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22/03/2016

Nasrallah: "Continueremo a combattere in Siria"

di Roberto Prinzi

Continua la ritorsione dei Paesi del Golfo contro Hezbollah. Dopo il Bahrein, ieri è stato il turno del Kuwait dove 14 persone (11 libanesi e 3 irachene) sono stata espulse su richiesta dei servizi segreti locali perché, scrive il quotidiano al-Qabas, “appartenevano al Partito di Dio“. Citando fonti della sicurezza, il giornale ha detto che l’intelligence kuwaitiana ha preparato una nuova lista di cittadini “non desiderati” che saranno deportati. Alcuni di questi proscritti sarebbero pezzi grossi del mondo della industria – ha rivelato al-Qabas – senza fornire ulteriori dettagli. Nel mistero che avvolge la vicenda, la cosa certa è che ai cittadini espulsi sarà vietato l’ingresso in uno dei cinque stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati arabi uniti, Qatar, Oman e Bahrein). Dunque la battaglia del blocco sunnita contro la formazione sciita procede spedita e non crediamo di esagerare nell’affermare che a breve altri “sospetti” sostenitori del Partito di Dio saranno cacciati con un preavviso di poche ore dalle ricche monarchie del Golfo.

La campagna di deportazioni contro i “terroristi” sciiti l’aveva aperta una settimana fa il Bahrein. Manama era stata la più lesta di tutti a tradurre in pratica una risoluzione adottata solamente pochi giorni prima dai ministri degli esteri della Lega araba che proclamava il movimento libanese una “organizzazione terroristica”. Un passo compiuto su pressione dell’Arabia Saudita, a nessuno sfugga questo dettaglio, e che era la logica conseguenza di quanto stabilito dieci giorni prima da Riyadh e dalle altre monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Indifferente alla black list della Lega araba, il Partito di Dio ostenta sicurezza. Intervistato ieri dalla rete panaraba al-Mayadeen, il suo Segretario generale, Hassan Nasrallah, ha detto che i suoi uomini continueranno a combattere affianco di al-Asad finché “lo Stato Islamico (Is) ed al-Qa’eda non saranno sconfitte“. “Siamo andati in Siria affinché il Paese non cadesse nelle mani di Da’esh [altro nome per l’Is, ndr] e il Fronte an-Nusra [ramo siriano di al-Qa’eda, ndr] – ha spiegato Nasrallah – pertanto abbiamo una responsabilità e per questo motivo noi resteremo lì”. Una presenza sui campi di battaglia che continuerà qualunque siano le mosse degli altri attori regionali e internazionali (“rimangano o meno russi e iraniani, il destino dei nostri fratelli siriani è uno e indivisibile”). Per Nasrallah non c’è solo in ballo il destino del regime ba’athista, ma è soprattutto in gioco il futuro dello stato libanese perché “se la Siria cade nelle mani di Da’esh e di an-Nusra, allora anche il Libano è finito”. A chi lo accusa di alimentare il conflitto nello stato arabo confinante, l’esperto leader sciita ha prontamente risposto di volere “una soluzione politica”

Una soluzione, quest’ultima, che appare sempre più un miraggio. Emblematiche, a riguardo, sono state le dure (ma non affatto nuove) accuse rivolte all’opposizione siriana da parte del capo della delegazione a Ginevra del governo siriano. Secondo Bashar al-Ja’afari, i ribelli “sostengono il terrorismo e rifiutano di formare un fronte comune contro di esso” (si ricordi che per Damasco la gran parte dell’opposizione al governo è “terrorista”). Per il capo della diplomazia siriana, tra i principali alleati del “terrorismo” vi sono la Turchia (“aiuta i jihadisti”) e Israele (“sta curando i terroristi nei suoi ospedali con i soldi pagati dal Qatar”). Va da sé che con queste premesse qualunque dialogo di pace appare destinato a fallire. Un fiasco clamoroso soprattutto perché tra le due parti, come ripetuto ieri da Ja’afari, continua ad esserci una profonda differenza di vedute riguardo al destino del presidente siriano. Per i ribelli, “il macellaio” deve cadere senza se e senza ma. Di tutt’altro avviso è Damasco: la rimozione di al-Asad è cosa inimmaginabile al punto tale che non viene affatto affrontata nei negoziati di Ginevra.

