“Ma come si fa a far ridere quando siamo in guerra. Perché siamo in guerra… La politica non lo dice, ma tra i comici la notizia circola già. E dal momento che siamo in guerra, oggi hanno attaccato loro, perché in guerra si fa un po’ per uno: un po’ attacchi tu, un po’ attacco io. Con modalità diverse dalle nostre. Perché noi attacchiamo coi droni e loro coi trolley. Loro fanno attacchi terroristici, noi invece facciamo raid”.
Ci voleva un ‘comico’ come Maurizio Crozza per ricordare al grande pubblico che siamo in guerra. Ce lo ricordano la stampa e la politica ogni volta che della gente salta in aria o viene crivellata di proiettili nelle nostre città, salvo dimenticarsene quando a cadere negli attentati della galassia jihadista sono sconosciuti cittadini arabi, mediorientali, addirittura musulmani. “Siamo in guerra” tuonarono media e governi dopo l’eccidio nella redazione di Charlie Hebdo. “Siamo in guerra” di nuovo dopo la strage del Bataclan. “Siamo in guerra” hanno ribadito ieri dopo l’esplosione che ha falciato decine di persone in partenza dallo scalo di Bruxelles. Eppure tendiamo a dimenticarcene, a pretendere – l’invito da parte di politici e commentatori è insistente – di continuare a vivere come se nulla fosse. Ma non è possibile, perché nelle guerre si fa un po’ per uno. Una volta muoiono i civili bombardati dai nostri caccia e dai nostri droni – ma quello non è terrorismo, per carità! – e una volta muoiono i passeggeri nelle nostre metropolitane o gli ignari partecipanti ad un concerto heavy metal.
Se qualcuno pensava che sarebbe bastato sguinzagliare qualche migliaio di militari in giro per le capitali europee (tra l’altro, il più delle volte, a dare la caccia ai passeggeri senza biglietto o a fischiare alle turiste più appariscenti) per impedire che lo scenario di Parigi si ripetesse ha sbagliato i conti, e di tanto.
La sicurezza e la rappresentazione della sicurezza sono due cose molto diverse, ed oltretutto in contraddizione. Mentre la seconda mira ad aumentare la sensazione di essere al riparo dalle conseguenze della irresponsabile e nefanda politica estera dei vari paesi europei e dell’Ue in quanto tale, la prima dovrebbe mirare a sottrarre i nostri paesi ad una guerra che combattiamo, volenti o nolenti, da almeno 25 anni in due diversi continenti.
Se la messa in scena della sicurezza serve a tranquillizzare gli elettori – ma solo fino al prossimo attacco, alla prossima strage – la ricerca della sicurezza dovrebbe mirare ad aumentare l’integrazione delle comunità immigrate nelle nostre metropoli, sottraendo ai propagatori del virus jihadista argomenti e appeal tra le seconde e le terze generazioni tenute ai margini dalle nostre società.
Dopo la strage di Bruxelles, esattamente come dopo la strage di Parigi, le autorità ci promettono ora “più sicurezza”. Cioè più militari nelle strade, più controlli, più sospensione dei diritti democratici e civili, più spese per il comparto militare-industriale. Più raid con i droni e gli F35. Eppure è una strategia che non funziona. Cosa c’era di più sorvegliato, di più militarizzato di Parigi e di Bruxelles? Eppure gli integralisti hanno colpito indisturbati, mietendo centinaia di vittime. E la prossima volta potrebbe toccare a noi. A saltare in aria potrebbero essere i vagoni della metropolitana di Roma, o i treni alla stazione Termini, o i clienti di un centro commerciale, o gli spettatori in un affollato cinema. Il terrorismo, si sa, è come un fiume: sbarrato un passaggio ne cerca un altro, e poi un altro ancora, finché non raggiunge il suo orrendo scopo. Allarmismo? No, realismo. D’altronde, ce lo ripetono in continuazione gli artefici di questa situazione, gli stessi che donano miliardi di euro agli sponsor dei jihadisti: “siamo in guerra”. E allora invece di far finta di niente continuando a vivere le nostre vite sperando di non avere la sfiga di essere noi le prossime vittime di questa guerra infinita, dovremmo fermarci un attimo a pensare, per comprendere come agire per tirarcene fuori. Sforzandoci di analizzare la realtà a partire dall’analisi concreta della situazione concreta, e non di suggestioni complottiste e auto consolatorie che negano nostalgicamente un mondo in rapida trasformazione per riproporre, nostalgicamente, una fotografia stinta. Una chiave di lettura complottista di quanto sta accadendo – “l’Isis non esiste, è un’emanazione della Cia e/o del Mossad”, “gli attentati non sono mai avvenuti, sono delle messe in scena”, “gli attentatori sono agenti dei servizi occidentali” e così via – servono forse ad aumentare la popolarità di qualche guru e a far guadagnare qualche like in più sui social network, ma non certo a spiegare una realtà che sfugge alle semplificazioni manichee di chi ha lo sguardo rivolto al passato piuttosto che al futuro.
