalla battuta del calcio d’inizio. Succede. I tedeschi pure avevano uno squadrone, e gli olandesi non hanno la fama di quelli belli e incompiuti per caso. Più drammatiche le vicende del 1978, in Argentina, in un mondiale vinto più dal generale Videla che da Mario Kempes e compagni. Cruijff non c’era: dopo aver guidato la sua nazionale durante le qualificazioni decise di non imbarcarsi per il Sud America, non si è mai capito se per motivi politici o personali.

Uno sguardo ai numeri, giusto un attimo perché non bisogna distrarsi dalla poesia: in carriera Cruijff ha giocato 716 partite ufficiali segnando 402 reti. «Profeta del gol» come da documentario diretto da Sandro Ciotti o «Pelè bianco» secondo l’opinione di Gianni Brera. Ok, Johan era tutto questo, ma anche qualcosa di più. La perfezione stilistica, il distillato di pura tecnica, fiato e potenza, attaccante, centrocampista, rifinitore, fantasista, genio. Dove lo mettevi, stava. Se uno non si innamora del calcio guardando Cruijff, non è proprio interessato alla materia. Il numero 14 sulle spalle, un planetoide che porta il suo nome (il numero 14.282, per gli appassionati), Cavaliere della Casa d’Orange, membro onorario della Reale Federazione Calcistica dei Paesi Bassi, allenatore della Catalogna per un paio di partite. La leggenda è nel dettaglio, anche se la grandezza di Johan Cruijff è assai più della somma delle sue partite e dei suoi gol. Bisogna andare a guardarselo su Youtube: è un’esperienza estetica, non un giocatore di pallone.

Basette da rockstar, temperamento da divo del cinema, carattere spigoloso e polemista nato. Cruijff è il simbolo di una generazione di sognatori per necessità più che per scelta. Come diceva Galeano: ogni passo che fai verso l’utopia, questa si allontana di un altro passo e non la raggiungerai mai, ma almeno ti servirà per camminare in avanti. La sconfitta dell’Olanda nel 1974 è il simbolo di tutto questo: perdere a testa altissima dopo aver dato lezioni al mondo intero.

Il tipo, poi, era anche consapevole di tutto questo. E non deve essere stata una cosa facile avere a che fare con lui su un campo da calcio. Un aneddoto che è tutto un dire: il vigoroso ex attaccante argentino Jorge Valdano racconta di una volta in cui, quando lui era giovanissimo e Cruijff già era Cruijff, verso la metà del secondo tempo di una partita Johan si mise a protestare con l’arbitro per un fallo senza importanza. Valdano si avvicinò per dirgli di smetterla e che, insomma, sarebbe stato meglio ricominciare a giocare. L’olandese a quel punto lo guardò, gli chiese quanti anni avesse e poi gli diede uno schiaffo: «Ragazzo, a ventuno anni a Cruijff si dà del lei». Come dargli torto?

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