Che non si stiano facendo progressi diplomatici è chiaro a tutti. Soprattutto all’inviato Onu per la Siria, Staffa de Mistura, che ieri, replicando a Ja’afari, non ha nascosto la sua frustrazione per lo stallo politico attuale: “[il governo di transizione] prematuro vuol dire per me imminente. La transizione è infatti la madre di tutte le questioni”. “La cessazione delle ostilità – ha argomentato l’alto rappresentante internazionale – sta reggendo così come procede l’aiuto umanitario, ma nulla può durare se non compiamo progressi su questo punto”.

De Mistura non ha nascosto poi la sua preoccupazione per l’avvertimento di ieri della Russia: Mosca sarebbe pronta a compiere azioni punitive unilaterali contro coloro che violano il cessate il fuoco. Una unilateralità che – accusa il Cremlino – dipende dal fatto che Washington non è stata in grado di concordare una procedura comune su come affrontare le interruzioni della tregua.

Sempre dal punto di vista diplomatico, ieri la Lega araba ha ribadito ufficialmente la sua contrarietà a riconoscere la federazione curda nel nord della Siria (posizione condivisa anche dai governi siriano e americano). In una nota, l’organizzazione politica degli stati del Nord-Africa, del Corno d’Africa e del Medio Oriente ha detto che “l’unificazione dei territorio siriani” è un importante fattore per raggiungere la stabilità nella regione. Il vice segretario generale della Lega araba, Ahmed Ben Helli, è stato chiaro a riguardo: “questi proclami separatisti minacciano l’unità della Siria. Uno dei nostri principi fondamentali sul conflitto siriano si basa sull’unità del Paese e la sua integrità territoriale”.

Resta da capire di quale unità parli Ben Halli. Con i curdi che controllano la zona settentrionale della Siria, con lo Stato islamico che governa ampie aree orientali e centrali del Paese, con il regime che governa la fascia costiera e occidentale e con sacche di ribelli “moderati” che controllano le rimanenti zone, parole quali “unità e integrità” appaiono termini del tutto fuori luogo.

A ricordarlo sono poi i combattimenti (la presunta tregua, infatti, non vale nei confronti dei miliziani del “califfato” e dei qa’edisti). Ieri l’Is è avanzato nella parte meridionale della Siria conquistando, per la prima volta, villaggi e cittadine nella provincia di Dar’a che erano sotto il controllo di an-Nusra e dei salafiti di Ahrar as-Sham. Una lotta violenta e fratricida quella in corso tra gli uomini del “califfo” e i due gruppi islamisti radicali (un tempo alleati in chiave anti-Asad) che dà l’idea della resa dei conti e del “si salvi chi può” in atto ormai in Siria. A cadere nelle mani delle “Brigate dei martiri di Yarmouk” e del movimento islamico Muthanna (due formazioni ritenute affiliate all’Is) sono stati i villaggi di Tseel e ‘Adwan dove un numero imprecisato di residenti sarebbe stato giustiziato.

Ma la guerra continua anche un po’ più a est, vicino Palmira, dove i soldati dell’esercito siriano – sostenuti dagli aerei da guerra russi – sono ormai vicinissimi (4 chilometri) alla città, patrimonio mondiale dell’Unesco. Secondo l’Osservatorio siriano, ong di stanza a Londra e vicina all’opposizione, l’avanzata procede “lentamente”, ma in modo costante. “La battaglia per Palmira – ha osservato il direttore dell’organizzazione, Rami Abdel Rahman – è decisiva per il regime perché spianerebbe la strada alla cattura dell’intera area desertica fino al confine con l’Iraq”.

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