Dobbiamo, innanzitutto, renderci conto di avere un nemico in più rispetto al passato. Decenni di interventi sciagurati e indiscriminati dell’imperialismo – il nostro imperialismo – in Africa e in Medio Oriente hanno creato le condizioni per la nascita e l’affermazione di un nuovo soggetto internazionale – il cosiddetto “terrorismo jihadista” – che si copre e legittima attraverso l’adozione dell’ideologia jihadista per incarnare e rappresentare la voglia di vendetta e riscatto da parte di centinaia di milioni di musulmani (o di europei discriminati, sbandati o in cerca di identità che nella versione più reazionaria dell’Islam intravedono una identità alla quale aggrapparsi), ma che in realtà risponde alla inestinguibile sete di egemonia da parte delle oligarchie delle petromonarchie e dei paesi dell’asse sunnita. Oligarchie sempre più potenti dal punto di vista economico, militare e politico e stufe di una subalternità nei confronti dell’imperialismo Usa e Ue che, nella nuova movimentata geografia dettata dalla competizione globale, non ha più ragione di essere.
La guerra combattuta, come la ‘guerra di civiltà, consente ai due contendenti di legittimarsi a vicenda. Le stragi nelle città europee permettono allo Stato Islamico di dimostrare alla folta platea di potenziali simpatizzanti la sua superiorità rispetto alle altre sigle della galassia jihadista, e al tempo stesso permettono ai governi europei di stringere il torchio sulle libertà civili e politiche, di aumentare la militarizzazione della vita quotidiana di centinaia di milioni di persone, di legittimare nuovi interventi militari. Una recrudescenza che a sua volta fornisce nuovi argomenti e appeal ai jihadisti così ancora più legittimati a ergersi a paladini delle comunità in cui si diffondono come metastasi.
Nella rivendicazione del massacro di Bruxelles il Califfato promette nuovi attentati nelle nostre città. I nostri governi invece promettono “più Unione Europea”, un esercito e una intelligence unici a livello continentale, una capacità di reazione militare maggiore, più efficienza, più controlli, più sicurezza. Mentre la signora Mogherini piange lacrime di ipocrisia, sui nostri giornali si invita il governo a fare come Israele, a serrare i ranghi, a sviluppare una sinistra complice e belligerante (come se non esistesse già!).
Ma non sarà stringendoci come un sol uomo attorno ai nostri leader, non sarà intruppandoci nell’Union Sacrèe proclamata dai nostri governi che ci salveremo.
Perché il nemico marcia alla nostra testa... oltre che alla testa degli altri poli di una competizione globale sempre più brutale e feroce. Solo sottraendoci a questo infernale meccanismo, cessando di alimentare la guerra e la destabilizzazione potremo sperare di vivere finalmente più tranquilli. Se quanto proponete come antidoto al terrorismo è una Unione Europea ancora più blindata, ancora più armata, ancora più feroce e aggressiva nei confronti dei suoi abitanti oltre che dei suoi nemici... beh, non contate su di noi.
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