A quanto pare le truppe siriane di Assad hanno riconquistato Palmira e si apprestano, congiuntamente alle forze irachene, ad attaccare Raqqa, capitale del Califfato. Nella ripresa delle forze di Assad è palese l’effetto della campagna russa partita a ottobre. Nello stesso tempo si annuncia la resa di Boko Haram (o forse solo del suo capo, non si capisce bene)
ed in Europa c’è stata una vasta retata che ha portato all’arresto di
centinaia di presunti jhiadisti (vedremo poi se verranno riconosciuti
tali, tutti o in parte ed in che proporzioni). Tutte ottime notizie, se
troveranno conferma, e non possiamo che esserne compiaciuti. Però, non facciamoci troppe illusioni: non è la fine della Jhiad e l’uscita dal tunnel è ancora molto lontana.
In primo luogo, anche se Raqqa fosse presa (come ci auguriamo che accada
al più presto) questo non significa la fine del Califfato che
continuerebbe ad avere territori abbastanza estesi, anche se magari
frammentati. Inoltre, ricordiamoci che l’Isis, quando era ancora Aqi (Al
Quaeda in Iraq), era giunta alle soglie di Baghdad per poi dover
recedere davanti all’avanzata di Petraeus, e tornò alla clandestinità
più completa con grande agilità. La principale caratteristica che
distingue l’Isis da Al Quaeda ed alle altre forme di Jhiad è il suo carattere “anfibio”,
per il quale passa molto velocemente dal campo aperto della sovranità
al sommerso della clandestinità, per poi tornare a spuntare alla luce
del sole. Dunque, è del tutto ragionevole attendersi che, anche se
l’attuale territorio del Califfato fosse interamente occupato da curdi,
siriani ed iracheni, questo non significherebbe la fine delle ostilità,
ma il passaggio ad una fase di guerriglia.
Poi non dimentichiamoci che l’Isis è presente in modo organizzato in almeno 28 paesi
(stando ai giornali, ma è lecito sospettare che lo sia anche in altri),
per cui, anche una sconfitta sullo scenario siriano ed iracheno
potrebbe coincidere con l’emergere dell’Isis in altra parte del pianeta.
E, infine, l’Isis non è la jihad ma solo una sua componente: allo stato
dei fatti la più rilevante e pericolosa, ma, comunque non l’unica. E
questo è ancora più vero sul terreno europeo, dove gli attentati
potrebbero tranquillamente proseguire molto a lungo anche ad opera di
cellule spontanee ed isolate.
E qui veniamo alle recenti retate, che
sono un’ottima notizia in se, ma suscitano qualche perplessità. Se in
pochi giorni dalla strage di Bruxelles la polizia mette dentro tanti sospetti terroristi, sorge una domanda: come hanno fatto in così poco tempo ad identificarli?
E le risposte possibili sono solo due: o già erano noti – ma allora,
perché si è aspettata la strage per muoversi? I terroristi vanno
arrestati prima degli attentati, dopo è sempre una sconfitta –. Oppure i
servizi e la polizia hanno messo insieme un po’ di soliti noti tenuti in
freezer per l’occasione giusta, ci hanno mescolato un po’ di personaggi
vagamente sospettati (magari anche terroristi veri, ma su cui non ci
sono prove e che finiranno per uscire), poi un po’ di gente a casaccio
ed ha fornito il tutto in pasto all’opinione pubblica per dimostrare che
stanno facendo qualcosa. Tanto, poi nessuno si prende la briga di
sapere che fine hanno fatto questi arrestati (condannati definitivi?
Assolti? Espulsi? Morti? Chissà!) e l’importante è dare adesso qualcosa a
giornali e televisioni. Solo che in questo modo si danneggiano le
indagini, si mandano in bestia quelli che non c’entrano e le loro
famiglie e si raccoglie molto poco. Speriamo non vada così, però tutto
questo ci suggerisce un dubbio ulteriore.
Quanto 25 anni fa cadde l’Urss, non fu
affatto una buona notizia per i nostri servizi: venuto meno “il” nemico,
si cominciava a parlare di conversione dei servizi nella lotta
anticrimine e nella guerra economica, ma si trattava di cose assai vaghe
e che, peraltro, accendevano forti rivalità con gli organi di polizia
giudiziaria. Per qualche anno fu vita grama che faceva intravedere tagli
di organici e di bilanci, carriere rallentate eccetera. Poi sorse
l’astro brillante del terrorismo islamico: un nemico vero, preciso,
minaccioso, non una cosa indeterminata e di poco effetto psicologico ed
avere un nemico fa comodo... E fu di nuovo primavera di soldi e carriere.
Chissà, forse i servizi non hanno poi
tutta questa fretta di sconfiggere tale nemico, senza il quale si
rischia di tornare ai tempi grami. Certo ci sono Cina e Russia, ma
quelli sono ossi troppo duri e poi, essendo degli Stati regolari, la
politica vuol dirigere lei le cose a modo suo, il mondo degli affari ha
le sue esigenze e magari può frenare. Il mondo della globalizzazione è
così strano che l’alleato di oggi fa presto a diventare il nemico di
domani e vice versa. Mentre il terrorista è sempre un bel tipo di
nemico: niente complicazioni diplomatiche o di affari (per lo meno alla
luce del sole), tutto campo di azione dei servizi. Non è che i servizi
ci si stiano affezionando un po’ troppo a questo carissimo nemico?
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